Alessandro Canzian, “In absentia”. Poesia come “dialogo che si muove all’interno di una tradizione e che cerca di interpretare la realtà in cui nasce e vive”.

tre domande, tre poesie

Alessandro Canzian è nato nel 1977 a Pordenone. Nel 2008 fonda la Samuele Editore. Nel 2015 apre il ciclo di incontri letterari “Una Scontrosa Grazia” a Trieste e nel 2016 l’osservatorio poetico online Laboratori Poesia. Nel 2018 cura, assieme a Simona Wright, il 50° numero del “Nemla Italian Studies” del College of New Jersey dal titolo Writing in a Different Language: Transnational Italian Poetry (presentato nel 2019 a Washington), mentre nel 2021 fonda la rivista semestrale “Laboratori critici” (con e per la direzione di Matteo Bianchi). Dallo stesso anno collabora con Pordenonelegge pubblicando le collane Gialla e Gialla Oro e, con Roberto Cescon, apre e cura il sito pordenoneleggepoesia.it. Come autore ha pubblicato Il Condominio S.I.M. (Stampa 2009, 2020, prefazione di Maurizio Cucchi, premio San Vito al Tagliamento 2020).

Partiamo dal titolo (perché questo titolo?) e qual è stata la scintilla che ha portato il tuo In absentia? Meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?

In absentia nasce, credo come un po’ tutti i libri, da un pugno di testi scritti senza alcuna intenzione o direzione chiara. Senza pensiero insomma. Nello specifico ne ricordo l’occasione: era agosto 2020, tra aperture e chiusure date dal lockdown da Covid. Sono stati tre i luoghi in particolare legati ai primi testi: un parco del paese dove vivo (Maniago, Pn), il paesaggio carnico visto dalla camera al primo piano di un albergo di Arta Terme (Ud) dove mi ero fermato una notte, il lago di Cavazzo sempre in Friuli, se non ricordo male dalla parte di Bordano (il lago è anche chiamato “dei tre comuni” perché sulle sue sponde si trovano i comuni di Bordano, Cavazzo Carnico e Trasaghis, tutti in provincia di Udine). Quelli erano i testi forse più carnali, più legati al momento della vita e alla sua immanenza. In realtà di quei lavori è rimasto molto poco. Credo solo uno, il secondo della sezione da cui prende titolo il libro.

Il secondo momento lo spiego nella nota che ho inserita: “Parallelamente In absentia, il capitolo eponimo, deve una sua buona parte all’incrocio tra la scoperta di avere convissuto per qualche giorno (o settimana? era l’invasione dei topi in Friuli del 2021) con un topolino in casa e la rilettura delle Manuela’s poems di Peter Russell (La Linea dell’Equatore Editore, 2017)”. Qui l’occasione del topolino si intersecava con le letture e gli studi, tra tutti quelli sull’esperimento “Universo 25” di John Calhoun del 1968.

Anche quello che potrei immaginare come terzo momento lo spiego in nota, ed è stato particolarmente importante perché mi ha fatto affrotare una cosa per me nuova: “Sul fondo, invece, nasce in una sua primissima forma dall’invito di Luigia Sorrentino e Fabrizio Fantoni all’evento “Lingue mute-Poeti contro la guerra” che si è tenuto a Parrano il 26 aprile 2022. Evento al quale alla fine non sono andato”. Non avevo infatti mai scritto su un tema così spinoso e complesso come la guerra, anche per un rifiuto della poesia eccessivamente aderente al momento storico, o alla cronaca. Ma l’occasione mi dava modo di riprendere un vecchio desiderio di quando avevo tra i venti e i venticinque anni, ovvero quello di scrivere qualcosa come collage di citazioni (molto anni ’80 lo so). Quel lavoro nel tempo poi ha mutato forma e ha un po’ perso la sua direzione narrativa per diventare una serie di frammenti in versi (da un testo fondamentalmente in prosa quale era in prima battuta) diventando la sezione centrale, “Sul fondo”.

Un quarto e ultimo momento è forse quello che si svincola ancor di più dalla necessità di vita e che si esprime come ricerca poetica, o lavorio sul linguaggio. Dalla lettura di Exfanzia di Valerio Magrelli (Einaudi, 2022) a Un occidente prigionero di Milan Kundera (Adelphi, 2022) ho inteso affrontare sia la storia che accadeva (la guerra in Ucraina e la posizione dell’Europa, poi la guerra di Israele) sia il significato stesso dello strumento “poesia” ma evitando l’approccio privato. In quest’ultima fase ricordo solo un fatto “personale” che ha inciso sulla scrittura. Ero all’edizione 2022 di Pordenonelegge e tenevo lo stand della Samuele Editore. A un certo punto sono andato a bere un caffè in un bar e una ragazza al tavolino accanto ha attirato la mia attenzione. Ecco, quella ragazza è diventata la protagonista reiterata (un po’ come accadeva per i personaggi de Il Condominio S.I.M., Stampa2009, 2020) della prima sezione del libro, “Minimalia”.

Il titolo In absentia è un po’ la somma di tutti questi luoghi e occasioni ma mi sento di dire che alla fin fine resta ben poco di pertinente con la mia vita. È più un’assenza di qualcosa a livello generale, sociale ed esistenziale ma in riferimento al momento storico, al nostro essere europei, è un’assenza anche nell’ambito poetico. Che poi, inevitabilmente, quest’assenza trovi una sua incidenza nella vita personale (soprattutto nella terza sezione) non lo nego, ma la ritengo una cosa tutto sommato marginale almeno a livello di intenzioni (i risultati spesso vanno ben oltre le intenzioni, che non hanno mai del tutto il controllo del testo poetico). E, come ho già detto più volte, deriva da Exfanzia di Magrelli, libro per me fondamentale.

Ad oggi, dove sei stato condotto dalla poesia, qual è stato l’insegnamento? 

Non credo la “poesia” possa condurre da qualche parte. È un approfondimento della realtà se si intende per “poesia” la lettura e lo studio. E la riflessione, perchè non sempre letture e studi migliorano l’essere umano (purtroppo), anche se questo in teoria dovrebbe essere il loro fine. A me letture e studi hanno portato a pubblicare qualche libro, ad aprire una Casa Editrice, a fondare cicli e manifestazioni come Una Scontrosa Grazia e il Festival della Letteratura Verde, siti come Laboratori Poesia e Pordenoneleggepoesia (quest’ultimo per Pordenonelegge con Roberto Cescon). E una rivista, “Laboratori critici” (con Matteo Bianchi). E a fare eventi, tanti eventi.

Tutto questo va sotto l’etichetta possibile di “incontri”. A volte fortunati, molto più spesso no. E l’insegnamento deriva proprio da questi incontri e dalle loro dinamiche. Si impara che le persone fanno di tutto per un po’ di visibilità. Si impara che gli autori raramente sono legati ai propri testi ma li usano per avere momenti d’attenzione. Si impara che le persone cercano una collocazione per sé senza coltivare il luogo dove vogliono o dove potrebbero essere collocati. E si impara che le persone creano tante narrazioni, raccontano tante storie anche a sé stesse pur di potersi dire o pensare qualcuno.

La “poesia” è un dialogo che si muove all’interno di una tradizione e che cerca di interpretare la realtà in cui nasce e vive. Un dialogo al cuore e alla mente (in senso pascaliano) oggi quasi del tutto inutile perché gli autori cercano solo consensi e i lettori emozioni. Non che siano sbagliate le emozioni, sbagliato è il loro uso. Se infatti le si usano per “provare qualcosa” o per “identificarsi in qualcosa” allora le si sta semplificando e squalificando.

“Il quinto giorno Dio rimase/ in un silenzio attonito./ Per qualche istante/ il rumore dell’universo.”, con i tuoi versi per chiedere: le parole bastano alla poesia? La poesia è (forse) un destino? 

Questo è uno degli ultimissimi testi scritti, uno dei più recenti. E mi fa piacere lo hai citato perché mi da modo di spiegare quale rapporto si instaura con l’opera e non solo con il testo. Sono due cose differenti.

Come ho già detto ho cominciato a scrivere i primi versi di In absentia nell’agosto del 2020. E la sezione in cui sono confluiti è rimasta in qualche modo aderente a quelle prime idee pur declinandosi nella struttura ispirata dalle Manuela’s poems di Peter Russell. Nel 2021 poi mi sono accorto del topolino in casa che nella mia mente si è connesso al succitato esperimento di Calhoun e alla sua terribile considerazione sulla società umana, e successivamente alla lettura de L’isola dei topi di Alberto Bertoni (Einaudi, 2022), soprattutto del testo “Canalchiaro” dove un’orda di topi esce da un pavimento “picconato” per un lavoro di ristrutturazione. Qui devo anche ammettere un particolare curioso: leggendo quel testo ho fatto delle ricerche e ho una vaga memoria di un articolo che affermava i topi uscire dalle tane non durante le pandemie, e che la loro presenza o meno era una sorta di cartina di tornasole dello stato di salute generale. Ecco, questo è un ricordo estramamente nebuloso e che non sono più riuscito a trovare tanto da farmi ipotizzare con certo margine di sicurezza un “falso ricordo”. Eppure ha inciso moltissimo nella definizione del “mio” topo.

Durante la scrittura si sono quindi messi in relazione Dio e topo, un poco all’ombra di Schopenhauer  devo ammetterlo. Con il ribaltamento di questo Dio così eccessivamente umano e il topo invece, non certo divinizzato, ma sicuramente più saggio e consapevole. Fino ad arrivare al testo finale del libro (con il riferimento a Brezmes come bene sottolinea Martin Rueff nella sua nota critica) dove “Un nido di topo già morto / non fa primavera, Dio / è un sinonimo di mai”.

Ecco, alla fine dell’opera, dopo anni di visioni e revisioni, mi sono chiesto se fosse giusto chiudere la questione così. Non mi sono posto direttamente la domanda “la poesia è un destino?” che tu mi poni, ma non ci sono nemmeno andato lontano. Viviamo in una realtà che ormai va ben oltre il nostro controllo. Conflitti, malattie, incidenti, tutto è ormai molto più grande dell’essere umano stesso. Faccio un esempio molto banale per far comprendere il dislivello delle misure: una volta in guerra avevi il soldato col fucile davanti, oggi hai il drone. Il soldato lo potevi per assurdo affrontare perché era come te, era identico a te, il drone no perché a tutti gli effetti in guerra ti è superiore. Mi sono chiesto quindi se In absentia dovesse solo interpretare quello che a me pareva essere il mondo oppure tentare quello scalino in più dell’“immaginazione”. Insomma mi sono chiesto se, seppure nella vita siamo “destinati” a soccombere agli eventi, questo dovesse essere presente anche in “poesia”, nel testo.

Non ci sono riuscito completamente, pur avendo affrontato la questione per settimane. Quel “rumore dell’universo” non so nemmeno io se sia un canto o lo sferragliare del caos. Certo è che si sente solo di fronte al “silenzio di Dio” che è, purtroppo (e ribadisco ho passato settimane a cercare un sinonimo), “attonito”, in una sfumatura che il contesto rende chiara e inevitabile.

E in questo rispondo alla domanda: “le parole bastano alla poesia?”. Ovviamente si, ne sono i mattoni. Non c’è poesia senza parole (ovviamente “questa” poesia, nel significato più ampio di “senso poetico” anche l’arte è poesia, anche il cinema muto è poesia). Ma bisogna avere il coraggio di affrontarle, le parole. E non è semplice. Perchè affrontare le parole significa affrontare la realtà.

Aggiungo una piccola nota a questa risposta, mentre cerco precedenti versioni dei testi per la tua ultima domanda, perchè scartabellando tra i file mi sono accorto che quel “Per qualche istante / il rumore dell’universo” è stato una ripresa di un testo che ritrovo in una versione dell’aprile 2022. In quei giorni il tentativo era di scrivere un periodo su Dio che equilibrasse quello sul topo. Periodo a cui poi ho rinunciato. Devo ammettere (avevo completamente rimosso) che in quel caso la sfumatura di significato era, o appariva, molto più positiva di come è diventata poi. Il testo: “Ho visto un Dio assente / nella parola lasciata dalla scarpa. / Un moscerino, un figlio. / Per qualche istante / il rumore dell’universo”. Questa modalità “taglia e cuci” me l’ha insegnata Maurizio Cucchi diversi anni fa. Eravamo a Milano, se non ricordo male nel 2017, in un bar. Io avevo portato la stampa di una prima versione de Il Condominio S.I.M. e ricordo Maurizio prese una penna e nei primi tre testi mi disse: “taglia questi e questi versi, questi altri invece prova a metterli insieme e vedi come viene”. Un grande, grande, grande insegnamento.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro; e di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere (nel contesto del libro che l’accoglie).

Ora abuserò un poco della tua gentilezza per allacciarmi alla nota della risposta precedente e introdurre, prima di venire alla tua domanda, un altro aspetto costitutivo dello scrivere poesia: la rinuncia. Scrivere poesia è sempre rinunciare a qualcosa, a qualche testo, a qualche aspetto, per la gestione dell’opera (come dicevo prima opera e testo sono due cose differenti e hanno esigenze differenti). Questo comporta l’eliminazione di alcune poesie e vorrei ricordarne quindi un paio (anche questo è editing, l’accaduto come dici tu).

Ultimo giorno d’Europa.
Tra i soldati che discutono
sul rancio per chi resta
è veramente solo
solo chi scrive.

Il primo è un testo a cui tengo particolamente. Parte da uno dei titoli proposti da Orwell per il suo 1984 (appunto The Last Man in Europe) all’Editore che ha poi scelto diversamente. Per poi proseguire con una citazione dall’ottimo Guerra di Franco Buffoni (Mondadori, 2005): “Scontri carestie epidemie massacri / traffici d’armi paradisi fiscali riciclaggi / terrorismo su scala planetaria. / Mio padre mi ha mandato / all’incontro della storia / con gli scudi e i paraphernalia, / e io mando voi / profughe alla stazione / tra i soldati che discutono / sul rancio per chi resta”. L’ho dovuto togliere perchè dava un senso eccessivamente “apocalittico” all’opera. Ma spero di poterlo riprendere nel libro in cui In absentia confluirà tra qualche anno.

Siamo la rondine sbrecciata,
il bene che resta fuori.
Trasmutano i coppi d’un
tetto la neve d’agosto
morbida
come un gattino morto.

Questo è uno dei primissimi testi scritti, come ho detto all’inizio di questa intervista, ad Arta Terme (Ud) ad agosto 2020. Lo riporto perchè è un testo che ha molti debiti verso Ferruccio Benzoni – “Chi apra le mie carte e / sulla polvere soffiando legga / lessici, neve / cartilagini / di un inverno freddo senza stelle / – non altro lo sguardo implorando / che una sepoltura / d’aprile tra lavanda rosmarino – / d’altra neve in attesa / morbida come un gattino morto” (da Sguardo dalla finestra d’inverno, Scheiwiller, 1998) – e i debiti sono una delle questioni più complesse in poesia. È un po’ quel che si dice quando si afferma che “i padri vanno seguiti e poi uccisi”. Un’altra forma di rinuncia.

Ora torno al tuo invito e, per rimanere aderente al format di tre domande e tre poesie, dato che ne ho già messe due (pur non presenti in In absentia), propongo un solo testo dal libro:

Lungo la strada il miraggio
d’un capannone non basta
a sorvolare la storia.
Eppure siamo stati felici
come una propaganda.

Se non ricordo male è una poesia del 2023, forse non tra le migliori ma mi da modo di rispondere adeguatamente alla tua domanda. Riprende dei versi del 2022: “Al trecentesimo giorno / ci pensavamo felici / come una propaganda. / Non avevamo mai / lasciato la gabbia”. Inizialmente avevo pensato “Minimalia” come conclusiva del libro e ben più ampia di quel che poi è diventata. Intercalava due diversi percorsi alternandone le sezioni (alla Kundera, per dire). Il primo, quello della “ragazzina”, è rimasto. Il secondo riprendeva la tematica del “topo” raccontando in qualche modo l’esperimento di Calhoun. Conteneva il testo proposto, anche se poi ho tolta l’intera sezione.

Trecento” faceva riferimento, in maniera un po’ arbitraria, al periodo in cui i topi dell’esperimento si riproducevano e creavano una struttura sociale priva di grossi problemi. Prima dell’implosione, accaduta circa un anno e mezzo dopo l’inizio. La chiusa invece voleva riprendere una riflessione sul conflitto tra Russia e Ucraina. Riporto la nota al testo (che poi ho ripreso in altra forma nella nota del libro): “Quello che accade tra Russia e Ucraina è quell’“elefante nella stanza” di cui parlavo in una delle prime note. Pensavamo d’essere evoluti, ci siamo scoperti fermi in una Storia vecchia di decenni. La cultura umana, di fronte alla Storia, non è evoluta”.

La parte centrale di quel vecchio testo invece, il “ci pensavamo felici / come una propaganda”, faceva riferimento ad alcuni video e articoli che avevo visto e letto sulla propaganda politica e bellica del Novecento. Non sulla propaganda in quanto tale ma sugli effetti che essa produceva (e che, purtroppo, produce ancora). Persone che andavano a morire si convincevano fosse il loro bene, si convincevano d’essere in qualche modo “felici” perché la propaganda diceva loro d’esserlo. Mi ha sempre colpito molto la manipolabilità dell’essere umano (oggi evidente, in maniera molto banale, sui Social).

Abbandonato quel percorso con l’elisione del testo e della sezione, e ascoltando un suggerimento di Gian Mario Villalta di alcuni anni prima (“non essere troppo lineare, metti qualcosa che rompa la progressione, qualcosa di inaspettato”), durante un semplice spostamento in auto qui in Friuli mi è tornata in mente una lettura se non erro del 2014, che bene siglava quello che è stato il grande mutamento da realtà contadina a realtà industrializzata del Friuli degli anni ’70. Ne riporto un estratto: “In Friuli c’è una strada, la Pontebbana, che da Udine porta verso Tricesimo, Tarcento e le montagne. Lontane, sempre più lontane. Qui sono visibilissime le tracce di un processo di industrializzazione oggi in crisi, ma che inizialmente è stato rapido e aggressivo e ha arrecato danni gravissimi all’ambiente: non più filari di alberi lungo la statale, ma ipermercati, centri commerciali, paradisi del salotto, in una babele incredibile di capannoni industriali, merci e linguaggi. Non più case di sassi, ma ville di nuovi ricchi pacchianamente fastose” (da Poeti del Friuli tra Casarsa e Chiusaforte, a cura di Anna De Simone, Edizioni Cofine, 2012).

Ecco, in quel momento, guidando, ho visto ciò che per me era sempre stato lì: “il capannone”, o meglio “i capannoni”. Come ho detto il Friuli ha avuto un grande impulso all’industrializzazione durante gli anni ’70, complice anche il terremoto e la ricostruzione, e uno dei simboli è proprio la presenza di capannoni industriali al posto dei campi (l’industrializzazione che ha cancellato il Friuli contadino è stato un tema molto caro a diversi poeti e scrittori come Amedeo Giacomini, Elio Bartolini, Leonardo Zanier, Sergio Maldini ma anche Pier Paolo Pasolini, Pierluigi Cappello e lo stesso Gian Mario Villalta). Vedevo l’ovvio insomma.

Il testo è quindi diventato “Lungo la strada il miraggio / d’un capannone non basta / a sorvolare la storia” come proiezione di quegli anni, delle loro aspirazioni e delle loro distruzioni. È morto un mondo con l’avvento massiccio del capannoni. Ed è servito? Già nel 2012 la De Simone parlava “di un processo di industrializzazione oggi in crisi”. Ho poi sovrapposto tale descrizione al testo precedente che si riferiva al disfacimento della società con una tecnica che, ad esempio, usa magistralmente Sonia Gentili nel suo bellissimo Un giorno di guerra (Aragno Editore, 2024). Ovvero la compresenza di diversi mondi e tempi in uno solo. Così in quel “capannone” e nell’aspirazione a cui portava è entrata la propaganda politica e di guerra, quell’essere felici perché te lo dice la propaganda e ti ci senti pure, felice. Di una felicità artificiosa, costruita, precaria, che non regge di fronte alla sua stessa storia. Tutto è compresente perchè tutto, in fondo, è identico. Con l’aggravante del passaggio dal “ci pensavamo felici” al “siamo stati felici”.

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