Appunti per un minimo incendio
Mi piacerebbe poter fare un autocommento sincero, neutrale. Ma se è già difficile non mentire agli altri, non mentire a sé stessi è praticamente impossibile. Comunque sia, la cosa qui non è un grande problema. La scrittura della poesia non è certo il regno della sincerità, ma della verità: che è ben altra cosa[1]. Mi accontenterò allora di provare a raccontare qualcosa intorno ad un testo a cui sono legato: come scatta l’innesco della scrittura e come poi ci ho lavorato sopra. Dovrebbe venirne fuori, al meglio, una sorta di raccolta elementi probatori per una eventuale “narrazione del processo”. Mentre sto scrivendo, mi viene da dirvi che mi piacerebbe che nella parola “processo” non risuonasse soltanto il sinonimo di “sviluppo”, ma anche quello ben più straniante di “procedimento”: ma qui, essendo io stesso giudice e giudicato, la “cosa” che nel processo si discute non potrà che risolversi in testimonianza. L’accusa allora, ben fondata a mio parere, di “dissidio formale” fra intenzioni d’autore e effetti testuali non potrà che divenire un patteggiamento di fatto. Proprio per questa ambiguità di fondo, non posso non registrare da subito un certo fastidio. La situazione è paradossale, potenzialmente analgesica: il giudizio è già tramutato in assoluzione? L’accusa allora non potrà che giocare? Non è del tutto così; e poi forse la metafora del processo è proprio sbagliata o almeno: non è la più opportuna. E questo perché, da un lato, il testo su cui lavorerò mi è, col tempo, divenuto estraneo (altrimenti non l’avrei mai pubblicato), dall’altro – purtroppo – ne so ancora troppo su di lui: non l’ho ancora dimenticato a dovere; e la cosa mi inquieta e mi mette perciò in una situazione peculiare da cui nondimeno non posso uscire. Insomma, pur avendo scacciato questo testo in un libro, ancora conservo involontaria memoria dei suoi dintorni biografici, delle mediazioni da cui prese le mosse. Ed è proprio questa l’oscenità: essere al corrente dei fatti di un morto, di qualcuno che non c’è più, ovvero il “me” di quando scrissi quel testo. Ma perché questa inquietudine? Mi rendo conto, allora, proprio al cominciamento di questa breve indagine, che scrittura e oblio sono per me connesse in maniera irrinunciabile: scrivo per dimenticare, per dimenticarmi e non riuscirne del tutto: per ricordare di dimenticare. Non ho mai infatti compreso bene chi faccia un vanto di ricordare a memoria le proprie poesie, né però riesco a non invidiarli un poco. Credo che su questo ci sarebbe da dire. È sicuramente affascinante la capacità di trattenere nel proprio corpo le parole che si intendono pronunciare: fare del proprio corpo la macchina mnestica di un’apparizione sonora. Eppure, per me la cosa è diversa. La scrittura per me è un sistema di oblio e di estraneazione (di espulsione) di un tessuto che fu vivo, ma sempre mediato dalla scrittura, dal residuo di un testo che resta là, inerte e potenziale: senza questa duplicità (la vitalità di quel tessuto e la sua espulsione\oblio) e questa materialità residuale (il testo) non c’è per me interesse per la pratica poetica. Cosa sto dicendo? Che per me si tratta di fare un sacrificio.
Non intendo niente di religioso, sia chiaro: non nei termini a cui il folklore monoteistico ci ha abituati. Intendo qui qualcosa di molto tecnico. Non ne tratteggerò che una suggestione, la questione è ampia e ne ho accennato con più dettagli altrove[2], ma sono ben lungi da avere una idea risolta. Nei Śatapatha-Brāhmana, così come riporta Sylvain Lévi, troviamo scritto: «Il sacrificio è l’uomo. Il sacrificio è l’uomo, poiché è l’uomo che lo offre; e ogni volta che viene offerto, il sacrificio ha le dimensioni dell’uomo. Perciò è l’uomo»[3]. È infatti noto che il sacrificio nella cultura vedica si costruisca come un raffinato sistema di analogie: una serie di relazioni fra una realtà visibile costruita sulla terra (l’altare e la sua meccanica precisamente regolamentata) e un’altra, in una dimensione invisibile. Il sacrificio è dunque un veicolo: una costruzione terrena mediante la quale si è in grado di compiere un viaggio di conoscenza. Mediante di esso, si è portati fuori dalla propria condizione individuale, verso un’altra dove si edifica un sé invisibile, per poi tornare sulla terra. Questo movimento di espulsione e ritorno è esattamente quanto cerco di riprodurre con ciò che scrivo. In un certo oscuro modo, sento che quanto provo a fare si trova in continuità con quanto scriveva Paul Celan sulla poesia, in Il meridiano: «è come un porsi fuori dell’umano, un trasferirsi, uscendo da se stessi, in un dominio che converge sull’umano ed è arcano – il medesimo in cui sembrano essere di casa la figura scimmiesca, gli automi e con questo… ah, anche l’Arte»[4]. Per mettere all’opera questo movimento, è necessario da un lato che fra sacrificante (quel “me” che deve scrivere il testo) e sacrificio (il testo che devo costruire e porre in esecuzione) vi sia una connessione sostanziale: di solito, questa è rappresentata da materiale biografico, ma non solo. Possono fungere da l’innesco vari episodi di vita vissuta o raccontata o riportata: qualcosa che insomma prenda fuoco. Il materiale allora può essere deposto nella cucina sacrificale dalla cui combustione mi aspetto che emerga la forma di una fiamma che produca movimento. Ma l’innesco non prende fuoco da solo: serve uno sfregamento, qualcosa contro cui scagliare il materiale affinché si produca qualche scintilla. Ci deve essere in prossimità del dato biografico qualcosa di estraneo (ma dico così solo per dire velocemente), di eguale solidità e consistenza: magari di segno opposto. Se il connubio funziona, l’uno mette in moto l’altro: il prossimo e il lontano insieme danno vita ad un processo (ecco), una reazione a catena, per cui qualcosa accade: ovvero di “me” non si parla più (né del resto del materiale estraneo), ma si apre una sorta di passaggio, cunicolo, tunnel verso qualcosa che può essere ripetuto da chi mette in esecuzione quel testo: si edifica una possibilità per un sé invisibile. Il testo diventa una formula appropriabile. Affinché questo possa avvenire, di solito, ci vuole molto tempo e molto lavoro. Per la mia esperienza, se i materiali di partenza sono buoni (gran parte della cosa sta qui), serve un lungo e meticoloso lavoro di taglio e di essicamento affinché possano incastrarsi alla perfezione e formare una bella fascina e divenire così pienamente combustibili. Meglio il lavoro è eseguito, meno rimane alla fine del processo: solo ciò che brucia pienamente va deposto. Alla fine, rimane da contemplare la graticola del testo: vuota, scarna, nera e bruciacchiata qua e là. Se qualcosa nei materiali viene lasciato di verde e umido, può rallentare il processo o addirittura impedirlo: solo ciò che è stato lungamente lavorato dal vento e poi incastrato meticolosamente (questa per me la questione metrica) si offre privo di ogni residuo umido e farà un buon incendio.
Nel caso del nostro testo, ci sono due materiali di partenza. Il primo: una visita ad un caro amico in un RSA dove era ricoverato, dopo un trauma che lo aveva sottratto alla propria memoria e alla consapevolezza di sé; ma non è il mio amico il protagonista qui. Tutto è scaturito da un dialogo con una signora anziana che gli sedeva di fronte, al medesimo tavolo dove io e il mio amico ci incontravamo. Mentre il mio amico mangiava, impassibile e assolutamente estraneo al mondo, in un silenzio tutto chiuso nell’azione di masticare e ingoiare (cosa che non era più in grado di fare alla perfezione), la signora, che non avevo mai visto prima sebbene fossero frequenti le mie visite, fissandomi, prese a raccontarmi della morte del suo primo fidanzato e di come non l’avesse mai dimenticato. Davanti ad un racconto del genere, mi era difficile restare impassibile: ma io ero lì per il mio amico e lui – voltandomi cercavo in lui partecipazione, conforto, segno di intesa – al contrario di me, pur essendo vicino quanto me a quella signora, non aveva mostrato alcuna attenzione al suo racconto: aveva continuato a masticare e a fissare il vuoto. La sua impassibilità lo posizionava in un universo separato, in un’altra galassia. La realtà era in quel momento formata dalla materiale simultaneità di tre galassie fra loro completamente sconnesse. La signora infatti non parlava a me, raccontava questo evento terribile della sua giovinezza come se lo stesse raccontando a qualcun altro, forse a sé stessa, rapita anch’essa in una spirale di ottenebramento in cui ciò che diceva era un appello, una chiamata al soccorso, e al contempo nessuna mano la poteva raggiungere, perché la sua voce sprofondava in uno tono neutro, freddo, e si allontanava in un dolore sempre più inesprimibile e inconsolabile: assoluto. Uscii da quell’incontro nella RSA decisamente turbato; ma la vita feriale mi riprese con forza: era un giorno come gli altri, uscito da lì dovevo lavorare, parlare, fare la spesa, prendere i mezzi, scrivere mail e su WhatsApp. Vissi tutto il pomeriggio e la sera senza più pensare a quanto mi era accaduto; finché non capitai prima di andare a dormire su di una pagina di Tucidide, tratta dalla Guerra del Peloponneso, per la precisione il passo in cui si narra di come gli ateniesi nell’Inverno del 425-26 “purificarono” Delo, seguendo un certo oracolo. Quello che fecero mi parve terribile: «Asportarono tutte le tombe che si trovavano a Delo e proclamarono il divieto di morire nell’isola e di partorirvi in futuro: per farlo ci si sarebbe dovuti trasferire a Renea. Renea è così poco distante da Delo che Policrate, il tiranno di Samo, che fu potente per un certo tempo grazie alla sua flotta, e dominò su tutte le isole e prese anche Renea, la dedicò ad Apollo Delio legandola a Delo con una catena.»[5]. Ecco a questo punto qualcosa accadde; e parlo di qualcosa che riguarda la conoscenza. Capii qualcosa. Quanto successe a Delo nel 425 mi condusse a comprendere quanto era accaduto quel pomeriggio. Quegli eventi completamente irrelati erano nondimeno accaduti a me, in me: “io” era solo il luogo vuoto di queste distanze fra loro in tensione. L’io come un buco, un aggregatore di polarità, vuoto dove scorrono le “catene” della realtà. Seguirono mesi di lavoro formale: si trattava di rendere un tessuto verbale (un textus) anaologon di quanto avevo vissuto in grado di suscitare quella comprensione, non quel vissuto: avvicinare eventi distanti e fare del testo eseguibile lo strumento mediante il quale quella polarità esploda in un minimo incendio. I combustibili erano posizionati, si trattava di costruire la fascina e provvedere all’innesco, in maniera tale che bruci il mondo e vada via quell’inverno, quel dolore senza senso e tutti quei mondi che lì in un punto si sono trovati uno accanto all’altro. Il sacrificio infatti «è l’uomo», come ricordava Sylvain Lévi: si deve morire, ma non come le bestie, come un compito. Questa è la «catena» che Policrate ha posto per noi. E questo testo me lo ricorda, ogni volta che lo eseguo, ogni volta che lo dimentico.
*
Decisero che quell’isola fosse impura.
Dissero che nessuna donna
vi potesse partorire e che nessun umano
vi dovesse morire mai più.
Più tardi la signora mi racconta
che il suo primo amore aveva ventun anni
quando lo uccise il fiume. Lavorava in fabbrica, faceva
sacchi di plastica. Ma tu che mangi a fatica
che sbavi e non ascolti, stai
nel neon e nella camera; nella grotta spazio
nel cuore mondo sottratto
alle urla, ai codici e al lattice. Da tutti i terreni
delle voci che si arrestano. Dalla marea. Dall’area
dove gli uomini e le onde trovarono una pietra
e una pianura che li disperse e ancora sempre li dilata
infine disseppellirono
ogni cadavere; e lo trasferirono
nell’altra isola
che alla prima un tempo fu legata
con una catena.
(da Verso le stelle glaciali, Interlinea, 2020)
[1] Rimando agli ultimi paragrafi di questo mio contributo su Fortini: http://www.ospiteingrato.unisi.it/proteggete-le-nostre-veritauna-lettura-die-questo-sonno-di-franco-fortinitommaso-di-dio/
[2] Penso al mio saggio L’esperienza della poesia, paragrafi e frammenti 2015\2017 in Ultima Eden, 2018. Il saggio è leggibile qui: https://www.ultimaspazio.com/2018-2019. Ma per una visione più ampio, rimando al seminario svolto presso il laboratorio di ricerca di filosofia Mechrí, dal titolo Prolegomeni per la ricomposizione di Orfeo, ascoltabile integralmente qui: http://www.mechri.it/archivio/2018-2019/#dina.
[3] Sylvain Lévi, La dottrina del sacrificio nei Brāhmaṇa, Adelphi, Milano 2009, p. 103
[4] Si veda in Paul Celan, La verità della poesia, Einaudi, Torino, 2008, p. 9.
[5] Si veda Tucidide, Le storie (a cura di G. Donini), III, 104, 2, Utet, Torino 2005, p. 569.
nota bio-bibliografica
Tommaso Di Dio (1982), vive e lavora a Milano. È autore della raccolta di poesie Favole, Transeuropa, 2009, con la prefazione di Mario Benedetti. È giurato, per la sezione under 40, del premio letterario Premio Castello di Villalta Poesia e del Premio Franco Fortini. Nel 2014 ha pubblicato il saggio Omologia e totalità, Un percorso sulla nozione di differenza tra la biologia e l’arte di Barnett Newman nella raccola Prospettive della differenza, Lubrina editore, a cura di Carlo Sini, insieme al quale, dal 2015, è membro del comitato scientifico del laboratorio di filosofia e cultura Mechrì (www.mechri.it). Nel 2014, esce il suo libro di poesie Tua e di tutti, Lietocolle, in collaborazione con Pordenonelegge, tradotto in francese da Joëlle Gardes per Recours au poème éditeurs. Nel 2015 pubblica la plaquette Per il lavoro del principio, nata all’interno del progetto Le parole necessarie, in collaborazione con Il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna e l’Ospedale Sant’Orsola. Nel 2017 è stata pubblicata in tiratura limitata la plaquette Alla fine delle favole, Origini edizioni, Livorno. Nello stesso anno, pubblica il saggio Nel labirinto del ritorno. La parola poetica e il ritmo, nella rivista «Il Pensiero», a cura di Massimo Donà. Nel 2018 è tra i fondatori del progetto di poesia e arte Ultima, per cui ha pubblicato la breve raccolta World Wide Whatsapp crash (www.ultimaspazio.com). Nel 2019 scrive la Prefazione alla riedizione de Il musicante di Saint-Merry di Vittorio Sereni, per la casa editrice il Saggiatore. È recentemente stato pubblicato a sua cura, per Ibis Edizioni, la prima traduzione integrale di La primavera e tutto il resto (1923) del poeta americano W.C. Williams. Nel 2020 è uscito il suo nuovo libro di poesie per l’editore Interlinea, Verso le stelle glaciali, e la plaquette in tiratura limitata La favola delle pupille, per le Edizioni Volatili.
la foto in copertina è di Dino Ignani https://www.dinoignani.net/