Andrea Italiano, “Solo l’uomo” e la necessità di “rifondazione”

Solo l’uomo è il titolo con cui Andrea Italiano orienta il discorso poetico del suo ultimo libro (G. Ladolfi Editore, 2016) a dare sostanza a ciò che si definisce umano. Sotto una luce analitica e al contatto con l’esperienza la scrittura registra un disagio dell’individuo, reagisce a un mutamento di temperie (l’espressione latina in epigrafe al libro, etsi homo non daretur, anticipa e rafforza l’ipotesi di una perdita di senso che riguarda la condizione umana in senso lato).
Il libro si apre con un autoritratto, il poeta parla in prima persona, descrive e si descrive, poi dall’io passa al noi o si rivolge a un loro con rimbalzi efficacissimi di prospettiva e dinamismo delle istanze: “cerco sotto la pioggia l’enigma / ma non c’è più enigma / il mistero anche duro che altri stringeva alla ricerca / altri si chiedevano chi è / che muove le mani blocca le labbra della ragazza / si chiedevano come perché dove / la biologia la matematica della terra / noi ci chiediamo quando arriva l’ora di uscire / l’unico enigma è il codice di una carta magnetica” (Piove da un’ora). Il rovello che attorce questi versi è il medesimo che inquieta l’intera raccolta, il disappunto di sentirsi protagonisti (vittime o colpevoli?) di una deprivazione di senso, una sorta di reductio del vivere all’economia dell’esperienza, a fronte degli obiettivi appartenuti alle generazioni passate (o agli attuali lavoratori stranieri, Florin lavora con me), pur essi fallaci e inconsistenti, tuttavia funzionali a sostenere il corso di una vita. Il passaggio da una concezione all’altra, da una via di luce metaforica alla luce fisica di una lampadina, si mostra definitivo, perentorio, “è finita la corsa alla luce / la luce c’è sempre e ci basta”, come a dire che il tempo delle grandi spinte valoriali o ideologiche appare concluso. Rimane l’oppressione di un ingranaggio che persegue i propri fini schiacciando l’individuo, le aspirazioni sfilacciate nel minimo interesse a breve termine, perduta ogni tensione alla crescita umana: “contiamo questo perché questo conta / facciamo vita di consumo e consumiamo vite così / alimentiamo la macchina con la vita / e più la vita stringe più la macchina cresce” (Piove da un’ora).
Tuttavia la riflessione è meno legata alle contingenze dell’epoca di quanto non sembri da questi brani. La poesia che si origina dalla percezione della vanità del tutto, o dall’illusoria ricerca di felicità ha una intera letteratura alle spalle. Andrea Italiano v’innesta la sua visione con nuovo acume, attraverso l’immagine di un gesto ripetuto e sempre vanificato afferma l’ostinazione della traccia contro la dispersione, la tenacia dell’opera contro l’assenza di durata, “lei scriveva noi cancellavamo / com’è vana la vita / […] / eppure continuò a scrivere / e dopo noi per altri / è un dovere sforzare la mano al segno buono / trattenere è l’unico dovere che ci compete / ohimè.” (Lo scherzo alla maestra). Accanto a questi, con affilatura di segno malinconico, altri versi sostengono che “la felicità è un concetto triste / felici sono i morti / noi non vogliamo morire.” (Abbiamo tutti un coltello nella pancia) e incalzano “ma credimi quando ti dico / che la felicità non è sempre facile / che spesso la vita è un prestito a usura” (Laura è un pugile).
Non è facile mantenere saldezza d’intenti, fedeltà a sé stessi se l’uomo sembra mancare il suo centro, tanto più che le regole del vivere muovono sul filo della casualità, della coincidenza fortuita, là dove ogni minima variazione sia persino in grado di modificare un carattere, l’andamento di un destino: “una via anziché un’altra / questione di centimetri / e la catena salta la vita prende altre direzioni / […] / nel tuo stesso nome ti ritrovi straniero.” (Anche togliere una virgola). Citare il caso porta inevitabilmente a parlare di Dio, un Dio che fa scontare in una lotta corpo a corpo, “in una squallida rissa da bar”, la sua mancanza (Ho fatto anch’Io a botte con Dio, si noti l’Io con la maiuscola a conferire pari dignità a entrambi i soggetti), oppure paradossalmente invocato a liberare l’uomo da sé stesso, dalla sua stessa violenza, “il numero della bestia è il numero dell’uomo / […] / il nostro urlo ha sempre coperto la tua voce / e questo noi lo chiamiamo assenza / […] / liberaci da noi liberaci dal male / beati gli uomini che non conoscono l’uomo.” (Quale stazione mi sfila adesso davanti?).
Interrogarsi sulla natura del male equivale a confrontarsi con l’idea della morte, che “non è mai un fatto improvviso / si sente nell’aria ti avvisa per tempo / è un cammino lento” (Prima che sul volto), fino a cogliere una via di salvezza nell’opera di scarnificazione, “fate perdere peso / fino all’osso, fate di un corpo un osso / solo i leggeri volano via.” (Ora entrate voi).
Nemmeno l’ambito familiare redime, o l’infanzia, sovente mitizzata nel ricordo, perché “quasi sempre la realtà schiaccia il mito” (Come Ulisse ho cominciato la casa). Forse il linguaggio, risorsa primaria del poeta che ripara nell’atto creativo, è baluardo di resistenza, seppure anche qui insidiano secche di ambiguità, “una cosa con il nome di un’altra / una parola al posto dell’altra / questo spreco lo rimpiangeremo.” (Le parole ormai). La poesia per Andrea Italiano sa ancora mantenere la sua prossimità al vero, l’andamento dello stile, la grafia da cardiogramma ne traduce l’inquietudine, ora nello slancio del verso che deborda oltre il rigo, ora nel contrarsi al singolo lessema.
Che soluzione dunque, che epilogo? Ciò che emerge è la necessità di una rifondazione, il grado zero a partire dalle rovine dei padri, dalle inadeguatezze dei figli, così che quelli che verranno “si riprenderanno il loro posto nell’universo / sapranno essere uomini e costruttori di futuro / nel loro nome si riconosceranno” (Dolcemente ucciditi). Dopo aver distrutto le pastoie di una eredità malata, è un modo di riconquistarsi.

 

Sette poesie da Solo l’uomo di Andrea Italiano, Giuliano Ladolfi Editore, 2016 2

Piove da un’ora
mi sono messo alla finestra
piove in diagonale
il vento spinge la pioggia così
è notte è finita l’estate
venti settembre
stagione chiusa nel classico dei modi d’autunno
domani è il mio compleanno
compio trentacinque anni
sono nel mezzo della vita
metà ormai dietro le spalle
metà forse non ci sarà
non sono sposato non ho figli
cerco sotto la pioggia l’enigma
ma non c’è più enigma
il mistero anche duro che altri stringeva alla ricerca
altri si chiedevano chi è
che muove le mani blocca le labbra della ragazza
si chiedevano come perché dove
la biologia la matematica della terra
noi ci chiediamo quando arriva l’ora di uscire
l’unico enigma è il codice di una carta magnetica
che resta spesso imbrigliato in qualche angolo della mente
tutto il resto è chiaro ormai
la luce al neon al led al plasma sopra la testa
funziona benissimo
può restare accesa h24 consuma quasi nulla
è finita la corsa alla luce
la luce c’è sempre e ci basta
contiamo i soldi nella tasca
quelli che dobbiamo dare
quelli che non ci daranno
quelli che servono per un 50 pollici
contiamo questo perché questo conta
facciamo vita di consumo e consumiamo vite così
alimentiamo la macchina con la vita
e più la vita stringe più la macchina cresce
invidio quelli che avevano trentacinque anni nel 1980
di fronte avevano una foresta strana
volevano crescere essere felici
fare le rate fare i figli fare la rivoluzione
anche sbagliando loro cercavano
noi di fronte abbiamo fabbriche che chiuderanno
e dopo chiuderanno la cassaintegrazione
unico comandamento di domani sarà cercare nuovi
lavori
e non perderli
(come mio nonno, prima e dopo la guerra)
o forse non li invidio, forse li accuso.

Lo scherzo alla maestra
aveva preso i contorni di allegoria
lei scriveva noi cancellavamo
lei scriveva noi cancellavamo
lei scriveva noi cancellavamo
com’è vana la vita
avrà pensato alla centesima volta
anche il solco più profondo
il vento la pioggia lo cancella
eppure continuò a scrivere
e dopo noi per altri
è un dovere sforzare la mano al segno buono
trattenere è l’unico dovere che ci compete
ohimè.

Abbiamo tutti un coltello nella pancia
e sale nella carne la carne ferita
beate le onde del mare
il vento che si insinua dove vuole
beati persino i pesci
loro non aspettano altro che fluire
noi abbiamo a terrore il fluire
loro non sanno altro che felicità
noi conosciamo l’oltraggio la delusione
le speranze tradite il rancore interminato
qualche risata rubata alla vita ogni tanto
la felicità è un concetto triste
felici sono i morti
noi non vogliamo morire.

Anche togliere una virgola
uno starnuto dal discorso
da quelle origini che non conosci
una via anziché un’altra
questione di centimetri
e la catena salta la vita prende altre direzioni
da biondo a bruno
da ricco a povero
da vivo a morto e non sei più tu
nel tuo stesso nome ti ritrovi straniero.

Ho fatto anch’io a botte con Dio
stamattina per strada
una squallida rissa da bar
(colpi a tradimento ferite da taglio al volto)
sembravamo due amanti ognuno deluso dell’altro
che senso ha questa storia? – urlavo –
risposta nessuna
questa l’origine della lite.

Le parole ormai
nessuna traccia incidono più
ma come arance
che cadono sulla terra e marciscono
sono
poltiglia e mosche
non più carne e succo
una cosa con il nome di un’altra
una parola al posto dell’altra
questo spreco lo rimpiangeremo.

Dolcemente ucciditi
padre
fallo con gran spargimento di sangue
e ucciditi
facci questo ultimo dono
perché noi non sappiamo farlo
fallo come è giusto che sia
ci hai messo al mondo ora facci spazio
e sulla tua carcassa benedetta
cresceremo i nostri figli
così che possano ucciderci
almeno loro con le loro mani
perché è giusto così
oh beata generazione quella dei nostri figli
si riprenderanno il loro posto nell’universo
sapranno essere uomini e costruttori di futuro
nel loro nome si riconosceranno
assassini e giusti
faranno più cose di noi
a padri sgozzati
cambieranno qualcosa di quello che a noi sembra una scena immutabile
faranno il mondo nel modo in cui il mondo si fa
moriranno contenti
voi no (perché questi figli impotenti li avete cresciuti voi)
noi nemmeno (perché questi padri onnipresenti ci hanno fatto comodo).

 

Potrebbero interessarti