[Arte] Scalamatrice33 .: “quando sono felice ci faccio caso” di Paolo Strano

Nota di presentazione
Testo di Giuseppe Cona

La felicità, come un’onda che prende forma nel momento in cui la riconosciamo, è l’elemento centrale di questa mostra, immaginata da Paolo Strano apposta per Scalamatrice33 (a Caltagirone). Per Paolo ogni quadro è un gesto che afferma l’autenticità dell’istante in cui l’artista si lascia trasportare dalla gioia.
Le immagini si succedono come frammenti di un racconto visivo, un’esplosione di colori e forme che nascono dalla spontaneità del pennello e dal desiderio di catturare la bellezza effimera del momento.
In ogni dipinto, l’emozione diventa traccia, il movimento un segno che si fa visibile nella sua immediatezza. La ricerca della felicità non è una meta lontana, ma un percorso che si svolge tra le pieghe della quotidianità, un incontro casuale con ciò che rende speciale l’ordinario. Con l’uso di acrilico e carta, per Paolo, l’arte non è un esercizio di perfezione, ma una manifesta dichiarazione di libertà espressiva, dove ogni gesto pittorico è una testimonianza di vita, dove Marinella, l’Etna il ficus e Pascal diventano “ragione” per veicolare un’energia che fluisce senza costrizioni, senza barriere.

Questa mostra è un invito a fermarsi, a fare caso ai piccoli momenti di felicità che troppo spesso sfuggono al nostro sguardo distratto. Ogni quadro diventa un invito a scoprire e riconoscere quei punti di partenza in cui il cuore si accende e l’anima trova il suo equilibrio, anche solo per un istante. Un’arte che celebra il potere della felicità di riscrivere il nostro presente con la forza dell’emozione pura.

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Dallo scorso lunedì 6 gennaio, fino al prossimo 16 febbraio (visita su appuntamento), nello spazio d’arte posto al numero civico 33 si potrà visitare la mostra di Paolo Strano dal titolo: “quando sono felice ci faccio caso”. La mostra raccoglie alcune opere che l’artista ha immaginato apposta per Scalamatrice33, ciascuna è un invito ad esplorare “la profondità dell’animo umano e la ricerca della felicità tra le pieghe della quotidianità”. Segue il testo critico di Sebastiano Guerrera.

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In occasione di “quando sono felice ci faccio caso”
Testo di Sebastiano Guarrera

Diciamo subito che le opere che espone in questa occasione Paolo Strano sono d’impatto visivo immediato, ti vengono incontro in una fragorosa composizione di colori che ti abbaglia di commozione gioiosa. A vederle scorrere davanti agli occhi, si ha l’impressione di una successione festosa di immagini che si imprimono per capacità comunicativa, per una visibilità narrativamente compiuta e autoevidente. Non è necessario armarsi dell’acribia del critico per cogliere la fascinazione di queste opere su carta, felicemente pennellate da un acrilico fresco di tinte sgargianti, trascolorate e liquide, usate con appagata quanto sapiente alchimia compositiva, tanto veloce e precisa quanto definitiva, perché con l’acrilico, si sa, si può ritoccare, riprendere e “aggiustare”, ma di certo si perde l’immediatezza e la spontaneità del gesto.
Perché Paolo espone queste opere? qual è il filo conduttore della mostra? per dirla col filosofo dell’arte Arthur Danto, “a proposito di cosa” sono ciò che vediamo? Esse sono tutte senza titolo, e questo è sintomatico di un certo modo di Paolo di essere fedele ai valori della pittura e, nel caso in esame, della pittura figurativa, rifuggendo da metafore e simboli o da facili discorsi concettualizzanti e esplicativi. Da questo punto di vista, poiché non sceglie argomentazioni preconfezionate, la sua è una pittura non pregiudicata da analisi logiche che esulano dalla ricchezza propria dei segni dell’immagine visiva. In questo senso, Paolo è spinto a dipingere dall’incontro fortuito con le qualità sensibili e le impressioni visive accidentalmente catturate nel flusso del suo vissuto ottico e materiale. E’ un interprete dei segni che promanano da queste percezioni. Cosi operando prende le distanze dalle garanzie pseudo oggettive di una lettura dell’opera che fa della spiegazione e comunicazione di una tesi la dimostrazione di una necessità intellegibile, che ha l’urgenza di essere espressa. Per Paolo, piuttosto, l’intelligenza dell’opera, la sua intelligibilità, è nel suo stile, cioè essa traspare nella critica dei colori, nella dialettica tra figurazione e composizione. Si potrebbe parafrasare, per il preludio creativo dei suoi lavori, la stessa cosa che dice Deleuze del pensare: più importante del pensiero è ciò che dà da pensare. Più importane di ciò che viene rappresentato è l’urto sulla coscienza produttiva dei segni che visualmente chiedono di essere interpretati. Paolo dunque non ha nulla da aggiungere a commento delle proprie opere, nessuna teoria estetica o psicologica, nessuna rivendicazione politica o socializzante. In questo cogliamo un certo nichilismo, però un nichilismo attivo, vale a dire positivo, non quello reattivo, passivamente subito e esecrato da Nietzsche. Il nichilismo di chi dice sì alla vita della pittura, al suo vitalismo produttivo e autosufficiente. Un nichilismo dunque affermativo e potenziante. Paolo non vuole fare il necroforo del mondo, piuttosto lo vuole glorificare, e per far ciò passa per un linguaggio, la pittura. La pittura satura pertanto la sua semantica, il suo dire è tutto co-implicato nella scelta valoriale della pittura, che Paolo declina in forma morale, prima che estetica. Vale a dire, egli interpreta il suo agire etico di pittore all’interno del codice idiomatico della pittura, che traduce nel timbro univoco del suo stile. Ciò detto, resta il compito di capire se il perseguimento di un progetto come quello che vediamo in mostra possa essere “catturato” dentro una griglia cognitiva dove la dimensione del pittorico possa esprimere coerenza stilistica più discorsiva. Per rispondere facciamo tesoro della conversazione avuta con l’artista, il quale ci ha raccontato del suo stato d’animo sereno, se non di pieno benessere, che ha accompagnato, quasi fatto sortire, le immagini e la loro trasposizione materiale sui relativi supporti, la carta o la tela. Pertanto, possiamo dire che quelle esposte sono opere nate da una condizione di sintonia conciliativa e gaia col mondo che circonda l’artista, un contrappunto visivo di interrelazione col vissuto personale formatosi in uno speciale momento di predisposizione creativa. Decisamente questa processualità intinta nel sorgivo impulso della corrente gravitazionale e fatalistica della pittura si coglie appieno. Le opere qui esposte sono potenze espansive del raggio d’azione dell’essere, della sua affermazione produttiva, chi le osserva ne trae godimento, nel senso che partecipa a questa dimensione incrementale e attrattiva di un progetto di intensificazione della conoscenza attraverso le immagini. Si viene cioè sensibilizzati ad una risonanza con le opere che potenzia la percezione dello sguardo, aumentandone in qualche modo la gamma visiva e sensoriale. Da questo punto di vista, possiamo pure dire che in queste opere si annida un conatus, una spinta progressiva rivolta alla potenza della pittura quale riappropriazione della realtà come messa a valore del mondo, come sua esaltazione e arricchimento in un gesto artistico di espansione ed esultanza. Facciamo un esempio, nel quadro del grande ficus di piazza Marina a Palermo, troviamo una postura inneggiante al formicolante vitalismo della natura e alla sua celebrazione pagana, che si può accostare al poetare lucreziano: Infatti, le radici arborescenti invadono la scena, con la loro primigenia forza di esistere e affermarsi, allargando fino al limite massimo la propria crescita genetica, la propria potenza di espansione, spaziale e metafisica insieme. Esse solcano l’opera in un tripudio di rosso/sangue, quasi a voler significare una comune partecipazione del botanico alle vicende del mammifero, quasi a voler intersecare i piani della tassonomia dei viventi. Ma sono sempre le radici, proliferanti in modo asistematico e casuale, che si prolungano nei fusti che, a loro volta, si mischiano con l’altrettanta proliferazione dello sfondo. Si mette in azione pertanto una forza espansiva, affermativa, di dilatamento del potenziale biologico e metafisico dell’esistenza. Da questo punto di vista l’autore è un pittore spinoziano, nella misura in cui Spinoza impernia la sua ontologia metafisica sull’incremento della capacità degli enti individuali e collettivi di colmare appieno la propria potenza di esistere. Nel caso di Paolo, la pittura è messa in scena come sforzo di perseverare essa stessa nel proprio essere, saturando tutti gli spazi della propria ragione vivente. In altre parole, è l’opera che si espande sotto la normatività del fatto pittorico in direzione di una trasvalutazione della rappresentazione, che si staglia a guisa di immagine mondo in divenire, nel quale garbugli di luce, che è colore, si riverberano sfrenati in una prospettiva di virtualità produttiva. Come nell’opera della donna sdraiata su una spiaggia. In essa la figura distesa supina con posa classica e diafana risalta alla luce di cromie pulsanti che si addensano tutte attorno, sotto un cielo sbavato di rosso che accende di contraddittoria potenza il sole bianco che la circonda. La luce che non vediamo e che resta invisibile, nondimeno circonfonde di visibilità la figura sdraiata. Potremmo pure dire che Paolo, in questa immagine, mostra ciò che non si vede, ossia la visibilità, la quale è irriducibile al visibile, nascosta com’è in una latenza generativa.
I 14 dittici sull’Etna sono anch’essi dimostrazione di una riappropriazione visiva della realtà, della incentivazione a rileggerla su uno spettro più ampio e ricco della percezione ottica. Il vulcano è ritratto in una multiforme veste, quasi una rassegna poliedrica passa sotto i nostri occhi. L’Etna insorge quale paradigma al quale la sua immagine reale deve confrontarsi. Ci si pone la domanda se senza l’arte, vale a dire senza la riproduzione dell’Etna sotto forma grafica, lo stesso vulcano sia mai esistito come concetto di una realtà a se stante, dato che in qualche modo dialetticamente l’Etna reale ha preso corpo proprio dal confronto con la sua rappresentazione artistica, in questo caso quella di Paolo. Come la montagna Saint Victoire, il concetto reale di essa, nasce dalle rappresentazioni di Cezanne, così l’Etna si attualizza nelle riproduzioni di Paolo. Quindi, ancora osservando le varie Etna dell’autore, ci si chiede se invertendo Platone che, ricordiamolo, vede nell’arte la mimesis della mimesis (imitazione della realtà che a sua volta è imitazione delle forme ideali) non debba invece porsi la produzione artistica quale precedente logico prima che ontologico del reale. Insomma assistendo alla spettacolare multiforme visione dell’Etna di Paolo, viene da invertire la supremazia della realtà sull’arte, per ripensare quest’ultima come il gesto fondativo e precursore della realtà, intesa, proprio la realtà, alla stregua di principio assiomatico dell’idealismo (platonico in primis) dialetticamente asseverato dalla sua controparte artistica. L’Etna dunque è potenziata, nella raffigurazione che abbiamo davanti. Il suo profilo è esaltato, dissimulato e riletto con immaginifica perizia di colori e grafia. E come la montagna Saint Victoire di Cezanne, la si vede trasformarsi ai nostri occhi, invincibilmente uguale eppure diversa, semanticamente arricchita dalle versioni fantasmagoriche e “realisticamente” speculative di Paolo.
Nella serie dedicata al cane di casa Pascal, abbiamo una immersione totale nell’ambiente libertario dell’animale, che è poi una educazione sentimentale del cane. Pascal, immedesimato e confuso in una profusione di natura colorata, ci parla di una certa innocenza utopica, ormai per l’uomo perduta. Ci troviamo innanzi a una versione di un altrove primigenio e meraviglioso, una fantasticheria alla Rousseau, Pascal ci regala la visione di un mondo liberato e intensificato nei colori, reinventato nelle forme, un mondo lisergico e dalla coscienza dilatata e panica. La rappresentazione è quella di una zoologia dionisiaca, decentrata e de-soggettivata. Pascal è sovente fuori fuoco, delocalizzato, anche quando è ripreso in primo piano. Un passeggiatore divagante e dimentico di se, questo è Pascal. L’animale è ricco di mondo, potremmo dire. E il mondo è a-soggettivo, privo di centro e multicolore. Pascal ne riscrive le coordinate, le disallinea, rendendole vorticose e anarchiche, come nel quadro dove è visto dall’alto, avviluppato in un ambiente di linee segnate da un tratto libero da costrizioni formali e decontestualizzato dalla preveggenza dei bisogni materiali. La vita di Pascal, più che appesa al piolo dell’attimo, è assoluta immanenza, il culmine di una immemore presenza.
Nella ripresa della facciata barocca della Cattedrale di Sant’Agata a Gallipoli le prospettive geometriche sono riportate con perfetta tecnica pittorica, che sottolinea la solennità drammatica della fabbrica architettonica, e però inaspettatamente il cielo di nuvole pop che la incornicia vira la ieratica immagine del tempio in direzione di un dadaismo deragliante che innesca un giubilo della visione, sotto forma di un attrito stilistico che ri-movimenta il processo di ricezione.
Ancora un’ultima immagine riprodotta da Paolo sul grande formato della carta. Una donna sdraiata sul divano, forse legge, forse cincischia col telefonino. Fatto sta che la donna è immobile, assorta, anzi di più, intensamente concentrata. Eppure il quadro è mosso. La figura galleggia infatti in un interno liquido, tremolante di colori vivaci e fluidi. Tutto è mosso. La donna è il punto focale di una vicenda visiva annegata in sgocciolature di colore, in striature bavose che mentre la fissano, la fermano, nello stesso tempo la portano via, perché la fermentano in un brodo di coltura dove la chimica della pittura si ricombina incessante e irrequieta nei suoi elementi di base. Anche qui la pittura è gioia combinatoria, progressività in movimento, espansione molecolare del suo perimetro.
È il nostro gradiente morale che risulta accresciuto da questa effervescenza chimica della rappresentazione, sono le nostre passioni tristi ad essere messe fuori gioco? Forse.

Paolo Strano è nato nel 1964 a Premosello Chiovenda in provincia di Verbania. Si è poi trasferito in Sicilia con la famiglia. Ha frequentato l’accademia di belle arti di Catania diplomandosi in pittura nel 1991 tra i suoi insegnanti anche Franco Sarnari. Dopo un lungo silenzio espone nel 2000 in una piccola personale alla Libreria Almanacco di Acireale – saletta Tram-sito Artecontemporanea. Ha lavorato recentemente a Piacenza dove incontra il misterioso Cosimo il Bufalo autore di libri e opere su carta primitiviste di grandi dimensioni con il quale condividerà occasionalmente l’attività creativa. In questi ultimi anni ha esposto in varie mostre collettive e personali in musei e spazi pubblici e privati (tra cui Civica raccolta Carmelo Cappello e Castello di Donnafugata a Ragusa; Museo d’arte contemporanea e Scalamatrice 33 a Caltagirone) e gallerie come Quam a Scicli.
Vive e lavora tra Piacenza e Catania.