Asteroidi D’inchiostro
“libri come corpi celesti persi nello spazio dell’indifferenza”
Nathan Englander, un altro scrittore filo-Israeliano ebbene sì! Districarmi tra la prosa di questi autori che molte, a mio parere, similitudini hanno con l’universo letterario siculo è un mio chiodo fisso: è come se queste due terre martoriate da contraddizioni insanabili esprimessero una sorta di fratellanza o meglio una comunanza nell’esporre i propri mali. Ma chi è Nathan Englander, nato a New York nel 1970 da genitori ebrei e vissuto in Israele per diversi anni, uno scrittore principalmente dotato di quella scrittura capace di sedurti per il suo modo semplice e lineare di esporre una trama intricata ai limiti della spry-story, anche se il libro fondamentalmente sviluppa una tensione di conflitti per poi affondare in una storia di sentimentalismi, di pentimenti e di un senso di ricerca verso una precisa identità, quella di un uomo che soffre per amore, eppure dilaniato dai tradimenti perpetrati giocando coi mali di due popoli da sempre in lotta per il bene ma votati alla durezza dello scontro e del voler a tutti i costi far primeggiare le proprie ragioni. “Una cena al centro della terra” è un libro complesso, dove il conflitto geo-politico si incastra con le vicende esistenziali dei protagonisti. Sebbene costernato da molteplici piani narrativi, nei quali si succedono personaggi, luoghi e tempi differenti, è anche la confessione di uomini afflitti da valori assoluti seppur radicati nel male e nella violenza. E forse è per voler ricercare dentro a meccanismi patriottici che assolvono ogni assurda scelta giustificandola con il fine della libertà: chiave di tutta la lettura. Perché a volte ci si può aggrappare alla dignità di certe scelte motivandole attraverso l’odio, la solitudine, l’esilio, quando quella perdita morale fa di un uomo uno sconfitto felice oppure un infelice eroe del non senso. Dunque un libro che grida a bassa voce l’incapacità di trovare una soluzione nell’estremo conflitto Isralo-Palestinese. Così, Nathan Englander mette in scena i suoi protagonisti come il prigioniero Z che prima della sua carcerazione è stato un agente dei servizi segreti in crisi di identità a causa del suo desiderio caotico di voler aiutare gli israeliani e i Palestinesi dopo. Un uomo che si perde nei cortocircuiti della verità e per questo costretto al tradimento. Eppure capace di amare ai limiti estremi una cameriera conosciuta a Parigi che però nasconde un segreto, anche lei una spia? Poi c’è un altro personaggio chiamato il generale (Ariel Sharon pare d’intuire) che fa da contrappeso alla storia del prigioniero. Del generale in coma da anni, attraverso una esperienza mistica, conosceremo tutte le fasi del conflitto Isralo-Palestinese, mentre lui il prigioniero Z speranzoso attende il suo risveglio poiché è l’unico a sapere della sua vicenda di spia e quindi il solo a potergli concedere la grazia. Ma non mancano altri personaggi che man mano diventano filigrana di un’unica trama: non che questo romanzo sia un gioiello ma ha una preziosità analitica sulle vite dei protagonisti non del tutto banali. Leggendo delle loro solitudini e dei loro comportamenti è facile trovarne empatia, specie con le scelte che ogni semplice individuo a volte affronta nell’arco dell’esistenza, è quasi un massacro di identità mai ben definite, per le quali è necessario tradire se il fine è capire il senso di giustizia dell’altro. Nonostante questa complessità di ruoli e colpi di scena da vera spry-story mi balugina l’idea che forse questo libro è soltanto l’epilogo di una storia d’amore. Mentre fuori ossessiona il rumore di una pala meccanica, che scava per portare alla luce l’eterna falla fognaria, una impavida contemplazione mi spinge a soffermarmi su quel verbo “scavare” che associo agli operai, e che in un certo senso è quello che faccio: addentrarmi nella solitudine, scendere giù nelle viscere di questo libro e dei suoi interlocutori soli perché sconfitti dall’amore. Ogni pagina quindi potrebbe essere l’amo che lega la preda al suo predatore, perché è facile rimanere in apnea nelle acque del desiderio ma per quanto? Infondo ad ogni una di queste vite che si rincorrono nel racconto è il tempo quello che li mette a confronto con la resa finale, l’oblio. Lo stesso tempo che timbra questa scrittura sconnessa come un ring dove il prigioniero Z fa a pugni con il presente e il passato, tra una libertà mai del tutto afferrata visto che quando si muove tra Parigi, Berlino ecc. è quasi sempre un uomo braccato, e incarcerato al proprio destino, destino che lo vedrà davvero alla fine prigioniero sotto il deserto del Negev, assistito da un sorvegliante suo unico punto di contatto con il genere umano. In questo rapporto, a sprazzi messo in luce con situazioni anche tragi-comiche, sarà la cura che mette il sorvegliante sul suo prigioniero a illuminare il caos matematico di tutto il libro. La stessa cura con cui cerco nella mia memoria quei padiglioni dell’ex ospedale psichiatrico di Aversa quando con grazia osservavo la prigione che il destino aveva serbato a quegli esseri umani costretti a una diversità che li rendeva liberi e ossessionati da una risposta d’amore. Perché a volte anche quando non chiedi, l’interlocutore del bene grida dal suo mistero tutte le incertezze dello stare al mondo. Grida con quella fame immorale che ti trascina in una “cena al centro del dolore”.
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