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Parola d’Autore

Bartolo Cattafi non è un poeta semplice. Capace di parlare ai lettori -e ai poeti- di ogni tempo in modo sempre nuovo come un grande classico della Letteratura, sfugge tuttavia a qualsiasi categorizzazione di sorta, ʻintruppamentoʼ, come si è detto, in correnti ben definite di cui, nonostante gli accostamenti (con i Novissimi, ad esempio), non si preoccupò. La sua versificazione magmatica sembra talvolta voler contraddire il già detto, riprendendolo e sviluppandolo ad un tempo. Da buon postmoderno (categoria, questa, difficilmente ascrivibile alla poesia, ma presa in prestito a buon diritto dall’arte, vista la sua doppelbegabung) finisce per autocitarsi e superarsi di volta in volta con esiti imprevedibili sia dal punto di vista delle strategie formali, così diverse nell’ampio corso di un’ispirazione che prevede soste anche lunghe (pensiamo al silenzio poetico di ben otto anni) e ripensamenti, sia da quello delle soluzioni concettuali che lo vedono assertore del più netto determinismo materico e al contempo delle infinite possibilità che possono trovare approdo nella fede. Cattafi riesce a gestire la compresenza di lessici specialistici che vanno da quello geometrico-matematico a quello commerciale de L’osso, l’anima, ed infine sportivo-agonistico di Chiromanzia d’inverno, trascorrendo dalla vocazione criptico-allusiva di Marzo e le sue idi a quella prosastica di 18 dediche (76-77). Le costanti immersioni nella materia accompagnano una poesia che vuole incunearsi nelle pieghe più profonde della realtà, quasi a sottolinearne con cinismo e caustica rassegnazione la necessità, per poi librarsi fino alle più alte vette concettuali, disegnando paesaggi metafisici di sillabe e sintagmi nella raccolta Segni, atta a definire il complesso rapporto che lega le parole ai realia (ma anche il prodotto letterario ad autore e destinatario) alla luce delle acquisizioni desaussuriane e della semantica strutturale; o proporsi come discorso metafisico-esistenziale in molti testi del ’72- ’73 confluiti ne La discesa al trono, nella postuma Simùn e in Marzo e le sue idi, raccolta, quest’ultima, rivelatrice di un tempo hördeliniano di privazione che rende Cattafi degno di figurare nell’alveo letterario e speculativo europeo, ricettivo com’è a suggestioni borgesiane e pirandelliane. Come Giovanni Raboni aveva sottolineato, proprio dibattendosi tra l’astratto e il concreto, la poesia cattafiana prende forma sovvertendo i poli di un dissidio che non si ricompone mai, se non apparentemente in un atto di libera resa ad una verità più grande che, accettata, dà valore anche ai molteplici mondi metaforici e immaginativi che non avevano fino a quel momento nesso né statuto ontologico. La venatura metapoetica e programmatica delle poesie, soprattutto da La discesa al trono in poi, alle volte esibita, altre sotterranea, ma comunque sottovalutata dalla critica tesa a negare una vera e propria teoresi al di là delle sparute dichiarazioni di poetica, ricompone il quadro di un macrotesto organico e articolatissimo che può verticalmente ospitare ascendenze baudeleriane (se pensiamo alla prima produzione), montaliane, ungarettiane, quasimodiane e finanche dantesche (in particolare nell’itinerario catabatico de La discesa al trono), sconfinando orizzontalmente nelle avanguardie figurative ed informali del Novecento e nelle contemporanee esperienze estetiche postmoderne: pensiamo al gusto per l’informe e al tema dello scarto biologico. Di sconfinamento dunque si tratta: quello di un limes spostato sempre più in là e arduo da raggiungere, da parte di una parola che vuole disperatamente essere «illimitata» superando tempi e spazi in cui è relegata, facendosi confronto con ogni alterità possibile, tornando puro segno antecedente a ogni ripartizione settoriale (pittura, grafica, disegno, fotografia), ed infine continuando a comunicare anche dopo il suo apparente esaurimento: guardiamo al tracciato semantico compiuto dal lemma «relitto» (già frequentato con implicazioni decadenti nelle prime prove poetiche) ne L’allodola ottobrina e in Segni. Risorsa da custodire gelosamente come una razione di emergenza «a bordo d’un canotto zattera relitto» (Razione di emergenza) nello stesso mare in cui più volte è stata stigmatizzata la disorientante complessità delle dinamiche storico-culturali, la parola riesce a mantenere la centralità di un’esperienza che si erge dalle rovine di ideologie e sistemi di pensiero («relitto di grandi geometrie») per diventare personalissima e unica («ora mia nave / mio punto-nave da dichiarare al mondo», Punto) fin nelle particelle più intime e costitutive («Che relitto ti chiedo / zampa di cavalletta / ala di farfalla / serpe sibilante / gamba di pi di qu / asta di ti di elle», Che relitto), per poi giungere quasi all’annullamento semantico a contatto con la realtà: «Ti vedo sulla spiaggia nella parte / di chi non è più sughero nè tavola / ma elemento leggero d’un altro paesaggio / parola illimitata / senza più segno e nesso / connotato catena tatuaggio» (Relitto). Parola dunque intesa come ʻrelittoʼ nella duplicità etimologica di cosa che viene abbandonata, lasciata -alla corrosione di molteplici e metamorfiche interpretazioni- e che al contempo rimane quale eredità spirituale del poeta, eterna produttrice di senso. Cattafi, dicevamo, non è un poeta semplice, ma la complessità della sua esperienza, sospesa tra riflessione teorica sulla lingua, adesione al reale, attrazione per il polimorfo, gestualità da pittura d’azione è tutt’altro che autocompiacimento, isolamento sdegnoso o obbedienza a canoni precostituiti. È piuttosto volontà di prolungarsi oltre, abbracciando i sempre più numerosi codici della contemporaneità che sono stati tenuti presente nell’analisi della produzione poetica e pittorica (in una parola: segnica) attivando, quando si è potuto, nuovi canali interpretativi e seguendo gli ampliamenti di senso, le anamorfosi, le risemantizzazioni dei diagrammi figurativi dalla prima alla seconda produzione.

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