Carlo Tosetti , “La crepa madre” fondamentale, come la poesia, per sostenere la vita.

tre domande, tre poesie

Carlo Tosetti (Milano, 1969), vive a Sirtori (LC). Ha pubblicato le raccolte: Le stelle intorno ad Halley (LibroItaliano, 2000), Mus Norve­gicus (Aletti, 2004), Wunderkammer (Pietre Vive, 2016), La crepa madre (Pietre Vive, 2020). Suoi scritti e recensioni sono presenti su: Nazione Indiana, Poetarum Silva, Larosainpiu, Paroledichina, Words Social Forum, Versante Ripido, elvioceci.net, Il Convivio, Lankenauta, Interno Poesia, giovannicecchinato.it, Poesiaultracontemporanea, Atelierpoesia, Unpostodivacanza, Centro Cultural Tina Modotti, Menti Sommerse, Tragicoalverman, YAWP (giornale di letterature e filosofie), l’EstroVerso, Pangea, Laboratori Poesia, Poetry Sound Library, Inverso – Giornale di poesia, Perigeion, La tigre di carta, Il Giornalaccio, Poesia del nostro tempo, Cartesensibili, Limina Mundi. È stato ospite delle trasmissioni: Percorsi PerVersi, in onda sulle frequenze di Radio Popolare il 30/01/2017 . Teatro Bla Bla, in onda sulla web radio Radio Bla Bla, il 7/5/2018. Pomeriggio216, sul canale televisivo Seilatv, il 4/10/2018. Collabora con Poetarum Silva.

Qual è o quale dovrebbe essere la lingua ideale della poesia, la forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica?

Non credo che la poesia abbia una lingua ideale, piuttosto penso che ogni autore abbia (o debba cercare) la propria lingua ideale, la prima forma, il primo “stampo” che si imprime nella sostanza caotica. La lingua – perdonate la considerazione ovvia – è un concerto di suoni, quindi ogni autore dovrebbe avere un’orchestra con la quale esiste una chiara, netta risonanza, rispetto a tutte le altre orchestre esistenti. Proprio in quanto “concerto di suoni”, la lingua evolve nel tempo. Questa è la ragione per cui il mio linguaggio spesso e volutamente si allontana, a ritroso, dai giorni nostri.
L’inabissarsi di molti vocaboli e la comparsa di altri, la riduzione del vocabolario personale (nonché la diffusione virulenta di anglicismi) ha variato definitivamente i suoni della nostra lingua, oltre ad impoverirla; è per tale ragione che io sono legato a una lingua italiana ormai superata. Io godo nella lettura dell’italiano, per esempio, di Svevo e non mi riferisco ora alla penna sopraffina, ma ai suoni melodiosi e armonici, direi rotondi, dell’italiano dei primi del novecento. Questo esempio è solo per esplicitare la mia risposta. Il mio italiano è spesso speziato da termini e suoni “retrò”, pescati dalla mia lingua d’elezione, ma unicamente mia. Credo allora che non esista una lingua ideale per la poesia, meglio indicare il lavoro sui versi, il cesellare, lo scavare, quali strumenti per arrivare alla propria lingua poetica. Il discorso intorno alla forma mi provoca sempre sudori freddi: non sono un critico letterario. Di getto, la mia risposta sarebbe che la forma e l’essenzialità della parola sono indissolubilmente legate e che, dalla prima, ne discenda la seconda. Domando, però: cosa si intende per forma? La lingua è la prima forma, ma per forma si intende la tecnica di versificazione. A mio modo di vedere, il costringere la poesia in un numero obbligato di sillabe (e di versi) e l’assoggettarla a strutture e altre regole obbliga a un esercizio di sintesi, spinge verso quella che hai chiamato “l’essenzialità”. Questo confinarsi in una misura precisa favorisce il risultato poetico, risultato che può anche appoggiarsi a processi analogici, simbolici: il verso può anche risultare oscuro per la ragione e andare a ingaggiare l’intelligenza sommersa o risuonare con elementi che galleggiano nell’inconscio. Tuttavia, credo che riferirsi unicamente alle regole del cosiddetto canone sia oggi insufficiente al fine di rispondere alla domanda. Anche un’assenza di misura o di struttura canonica, il tutto stabilito arbitrariamente da un autore e maturato nel corso della scrittura, degli anni, stile che diventa quindi spontaneo, automatico, sortisce il medesimo effetto “formante”, anche se noto – leggendo poesia molto varia – che talvolta il pericolo è l’assenza di melodia, per una scarsa attenzione all’accento (cardine della metrica), di fatto dilatando l’accezione di “poesia” e scatenando irrisolvibili diatribe per marcarne i confini ed escludere (o includere) ciò che pende o sconfina nel prosastico. Esistono però molti componimenti poetici a verso libero (che sia sintetico o meno), che si inquadrano in una precisa forma, che è peculiare di un autore.
Ecco perché ti domando (e mi domando) cosa si intenda oggi per “forma” (al di là della lingua). Volendo trovare una definizione ai nostri giorni, io indicherei la forma come il “canone proprio dell’autore”, che comprende anche la lingua. Si potrebbe confutare la mia affermazione, per il fatto che in assenza di regole sia difficile, se non impossibile, stabilire il canone proprio di un autore; invece, credo che approfondendo l’opera di un poeta emerga il suo canone, la sua forma, e – per converso – talvolta emerga tragicamente anche la mancanza di una forma, tale vuoto trascina con sé l’essenzialità della parola. Questo approfondimento è in atto da sempre, attraverso l’esegesi dei testi. Non dimentichiamoci, per concludere, che la parola di Walt Whitman era contrassegnata dall’essenzialità, in quanto poetica, e che le sue poesie ancora oggi sono riconoscibili: ciò indica la presenza di una precisa forma.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo altrui nel quale all’occorrenza ami rifugiarti, rivelandoci cosa “muove” la tua “preferenza”?

Sulla riva

I pontili deserti scavalcano le ondate,
anche il lupo di mare si fa cupo.
Che fai? Aggiungo olio alla lucerna,
tengo desta la stanza in cui mi trovo
all’oscuro di te e dei tuoi cari.

La brigata dispersa si raccoglie,
si conta dopo queste mareggiate.
Tu dove sei? Ti spero in qualche porto…
L’uomo del faro esce con la barca,
scruta, perlustra, va verso l’aperto.
Il tempo e il mare hanno di queste pause.

La poesia è di Mario Luzi, tratta dalla raccolta Onore del vero (1957), ed è una poesia che da anni leggo e rileggo, senza mai stancarmi, trovandola sempre sorprendente e nuova, come se fosse appena scritta. Qui trovo tutto ciò che più amo (e inseguo) in poesia: prima di tutto da una lettura macroscopica emerge il colore, l’atmosfera veicolata da alcune immagini. L’atmosfera, per me, in poesia conta quanto la forma, anzi, direi che la forma vada calata in un’atmosfera; per questo al pari di Luzi amo Montale e, fra l’altro, il tema montaliano del male di vivere (o meglio della soluzione a questo male) si incontra anche in questo componimento di Luzi, in cui la pausa del tempo e del mare sospende la sofferenza inferta dalla mareggiata. È poi la tecnica del versificare, che mi affascina. Qui troviamo l’endecasillabo, ma in apertura il doppio settenario (o verso alessandrino) al quale ricorrono spesso i due poeti citati. Vi è la rima nel medesimo verso (lupo – cupo) e fra primo e settimo (ondate – mareggiate), ci sono assonanze, vi è l’anastrofe iniziale (il soggetto è posto alla fine del primo verso). La conta sillabica, l’anastrofe, le rime e le assonanze non sono inutili orpelli, ma elementi fondamentali allo sviluppo di una melodia precisa. Questo è per me il tratto caratteristico di un componimento poetico: deve suonare. La poesia è musica e io leggo, rileggo instancabilmente poesie come questa, i cui versi scorrono fluidi, gli accenti e i suoni sono scritti su di un pentagramma.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo bellissimo “La crepa madre” (perché questo titolo?); di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Il libro “La Crepa madre” è un poema in nove canti (anche se oggi, per sollevare i possibili lettori da un vocabolo che pare incutere paura, si preferisce definire un componimento di questo tipo “racconto in versi” e il canto diviene capitolo). È un lavoro di scrittura e taglio che mi ha impegnato per più di tre anni, e conta per la precisione un totale di 113 strofe e 1350 versi settenari e ottonari alternati, divisi in 9 canti di 12 poesie ciascuno (tranne un canto che ne conta 16). Ogni poesia conta 12 versi. A parte ciò – informazioni marginali – il poema narra di una casa nella quale alberga una crepa animata. Una crepa nel muro, come tante ne vediamo quotidianamente. Questa, però, misteriosamente, si muove liberamente lungo muri e pavimenti come se fosse un animale, una entità “viva”. La crepa, inoltre, possiede la capacità di modulare l’intensità del suo movimento: in altre parole può sventrare la pietra, ma è anche in grado di spostarsi con estrema leggerezza, “camminando” lungo le costruzioni senza provocare danno alcuno. Il danno, nel corso del poema, avverrà, e anche di colossali proporzioni, ma si scoprirà che la crepa non è una presenza tesa verso la distruzione, giocando in realtà un ruolo fondamentale per sostenere la vita. Da qui la definizione “crepa madre”.

Ecco le tre poesie che mi chiedi.

 

Dal capitolo II – LA CREPA:

1
I manoscritti antichi,
i tramandati annali,
d’avi racconti orali,
recano d’una Crepa
notizia: viva, rinchiusa,
atea, sta nella Casa;
nel covo della Via Chiesa,
sonni alterna lunghi
a bradisismi pavidi,
talvolta squarcia spelonche;
pentita lei con la luna
la notte, calma sutura.

 

Dal capitolo III – LA FIDUCIA:

11
Orgoglio il privilegio,
ch’io vedevo chiaro
capir la Crepa in Casa
variare l’atmosfere.
Fulmineo, lungo il muro,
sceso all’udire baruffe,
il taglio tosto colava
d’imperio, allora il gesso
percorso faticava
a restar morto, indifferente,
come noto sempre è bene.
Così all’oggetto conviene.

 

Dal capitolo VI – LA RABBIA:

12
Solca libera e solca fiera,
fende l’asfalto, snello
brigantino senza scafo,
lascia divelto a poppa
fisso il fiume nero
di bitume che ricorda
un taglio, una ferita
e non v’è modo, moto
ondoso che richiuda
la strada dilaniata
dalla Crepa, alacre infila
fluida rotta della fuga.

 

Delle tre poesie proposte scelgo la 12 del Capitolo VI – LA RABBIA, perché introduce il nucleo del poema e – di fatto – l’idea che mi ha portato a realizzarlo. Il poema nasce da tre brevi racconti scritti anni fa, che sviluppavano la pensata di una crepa animata e di tutte le conseguenze sopportate dai proprietari della casa “infestata”. Ciò non ha nulla a che vedere con un racconto horror, bensì con il cosiddetto “perturbante”, argomento trattato anche da Freud in un omonimo saggio. Perturbante è allora una situazione, un “ente” nel senso più vasto del termine, che viene percepito come familiare ed estraneo, fastidioso, allo stesso tempo. Confesso, però, che questa lettura del mio lavoro è comparsa a stesura ultimata, grazie all’amico Teodoro Custodero (filosofo) e la sua intuizione mi ha portato ad approfondire l’argomento. Ciò che conta, ora, non è una trattazione del Perturbante – citato unicamente per cercare di spiegarmi; per questo esistono studi fruibili e anche internet è di grande aiuto nel reperire informazioni accurate – ma mi preme distinguere fra una narrazione che ha come unico fine di infondere terrore e la mia, che ha una genesi e uno sviluppo affatto differenti. La crepa (che nel poema è sempre al maiuscolo: “Crepa”) non ha a che vedere con una presenza demoniaca o – genericamente – attinente al mondo dell’occulto, piuttosto è da intendersi come una forza esistente in natura, che si manifesta nella materia vestendo diversi abiti, accomunati dalla forma. Mi spiego e preciso che il poema accenna a questo aspetto: i fulmini, i rami e le radici degli alberi, le crepe, le diramazioni dei bronchi e bronchioli, vene e arterie, sistema nervoso. L’elenco (incompleto) sopra riportato raggruppa una serie di realtà diverse fra loro, ma palesemente accomunate dalla forma e, a livello logico, dalla funzione. Questa mia ossessione per le forme ricorrenti della natura, espressioni della medesima forza, mi ha portato a fantasticare su di una crepa dotata di una sorta di volontà, un istinto “animale” e primordiale, che Anna Maria Curci in una sua recensione ha accostato al Wille di Schopenauer. La mia gestazione della vicenda ha inevitabilmente considerato l’incrocio pericoloso fra la volontà della crepa e quella umana: cosa accade quando gli esseri umani cercano di eliminare la fastidiosa presenza?
Ecco perché scelgo la poesia 12 dal capitolo VI: la poesia descrive la crepa che è appena fuggita dalla casa, per evitare la sua distruzione. Imbocca la via e corre lungo il paese, ma la sua natura – di crepa, appunto – non può che lasciare dietro la sua corsa un tremendo squarcio. I racconti terminavano qui: con la fuga. Il poema ha ulteriormente sviluppato la vicenda. Il capitolo VI, infatti, racconta dettagliatamente il percorso seguito dalla crepa lungo il paese; vi ricordo, però, che i canti sono nove, quindi il racconto non termina qui. In fase di progettazione del libro, io e l’editore avevamo pensato di inserire anche una mappa stradale, in modo che il lettore potesse seguire con precisione il percorso. Purtroppo non siamo riusciti a realizzare questa idea, ma nell’introduzione rivelo quale sia il paese: è reale ed è un luogo della mia infanzia. Alcuni nomi delle vie sono stati cambiati leggermente, ma sono riconoscibili e credo che, con pazienza, un lettore possa verificare il percorso in qualsiasi mappa. 

 

in copertina Carlo Tosetti, ph di Lorena Gatti

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