Alessandro Silva, “La poesia deve essere dialogo”.

Nel 2017 scrissi una recensione del libro di Alessandro Silva (poeta parmense, classe 1976): L’adatto vocabolario di ogni specie (Pietre Vive Editore, 2016, vincitore del concorso di scrittura sociale Luce a Sud Est). La forza motrice del libro, nel tempo, non si è esaurita; altre positive recensioni hanno contribuito a far conoscere la voce di questo poeta riservato, dallo stile molto personale. Con piacere, oggi ritorno a parlare di lui e dei suoi scritti, ma attraverso un’intervista. Il dialogo con Silva, come le sue poesie, svelano che la riservatezza cela l’energia di un vulcano dall’apparente stato di quiete.

Quali sono stati i passaggi cruciali, le esperienze, le intuizioni che ti hanno portato a sviluppare l’attuale poetica?

Una malattia, e il lavoro precario (per non chiamarlo disoccupazione): sì, sono pienamente figlio dei miei tempi. Ne ho (ri)cavato anche sofferenza e silenzio: dovrei ritenermi per questo infelice? No, perché sono un poeta e i poeti felici esistono: sono quelli fertili, in produzione. Felicità è cogliere l’occasione del momento e tramutare esperienze e intuizioni nella lingua poetica dei perduti. Una lingua che può abbracciare tutti e non sogna la vita ma dice, della vita, qualcosa di ognuno. Oggi sto cercando di imparare l’ultima lezione (chissà quale mai sarà la prossima e se arriverò a completarla): lasciar andare e farsi consapevoli dell’incertezza e del disagio, utile maestro che scuote e prepara il cambiamento.

Il tuo libro, con uno stile molto personale, a tratti anche sognante malgrado il tragico tema trattato (il dramma di un operaio dell’Ilva) è un libro di denuncia. Cosa pensi dell’attuale corrente di pensiero, per la quale il poeta deve schierarsi, essere coscienza critica della società? Può essere limitante per la poesia, oppure, come nella poesia che rispetta fedelmente il canone metrico, potrebbe essere uno schema rigido entro la quale “costrizione” può affiorare il talento dell’autore?

Qua tutti urlano, sbraitano; qua tutti dicono e accusano, tutti tesi a tessere perfette strategie dell’orrore – e dell’errore – per incuterci paura e soggezione, o timore di sbagliare: ma un essere impaurito e stretto, oltreché nutrito male, si infuria nel modo peggiore contro gli altri.
Io non voglio dare lezioni o ingozzare, né suggerire con i versi in che modo mi sono schierato e vorrei si schierassero gli altri. La poesia deve essere dialogo: io scrivo, tu leggi? Bene, discutiamo sul valore di ciò che ho scritto e di quanto tu hai detto, lasciando fuori il resto; raccogliamone i pregi e costruiamo un progetto di crescita; diffondiamo il progetto facendocene portavoce: ecco dove e quando emerge la ‘coscienza critica’ del poeta. Insomma, occorre isolare il mondo per capire come ri-costruirlo. A parole e fatti.
Il talento dell’autore che affiora nella costrizione, metrica o meno? Certo, sono d’accordo. Perché, come già affermato prima, credo sia nel disagio che si può trovare l’intuizione e la forza per emergere e mostrarci nella nostra natura rinnovata.

La poesia italiana del 900 ci ha regalato grandi opere che testimoniano la tragedia della guerra, penso, per esempio, a Ungaretti e Sereni. Qualcuno di questi autori ha contribuito a plasmarti, a indirizzarti? Ti senti in qualche modo discendente da loro?

Citi Ungaretti, il primo amore poetico conosciuto addirittura alle elementari. Ne potrei aggiungere decine di altri e diverrebbe un elenco caotico di voci. Ecco solo due nomi: Cesare Pavese e il (non) poeta Italo Calvino. Il primo scrisse in modo febbrile per tutta la vita ma continuò sempre a sentirsi un esule, della vita e dell’amore. Calvino divise la sua vita letteraria in periodi in cui fu influenzato da condizioni e ambienti differenti, nei quali si mosse sempre con fluidità e rara potenza espressiva. Nessuno dei due smise mai di misurarsi direttamente con i problemi della loro contemporaneità, ognuno con i propri filtri letterari. Da queste due figure mi sento attratto e, per imparare, imito: siamo, in fondo, tutti cuccioli nel territorio della poesia e dobbiamo, per crescere, ascoltare e osservare chi ci precede, e ripeterlo aggiungendo infinitesime (magari non volute) variazioni. Per arrivare a qualcosa di completamente nuovo.

Tornando al tuo libro, nelle poesie appare importante il ruolo dello spazio. Per esempio, usi i cosiddetti “versi a gradino”, oltre a lasciare molto respiro fra i versi. Le poesie non appaiono graficamente “compatte”. Ci puoi spiegare le ragioni di questa scelta stilistica?

I versi a gradino sono un’interruzione nel respiro del protagonista (operaio, moglie o voce narrante in terza persona) che racconta o si racconta. Pensieri affastellati nella mente, a volte interrotti o deviati, in cerca di una vena espressiva nelle parole (poetiche in questo caso). Gli spazi bianchi insufflano aria in questi crocchi, li dilatano, e danno modo a chi pensa o parla di godersi una incantata solitudine, senza più parole, nel silenzio; che, poi altro non è che il sentire più profondo e il capire cosa si cerca. La mia scelta grafica vorrebbe, dunque, restituire verità e corpo a quanto detto dai protagonisti della silloge.

Nella raccolta appaiono alcuni versi “oscuri”, credo intimisti, il cui significato si presta a diverse interpretazioni. In questi casi, per te, la forza propulsiva della poesia è l’immagine?

Amo le commistioni di linguaggio e sogno una poesia risultato di più arti: per il progetto e la costruzione di questa silloge mi sono molto affidato alle immagini viste, e alle visioni. Nette o a strappi, violente e nitide come in certi incubi, oppure placide e larghe tanto sembrare più larghe del tempo. Ne ho avute a fiotti, davvero molte, create dalla mia immaginazione o rielaborate da fotografie e parole trovati negli articoli sui quotidiani. E tutta questa ricchezza ho voluto riportarla nelle poesie. Di molto lavoro hanno avuto necessità i versi ‘oscuri’: perché sono quelli che colano e cadono, lentamente, restando sulla pelle a far prurito per spingerti ad andare a leggere e rileggere e, infine, capire.

Hai avuto riscontri dai cittadini di Taranto?

Presentai il libro a Taranto nel gennaio dello scorso anno ed ebbi modo di confrontarmi con un pubblico di gente del luogo. Percepii chiaro un conflitto (al quale cerco di dare risposta negli ultimi versi del libro): i tarantini sono affranti ma di spirito combattente (quasi incapace di usare la sua forza). Ognuno ha un congiunto più o meno stretto, o un conoscente, un amico, che lavora o ha lavorato per l’ex-Ilva e, se non ancora in vita, a causa della fabbrica è morto. L’ex-Ilva è davvero nel sangue degli uomini e delle donne, oltre che nel tessuto politico, economico e sociale della città: è ancora un forte nutrimento per la stessa sebbene il suo futuro, in questi ultimi mesi, sia stato più che mai incerto. E lo è anche quello dei tarantini, divisi tra la necessità di inquinare loro stessi, ossia ‘evacuare’ da una realtà di distruzione e morte, e lavorare, nel significato più antico e figurato del termine, cercato e scoperto con mia meraviglia: la radice sanscrita labh– che vuol dire l’intento di orientare la propria volontà e i desideri. Che, nel caso degli abitanti di Taranto, significa dirigersi verso un futuro sostenibile. Tutti lo dovrebbero considerare e capire come non possa trattarsi solo di una speranza.

Per il tuo atto creativo, la scintilla è l’intimo sentire o l’immagine raccolta dal mondo esterno?

Nel caso di L’Adatto Vocabolario di Ogni Specie, come già accennato prima, sono state le immagini a fare scintilla. Ad esse sono poi subentrate le suggestioni intime che mi hanno permesso di creare e raccontare la storia di un operaio qualunque e la sua lotta quotidiana per dare pane alla propria famiglia e sopravvivere al testamento della sorte di non poter avere figli: una malinconia asciutta / (che) non si sazia da sé (più che mai adatto verso di Tiziano Scarpa). Ripercorrendo il tempo della mia scrittura, posso affermare di avere avuto quasi sempre più suggestioni, per l’atto creativo, provenienti da immagini del mondo: partendo da queste, lascio poi sgrondare il resto, mi raccolgo e guardo.

La poesia, nel traffichìo quotidiano, inevitabilmente occupa uno spazio limitato. Sei solito appuntarti subito idee o immagini, oppure il tuo comporre scaturisce unicamente dal silenzio, dalla calma?

La poesia occupa, purtroppo, uno spazio limitato del quotidiano; eppure, tra i vari impegni oberanti, voluti o obbligati, sta tutto qui il mio meccanismo: non nascondersi e darsi anche solo un’ora al giorno per scrivere, finché questa diventi una consuetudine sana. Il tempo e la sua valenza di durata, poi, come sappiamo siamo noi ad attribuirla.
Ero e sono solito appuntarmi idee o immagini, nei momenti della loro comparsa, ma quante di queste ho perso per negligenza! Dal silenzio e la calma scaturisce il resto: il lento lavorìo di revisione e scelta della parola adatta, se mai esiste. L’opera continua di ricerca della bellezza del verso, e il suo inserirsi perfetto nella forma poetica con la speranza che, dentro, il lettore possa trovare qualcosa del suo sentire intimo.

Vuoi lasciarci tre poesie tratte dal tuo libro per i lettori?
Molto volentieri. In ‘Nuovo provvedimento di spegnimento’ racconto dell’ennesima e confusa lotta degli operai per salvaguardare il proprio lavoro contro le decisioni dei vertici al potere. ‘Pesce Maschio’ è un’invocazione e una cruda rinuncia dell’operaio protagonista, che conosce la necessità di dover lavorare come la certezza di poter morire per quanto il suo corpo, di malato, raccoglie durante il lavoro. L’ultima poesia dà voce alla compagna dell’operaio: una donna avvolta da sofferenze ma resiliente e capace di aprire le braccia al corpo e lo spirito impoveriti del suo uomo. Grazie, e buona lettura.

NUOVO PROVVEDIMENTO DI SPEGNIMENTO

ventuno/ luglio/ duemilaequindici

Qui non si procede. Non importa.
È stato sgombrato tutto e presto.

Nell’aria sfarinano i fumi
cola bianco dagli occhi
e su tutto muove raffiche
il corpo dei giorni passati.

Questo spiazzo di cielo senz’alberi
è [per noi inquieti] ampio abbastanza
in attesa del traffico nelle ore di uscita
dalle fabbriche quando lasceremo
il falso nome che ci hanno assegnato.

I carabinieri a presidio, in azienda
sono oppressori tranquilli.
Abituati al buio di menzogne
ufficiali nemmeno loro capiscono
più il silenzio di chi ha la colpa.

Ci divoriamo a vicenda parole bastarde.

 

 

PESCE MASCHIO

                                                                   […] Orfeo non si fece legare.
                                                                  Toccò poi la cetra e rovesciò il coro
                                                                 delle sirene in un sogno stupito
                                                                                                             di pietra.

L’altoforno Due impietra la mia
lingua ferita. Lascia ruggine di
elettricità e un secco occhio di sogno
a chiusa di una preghiera. Ci perdo
l’umore puro della giovinezza
nella pelle sudata dal fuoco mentre
muoio chiuso nelle vene da sotto
il tremore di peli.
                            Un crepitio
di gola e brace ingoio e sputo per non
morire secco come morì mio
nonno. Sopra una sedia come un vecchio
pesce che nemmeno le branchie spinge
al sole e cede al pensiero di terra
asciutta. Ci pianta la coda e lascia

aperta l’ultima bocca
                                  che più non allaccia il fiato.

 

 

SONO LA DONNA CHE DORME E TI GUARDA III

Di là della parete di questo caldo
domestico si spreca il mio nome,
diviene esercizio dell’aria taciuto
tra gli occhi di pesce al mercato e rose
insecchite dipinte a turchese.
Sul viso porto lenzuola ammaccate
di sonno e molte faccende diurne.
Quante donne a quest’ora.

                                             L’aria cruda
di sole le fa maturare, toglie loro
la pelle di vita distrutta e fa buona

quella di vita sincera, la stessa
dove gli uomini uccidono pianti
e sporco di carbone, tra collo
e seno.

           Un’acerba danza di volti
mi vuole possedere. Ancora credo

nel sonno del letto, affiancati.

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