Antonio Devicienti sul saggio “Sentieri. Saggi e racconti sul corpo della scrittura”, Fallone Editore.

Intervista ad Antonio Devicienti a cura di Andrea Leone, incentrata sul saggio “Sentieri. Saggi e racconti sul corpo della scrittura” appena uscito per Fallone Editore, nella collana I Labirinti Concentrici.

  1. In Sentieri la scrittura non viene concepita come un atto puramente mentale e astratto, ma quasi come un organismo vivente, qualcosa che passa inevitabilmente attraverso il corpo e attraverso i luoghi reali e si lega e ci lega in modo profondo al mondo. Vorrebbe spiegare meglio questa idea?

– La percezione e l’idea che ho della scrittura è che essa stessa sia corpo, corpo cioè di chi scrive che, mentre scrive (e non importa con quale strumento lo faccia), accade, si trasfonde nell’atto della scrittura e si dà a essere poi letto. A mio modo di vedere non esiste separazione tra mente e corpo, spesso amo usare l’espressione corpomente proprio perché non riesco a concepire una mente senza il corpo e viceversa: il pensiero (e di conseguenza la scrittura) si nutre di sensazioni, di percezioni corporee, per me la scrittura è l’espressione gioiosa del vivere, festeggia il vivere anche quando affronta temi come il dolore, la perdita, la morte, la violenza perpetrata sui corpi e sulle menti delle persone. 

  1. Mi ha colpito un punto del saggio in cui si dice che l’arte non è terapeutica e non lo è in quanto la vita non è una malattia. Cosa può dirci al riguardo?

– Dal momento che nel libro mi soffermo anche sui testi di due poeti come Paul Celan e Alfonso Guida, mi si è affacciata la questione del nesso tra “disagio mentale” e scrittura; ebbene, stufo di continuare a incappare anche in libri interi dedicati a sondare la questione mostrando la tendenza a riconoscere nel disagio psichico la fonte della creatività artistica, ho sentito il bisogno di rimarcare la mia distanza totale da una simile convinzione, a ribadire la mia percezione della scrittura quale atto, ripeto, gioioso e, aggiungerei, atto che festeggia la vita anche negli ineludibili passaggi esistenziali segnati dal dolore e dalla perdita. La festa è un momento di solennità durante il quale la collettività si ritrova insieme per celebrare la presenza, ma anche l’assenza di quello che dà senso al vivere comune e in comune: non si scrive per sé stessi, quando si scrive si convoca, implicitamente, un’assemblea che possa aggiungere corpo (il proprio corpo) all’ancora esiguo corpo della scrittura; il singolo che scrive è l’accidentale recipiente di migliaia di voci che cercano di farsi udire attraverso di lui e che cercano eco nel corpomente di chi leggerà. Per me ogni lettura è festa.

  1. Come definirebbe Sentieri dal punto di vista formale? Si tratta di filosofia, critica letteraria, narrativa? Quali sono ì suoi punti di riferimento per questo genere di scrittura?

– Mi sia consentito respingere ogni definizione: mi piacerebbe che più di un lettore dichiarasse questo libro indefinibile – da parte mia amo molto, infatti, quei libri che travalicano e accolgono in sé i “generi” letterari tradizionalmente intesi. Per quanto riguarda i punti di riferimento potrei citare decine di autori e di libri, ma anche di brani musicali, di opere d’arte visiva, di luoghi visti di persona e immaginati, di film… Il libro è ricco di citazioni esplicite e di note a pie’ pagina che rimandano a opere e ad autori che costituiscono miei punti di riferimento, ma già adesso, a qualche tempo dalla pubblicazione, ho scoperto altre opere, altri autori che purtroppo ancora non conoscevo e che in queste settimane assorbono il mio interesse e stimolano la mia curiosità.

  1. La scrittura viene analizzata anche nel suo essere visiva, nel suo essere qualcosa che si vede, qualcosa che è anche un oggetto fisico e concreto, quasi un’immagine pittorica. Si potrebbe anche parlare di oggettività dell’opera d’arte, che esiste come indipendentemente dalla volontà dell’autore?

– Sì, senza alcun dubbio. La scrittura che si dà a vedere anche in forma di alfabeti a me sconosciuti o che si manifesta in forme che non sono soltanto il libro gutenberghiano mi affascina e mi attrae da sempre; la scrittura si può anche toccare, odorare, assaggiare anzi si deve toccare, odorare, assaggiare, fosse anche soltanto con l’immaginazione.

  1. In Sentieri è molto presente l’idea dell’andare, del camminare, del viaggio, dell’atlante, come se fosse il movimento a provocare la scintilla della scrittura. Si può applicare l’idea esposta nel libro anche a questo stesso libro? In che luoghi e in che occasioni particolari è stato pensato e scritto? Quali sono le sue geografie?

– Dopo che Enrica Fallone mi aveva offerto la possibilità di scrivere e di proporle un libro lasciandomi carta bianca su contenuti e scelte stilistiche, è seguito un lungo tempo di entusiasmo, ma anche di angosciosa attesa perché ho sempre saputo che “l’attacco” di un libro è, per molte ragioni, fondamenale, perché nella mia esperienza di scrittura l’avvio di un testo è quel momento preciso in cui si coglie la musica nascosta che necessariamente darà ritmo alla scrittura e la guiderà durante il suo svilupparsi; nello stesso tempo ho sempre fatto coincidere scrittura e andare perché ho sempre immaginato la lettura come un muoversi attraverso lo spazio della scrittura altrui e, di conseguenza, l’atto di scrivere diventa a sua volta un movimento, un andare, un indugiare, un affidarsi a una svolta oppure un tornare su alcuni passi già compiuti…

Avevo iniziato a mettere assieme degli appunti preparatori, tutti insoddisfacenti, anche se intanto si era formata l’idea di un libro-andare – ma è accaduto subito all’inizio della visita a Palazzo Leopardi a Recanati nel luglio del 2022 (visita sognata e desiderata da tanto tempo) che ho capito, in un folgorante istante, che il libro iniziava proprio lì, in quell’andare di stanza in stanza della biblioteca e nel vedere Giacomo Leopardi lì presente, muoversi tra quegli scaffali, percorrere quei corridoi, uscire nel giardino interno, avviarsi verso il Colle dell’Infinito… Il resto è venuto come da sé, anche perché il libro diventava l’occasione per scrivere di quello che da anni amavo e coltivavo e, appunto, di geografie sempre cangianti e sempre seducenti.

È stata una gioia inesauribile scrivere il libro perché essa coincideva con l’amore che coltivavo da sempre per certi testi, per certe opere e quell’amore esprimeva; ho la fortuna di abitare in una casa circondata dal verde e dal silenzio, confinante con il bosco ed è lì che viene alla luce tutto ciò che scrivo e, ovviamente, compulsando continuamente i libri cui faccio riferimento.

Le mie geografie interiori sono cangianti, anche se la Grecia, Parigi, la Germania, il mio Salento restano i punti fermi e irrinunciabili dell’atlante che, sì, è vero, aspira anche a essere questo libro. 

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