Annamaria Ferramosca, “il farsi della forma travalica l’intenzione del poeta”.

“tre domande, tre poesie”

 

Qual è o quale dovrebbe essere (dal tuo punto di vista) la lingua ideale della poesia, la forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica e in che modo la vita diventa linguaggio?

Mi fai una domanda intrigante e complessa, che di fatto ne contiene tre. E sono felice di rispondere, ma mi perdonerai se lo faccio invertendo l’ordine delle questioni che mi poni perché mi sembra – per mia personalissima visione – che il terzo punto di domanda, e dunque la relativa risposta, sia quello centrale, da cui conseguono gli altri due.
E dunque a: In che modo la vita diventa linguaggio? rispondo:
È questo il tema fondativo della scrittura, tema originario, precedente ad essa, risalente all’epoca arcaica pre-verbale del linguaggio. I suoni che dai primordi abbiamo creato per comunicare bisogni primari, comprendevano già da allora la necessità di nominare tutto ciò che si presentava – e tuttora continua a presentarsi – come qualcosa in relazione con il vivere e il morire, sospeso tra questo e l’altro mondo, tra visibile e invisibile, tempo ed eternità. Questa doppia dimensione di ogni oggetto, fisica e metafisica, è stata da sempre affidata, lungo l’evoluzione del pensiero, al linguaggio, pur con i suoi limiti espressivi, e chi scrive attingendo al moto urgente della vita vi trascina inesorabilmente anche le soste di fronte ai lampi dell’inconoscibile, i silenzi del vuoto e del mistero. Il linguaggio apre dunque alla parola un tempo in cui la memoria di cose lontane si fa vicinissima (il mito!) e riconoscibile, anche se la distanza è incolmabile. É questo il moto da cui nasce la straordinaria ricchezza del linguaggio, che conserva nel lessico e nella forma, accanto agli slanci della vita reale, gli antichi residui del sentire e del comunicare, quel raccontarsi in cerchio storie e misteri, scoperte e terrori. Le tracce di questo substrato di memorie e di tensione conoscitiva sono evidenti nella poesia di ogni tempo, mescolate alle inquietudini della contemporaneità, e continuano a permeare la scrittura poetica attraverso una continua ricerca dei fondamenti del vero e del senso.

Da questa premessa deriva la mia risposta al secondo punto della tua domanda: Quanto la forma incide sull’essenzialità della parola poetica?
Se la vastità dell’ascolto, fatto di incessante e pure balbettante dialogo tra vita e oltre-vita, visibile e invisibile, incombe e guida la penna del poeta verso quel che tu chiami essenzialità della parola poetica, identificabile con la nuda ricerca di senso, nel farsi della scrittura poetica si apre quel misterioso spazio sonoro-ritmico-grafico in cui si delinea – inconsapevolmente – la forma. Dico inconsapevolmente perché sono convinta che il farsi della forma travalica l’intenzione del poeta, in quanto scelte lessicali, sonorità, ritmo, pause, tipo di versificazione, nascono e aderiscono spontaneamente, per il miglior esito possibile di fruizione, alla corrente visionaria che sommerge per vie ogni volta varie e inattese il pensiero di chi scrive.
La forma dunque non può essere costruzione razionale a priori artificiosa e ripetitiva, ma atto sempre creativo che, in quanto suggerito da qualcosa che è altro da sé, resta aperto a infiniti impensati esiti. E questo spiega anche il motivo per cui il percorso di un poeta non può essere un monotono plateau, bensì una curva oscillante i cui esiti estetici possono avere varia intensità perché più o meno intense sono state le percezioni del poeta, insieme alla sua ondulante capacità di restituirle.
Eppure la forma, pur autonoma, paradossalmente conserva uno stigma del pensiero attraversato, una sorta di impronta genetica dei nervi ottico e auricolare dell’autore, o dei suoi circuiti neuronali, che lascia un riconoscibile imprinting nella scrittura del poeta.

Al terzo punto della tua domanda: quale dunque la lingua ideale della poesia? alla luce delle precedenti riflessioni mi sento di affermare, senza addentrarmi nel noioso e pressoché sterile dibattito sulla forma, che la lingua della Poesia non può essere quella che risponde al bisogno di espressione dei nostri sentimenti, ma un linguaggio liberissimo che si offre ogni volta come tensione alla corrispondenza con la visione attraversata, come ricerca di una realtà altra, un’attesa sempre viva e aperta, che ha modalità formali variabili, ma spontanee e capaci di comprendere e restituire realtà, vita, miti, misteri, rivoluzioni, utopie, come dimensioni universalmente riconoscibili. Tutto questo magma dovrebbe essere espresso dalla lingua in un mix di lessico curatissimo, costanza del ritmo e adeguata struttura del verso, per lampi evocativi e memorabili, che conservi il sapore dell’autenticità e onestà dell’ascolto. La poesia è evento raro, ma possibile.

La poesia è tale se diventa portatrice di una visione che non è individuale (bensì sovraindividuale); qual è la tua opinione in merito?

A questa domanda se concordo con la visione non individuale, ma sovraindividuale della poesia, credo di aver almeno in parte già risposto. Aggiungerei che in poesia, per motivi essenziali, ontologici non può esserci una smaccata visione individuale, altrimenti verrebbe meno il carattere universale dell’arte. Inoltre riflettiamo sul fatto che la poesia è l’unica forma d’arte capace di esprimere un’energia visionaria connessa con l’energia cosmica, mostrando la continua tensione dell’essere umano tra terrestre e celeste, visibile e invisibile. É proprio attraverso questa capacità che il poeta riesce a superare i limiti dell’io, come da sempre fanno – e sorrido nel dirlo, anche senza drogarsi – i mistici, gli iniziati, gli sciamani (per inciso, in questi giorni sto leggendo il libro La caduta del cielo, di Davi Kopenawa, Edizioni Nottetempo, testimonianza illuminante di un ultimo sciamano amazzonico, che fortemente consiglio).
Oggi in ogni settore tutti corriamo il pericolo dell’individualismo esasperato e quello opposto e pure negativo dell’omologazione, da cui possiamo liberarci, come afferma anche la poetessa americana Jorie Graham (Fast, Garzanti) prendendo le distanze dalla tecnologia e mettendoci in ascolto delle voci provenienti dalla parte non umana della natura, come un bosco o un lembo di oceano, cercando di penetrare la loro segreta intelligenza. É l’ascolto intuitivo, quello che il vero poeta ricerca, mentre accoglie segnali e voci anche dai silenzi, attraverso il quale riesce a superare i limiti del pensiero egoico. Ricordo a memoria questi versi di Pierluigi Cappello:

felici di non avere un nome
forse daremo un nome a questa luce sugli occhi
e ci allontaneremo dalla città abbagliata
e le nostre impronte amate dal caso e dal vento
splenderanno quando qualcuno
chiuderà il cancello dietro a noi
e ci vedrà partire.

La lettura di questo ascolto largo in poesia potrebbe essere di aiuto a tutti, stimolando il desiderio di riscostruire nuova umanità in una visione globale, più larga e solidale verso ogni essere e la terra intera. E oggi, nella drammatica situazione pandemica che stiamo vivendo, mentre ci scopriamo isolati e senza centri di riferimento, siamo consapevoli che il pensiero logico imperante, nel suo creare antinomie e conflittualità, non può assisterci. La lettura e l’ascolto di poesia, che invece segue un procedere polisemico, analogico, dunque capace di un abbraccio globale, annullando ogni visione egoica, può farci cogliere tutta la complessità del reale e con essa la necessità di proteggere il legame tra gli esseri e tra esseri e cosmo.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare sei poesie dai tuoi libri “Andare per salti” e “Per segni accesi”; di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Sono ben felice di offrire in lettura sei poesie dalle mie due ultime raccolte: Andare per salti, Arcipelago Itaca, 2017, e il recentissimo Per segni accesi, Giuliano Ladolfi Editore, 2021. Delle tre poesie da questo libro, scelgo, come esempio del mio laboratorio poetico, l’ultimo testo, dal titolo Terra domani, cercando di ricordare il tempo anteriore alla scrittura, ma anche l’intero percorso. E ricordo, come quasi sempre mi accade, di aver avvertito qualche giorno prima della scrittura dei segnali prodromici (il titolo del libro Per segni accesi è indicativo), all’inizio confusi, come il racconto onirico fattomi da un’amica: la visione della Terra da un’astronave, scena che ha acceso subito nella mia mente l’immagine della Poetry Sound Library, la mappa sonora mondiale delle voci dei poeti, di cui sono ambasciatrice, realizzata in rete dall’artista Giovanna Iorio. Ho sentito, chiara, la voce molteplice della poesia formare un unicum di punti luminosi, come fosse davvero una musica delle sfere tesa verso un’armonia superiore. E ancora, brani di pensieri scambiati in precedenza sulla evidente bellezza degli ibridi si sono tradotti in scrittura inscenando un futuro di umani dai profili ibridati, immersi in questa musica planetaria che mi invadeva la mente sbalzandomi nella scena edenica di un mondo intero pacificato e colmo di senso, fatto di uomini-piante-animali-città-villaggi, luminosi nella loro armonica convivenza. Poi, pur conservando vivo il messaggio precedente, la scena ha abbandonato il sogno e il pensiero è ritornato alla cruda realtà dell’oggi, devastata dal virus, dove restiamo disorientati e come attoniti in una attesa. Attesa forse di quel senso che durante la scrittura pure avevo intravisto.

 

Tre poesie da Per segni accesi, prefazione di Maria Grazia Calandrone, Giuliano Ladolfi Editore collana Zaffiro, 2021

 

prima dell’ultimo buio prima
che si ripeta il disincontro
voglio abitare l’ultima foresta
respirare
desiderio di luce che s’avvera
in ogni foglia
senza che l’una mai sia d’ombra all’altra

ecco lo sento fibrillare in petto
quel canto sciamano un filo invisibile
lega i viventi a terra e cielo
appartiene allo spirito delle acque
tutto ciò che scorre sacro è il flusso
del fiume così di linfa e sangue

voglio abitare la mia tecnocittà
fiera di nuovissimi assetti e pure inquieta
saranno innocui gli oggetti che comunicano?
le tecnopareti sensibili ai richiami?

ecco lo sento fibrillare in petto
chiaro il desiderio vorremmo
case che ci proteggano da noi stessi
noi fiere in agguato
vorremmo inermi convivere
tra urti gentili* e stupore ininterrotti
fino all’ultima meraviglia mai descritta
in gioia poi poterla raccontare

*Sono gli urti gentili che mi auguro possano avvenire
nell’incontro tra i popoli (dal titolo di una poesia del libro Ciclica,
2014).

 

*

parla un continente intorno a noi dentro noi

deve esserci nascosto un non so che di vivo
nel rumore della pioggia nel silenzio della neve
nella rabbia della grandine
– pure mi fa tenerezza
il brusio della sabbia calpestata –
tutte vite brevissime
con permesso di voce solo a sprazzi

nessuno può intromettersi negare
nessuno può sporcare con
arroganti balbettii di scienza
ché i chiari incontri avvengono solo in sogno
quando cerchi si chiudono in gioia inaspettati

è in sogno che s’aprono i varchi per
l’altro
il sempre inesplorato il magnifico parlante
l’altro
che abita l’animale l’erba la pietra

perimetrate e nitide
pure le voci dal nostro corpo
ché parlano mani caviglie muscoli cuore
parla un continente intorno a noi
dentro noi

*

terra domani

mi dici ho visto in sogno il futuro
come da un’astronave guardavo
la terra venire incontro al suo domani

a tratti s’illuminava tra i rami
di lanternevoci onde vivide
da una mappa poetica sonora
(dal brusio emerge ogni voce
e nitida dice con lance di senso )

e i visi i visi di noi futuri
occhi e capelli lucenti
pelle ibridobruna

e le voci le voci
non più distinte ma
divenute paesaggio
bosco che scivola nella città
savana fusa nel villaggio

vedere caprioli in corsa
su autostrade deserte
e lupe venute a partorire
negli hangar silenziosi

sentire feroce il sole ridere
di noi umani confusi reclusi
a schivare corpuscoli armati
ad attendere lentissima
la chiarezza

Tre poesie da Andare per salti, introduzione di Caterina Davinio, Arcipelago Itaca, 2017

 

una casa che prima non c’era

mano che scrive
parla con il tempo
scrive ostinata
prima del nuovo diluvio

scrive di cose quotidiane
eterne inesorabili come
una nascita una fioritura
una casa che prima non c’era
la festa dei geni quando si mescolano
il coraggio d’inseguire utopie
(lasciavamo graffiti sulle rocce
i nostri cerchi i fuochi le impronte
di mille mani)

mano che scrive ostinata
a fermare il tremore

 

*

 

sembra che cadano dall’alto le parole

della poesia – mi dici –
come da un tremito di stelle
sembra un bruciare di schegge fossili
lampi d’altra memoria che migra

hanno esili braccia come leve di luce
a sollevare la grave pietra umana
non vanno per salti loro ma
per larghissimi voli
sulla nostra laguna sconsolata
a intercettare il centro innocente
la forma fetale del cuore

è vero è un pulviscolo di parole
che invade l’universo lo informa lo plasma
se ti metti in ascolto puoi avvertire
le onde d’urto nel bosco
il colpo secco dalla corteccia
il tuffo della rana di Basho
un chiamarsi tra loro – pianissimo – delle cose

e quella nostra stramba contentezza
nell’ascoltare

 

*

posto di pietra

cerca – ad esempio – il profilo di un vecchio
seduto sulla pietra al sole siediti accanto
inizia con un’inezia parlagli di vigne o di mare
accogli la sua lingua spezzata che trasforma
la piazza in fantastico teatro
di strampalati racconti
fanne ricordi fermi per l’inverno
vento caldo di favole ai tuoi figli

ritorna a fargli visita
ogni volta prima di partire
il suo posto di pietra così simile
al tuo vecchio banco a scuola
erano voli di parole-rondini
a lasciarti sigilli sulla fronte
nel becco rami che rifondano paesi
dove i profili tutti si somigliano

a mezzogiorno passarvi il pane
insieme tornare a casa
come stringendo al petto il mondo
prima della prossima tempesta

 

 

***

Annamaria Ferramosca è nata a Tricase (Lecce) e vive da molti anni a Roma, dove ha lavorato come docente e ricercatrice in campo scientifico, ricoprendo al contempo l’incarico di cultrice di Letteratura Italiana per alcuni anni presso l’Università RomaTreHa all’attivo collaborazioni e contributi creativi e critici con varie riviste nazionali e internazionali e con vari lit-siti italiani di poesia. Ha fatto parte per molti anni della redazione del portale poesia2punto0, come ideatrice e curatrice della rubrica Poesia Condivisa, che ha diffuso in rete la poesia di grandi autori da tutto il mondo. Inclusa nell’Archivio della Voce dei Poeti (Multimedia, Firenze), è Voice Ambassador per Italia e Puglia di Poetry Sound Library, mappa sonora mondiale delle voci poetiche.

Per la poesia inedita A.F. ha ricevuto il Premio Guido Gozzano e il Premio Renato Giorgi. Ha pubblicato in poesia dodici libri, tra cui il recente Per segni accesi, Giuliano Ladolfi Editore, pref.ne di Maria Grazia Calandrone, 2021; l’antologia di percorso Other Signs, Other Circles-Selected Poems 1990-2008, edita nel 2009 a New York per Chelsea Editions nella collana Poeti Italiani Contemporanei Tradotti, a cura di Alfredo de Palchi, con traduzione di Anamaría Crowe Serrano e Riccardo Duranti (Premio Città di Cattolica, 2^Premio Città di Sassari).

Tra gli altri libri: Andare per salti, Arcipelago Itaca 2017(nella rosa del Premio Elio Pagliarani , Segnalazione speciale Una vita di poesia al Premio Lorenzo Montano, finalista al Premio Guido Gozzano); Trittici – Il segno e la parola, DotcomPress 2016; Ciclica, La Vita Felice 2014(2^Premio InediTo-Colline di Torino); Curve di livello, Marsilio 2006 (Premio Astrolabio e finalista ai Premi: Camaiore, Lerici Pea, Giovanni Pascoli, Lorenzo Montano); Paso Doble, Empiria 2006; Porte/Doors, Edizioni del Leone 2002 (Premio Internazionale Forum-Den Haag).

Ha curato la versione poetica italiana del volume di percorso 3D- Poesie 2003-2013 del poeta rumeno Gheorghe Vidican (CFR 2015). Suoi testi sono stati tradotti, oltre che in inglese, in greco, rumeno, spagnolo, arabo. Ampio materiale bibliografico nel sito personale: www.annamariaferramosca.it

 

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