La transizione e la vocazione al racconto: Franco Buffoni e Giovanna Cristina Vivinetto
In questa puntata di Chiedimi ancora ad essere messi a confronto sono un poeta affermato e una giovane che ha fatto molto parlare di sé.
Franco Buffoni riflette sulle transizioni e sulla continuità, sulla guerra come momento privilegiato di una interrogazione sul buio che pone di fronte a un dilemma: «Percepisco una contrapposizione, nei confronti di tematiche di questa portata», afferma Buffoni, «tra il céliniano “chiamarsi fuori” a osservare dall’esterno l’avventura della specie sapiens-sapiens e il celaniano “porsi a fianco” di chi vuole trovare ragioni per resistere continuando a sentirsi dentro l’umanità».
Giovanna Cristina Vivinetto rinviene nella poesia una profonda e necessaria spinta al racconto, a un orizzonte relazionale che sappia unire per il tramite della parola e rendere l’esperienza trasparente e comunicabile: innocua, dice. Forse non innocua, altrimenti perderebbe la carica che fa detonare il reale, ma è sicuramente un innesco che le ha permesso di uscire da certa oscurità «risoluta e splendente, come persona e come poeta».
Buona lettura!
Rossella Pretto e Marco Sonzogni
L’ultima opera edita di Franco Buffoni è La linea del cielo (Garzanti 2018), oltre alla plaquette Da una tana di scoiattolo (Fallone Editore, 2019); quella di Giovanna Cristina Vivinetto è Dove non siamo stati (Bur, 2020).
CINQUE DOMANDE AI POETI: FRANCO BUFFONI (1948)
1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?
Non ho difficoltà a rispondere: Jucci. A lei dedicai un libro uscito nello Specchio nel 2014. Nel 1969, quando la conobbi, Jucci aveva ventotto anni, era laureata in tedesco, insegnava e faceva ricerca, in particolare si occupava di etnologia e antropologia. Di sette anni più giovane, io mi trovavo nella fase dell’ebrezza per l’acquisito affrancamento dalla mia cattolicissima famiglia.
Il nostro legame durò fino al 1980, quando Jucci morì di cancro, dopo alcuni mesi infami costellati di interventi chirurgici. Per dieci anni condividemmo libri e avventure, vacanze e scoperte: con lei studiai le lingue e le letterature, con lei divenni poeta e traduttore. Con lei scoprii il mio territorio – quello che fa da sfondo al Profilo del Rosa – dalle Alpi al lago Maggiore. Sul nostro amore l’ombra costante, assoluta, della mia omosessualità, che in quegli anni si concretizzava in numerosi, fugaci e solo fisici rapporti. Si era ancora nella fase della ricerca della “cause”, ci si chiedeva come si diventi omosessuali… Ci sono quindi come due scalini, alti e scoscesi verso il disastro nel libro a lei intitolato. Il primo che consegue all’innamoramento – reciproco – nella quotidiana tenuta di un rapporto messo costantemente alla prova dai miei “tradimenti”. Che tuttavia consolidavano, pur nella sofferenza, il legame affettivo, perché dall’esterno nulla mi giungeva di minimamente somigliante all’amore. (Né mai sarebbe potuto giungere – capisco bene oggi – dato l’alto tasso di omofobia che avevo interiorizzato negli anni della mia crescita). Il secondo terribile scalino consegue alla diagnosi della malattia di Jucci e segna l’ultimo anno della sua vita, rafforzando il nostro amore. Ma non sarebbe nel carattere di Jucci, né tanto meno è nel mio, l’intento di trasmettere una storia sentimentale o persino struggente. Questa è la storia di due persone che, pur amandosi, si sono dilaniate:
Solo licheni e tundra
Tu intervenisti lì
all’imbocco della valletta
dove ad un tratto muta la vegetazione:
solo licheni e tundra
per qualche ettaro,
forse la lingua di ghiaccio profonda
che formò il lago
lì sotto non si è sciolta,
resiste tra i detriti coi resti dei mammut.
Forse il tempo tiene lì la poesia.
2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?
Potrei rispondere che l’oscurità per me corrispose alla scrittura di Guerra, uscita nello Specchio nel 2005. L’idea di scrivere un libro avente come oggetto la vita militare e la guerra risale alla fine degli anni Novanta, quando mi accadde di rinvenire casualmente una cassetta appartenuta a mio padre, contenente documenti relativi agli anni 1934-1954, e tra questi una sorta di diario scritto in matita in stenografia su cartine da tabacco in campo di concentramento. L’idea è quindi successiva alla composizione e alla pubblicazione nel 1997 presso Guanda di Suora carmelitana e altri racconti in versi, dove appare il racconto in versi “Aereoporto contadino” dedicato a un periodo della mia vita militare. Episodi e momenti di quella fase della mia vita ritornano comunque in questo libro nella seconda sezione, “Carne di militare”.
Il ritrovamento e l’analisi delle carte di mio padre mi indusse dapprima a riflettere sulla possibilità di scrivere un libro incentrato esclusivamente sulla sua esperienza. Cioè sul suo corso per allievi ufficiali a Palermo nel ‘34-‘35, sul servizio come tenente a Firenze nel ‘36, e poi sulla sua partecipazione, nel ‘40, alla occupazione del territorio francese oltre il colle di Tenda, e alla occupazione della Corsica, fino all’8 settembre del ‘43, con l’attacco dei tedeschi alle postazioni italiane, la cattura, e quindi i due anni di Lager per il rifiuto di aderire alla RSI. Infine il ritorno nell’agosto del ‘45 e i successivi tentativi di comprendere quanto era accaduto.
Ben presto tuttavia mi resi conto che tale materiale si sarebbe prestato solo a una trattazione di tipo storiografico, a meno che non avessi – come poi ho fatto – rivissuto in prima persona l’oscurità di quegli eventi, immaginando che in quelle circostanze mi fossi trovato io. Tale impostazione mi ha indotto ad estendere anche ad altri periodi storici la riflessione sulla “guerra” (e questa è la ragione d’essere della terza sezione, “Rammendi in cotone arancione”). Nella sezione “Soldati e gente” l’intonazione è quella della Prima Guerra Mondiale (e qui, con il primo testo, si apre la riflessione sui concetti di “camaraderie” e di “diserzione”); nella quinta sezione lo sguardo è diacronico sulla penisola balcanica, nella sesta sincronico sulla Francia di Vichy, nella settima sulle deportazioni, nell’ottava sui Lager. La nona sezione – imperniata su alcuni eventi successivi all’8 settembre – si chiude con la fuga in SudAmerica di molti capi nazisti; “Sulla pelliccia bianca della valle” ha come fulcro la guerra partigiana, mentre l’undicesima sezione è incentrata sul rientro dei reduci. (Il tutto, naturalmente, senza alcuna pretesa di “raccontare” la storia, né di essere obiettivo o esauriente, ma solo di restituire una intonazione, un suono: Domodossola e Vichy come insiemi di fonemi assorbiti nell’infanzia). Nelle ultime tre sezioni la riflessione si amplia ai temi più generali, connessi con la riduzione in schiavitù, i messaggi di salvazione e le antropologie negative. A mano a mano che il lavoro prendeva forma sono andato convincendomi che l’impegno era su due piani, con l’intenzione – da una parte – di scrivere un libro antiretorico e antioracolare, e il timore – dall’altra – di cedere a un tono diaristico-didascalico. Credo di essere stato molto aiutato dall’ascolto del WarRequiem di Britten. Percepisco una contrapposizione, nei confronti di tematiche di questa portata, tra il céliniano “chiamarsi fuori” a osservare dall’esterno l’avventura della specie sapiens-sapiens e il celaniano “porsi a fianco” di chi vuole trovare ragioni per resistere continuando a sentirsi dentro l’umanità. Non credo che la via d’uscita sia il rifiuto della ragione a favore dell’istinto, e quindi il rifiuto dell’uomo a favore degli animali (zoé vs bíos), come avviene in tanta parte della poesia di Ted Hughes. Col quale però condivido il rifiuto dell’antropocentrismo.
3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?
Sì. È Tomas Tranströmer, che ebbi occasione di conoscere nei primi anni Novanta e che tradussi prima che vincesse il premio Nobel. Nato nel 1931 a Stoccolma, Tomas Tranströmer crebbe da solo con la madre perché il padre abbandonò subito la famiglia. Da giovane sviluppò un grande interesse per la zoologia e la musica, orientandosi poi verso la medicina e laureandosi nel 1956 con specializzazione in psicologia e psichiatria. In seguito svolse gran parte della sua attività in un istituto per minorenni disadattati, mettendo le sue competenze al servizio della società nel senso più ampio, e occupandosi anche di disabili, carcerati e tossicodipendenti. Con un impegno che a noi italiani potrebbe ricordare quello di Mario Tobino.
Il suo libro d’esordio del 1954, curiosamente intitolato 17 poesie, gli procurò immediata notorietà e un largo credito presso il pubblico svedese. Quella prima silloge già contiene in toto gli elementi portanti della sua poetica, che si arricchiranno ma non muteranno nei decenni successivi. Il suo punto di partenza teorico potrebbe essere individuato in una visione della realtà come mistero, con una costante possibilità di più piani di lettura, in un rapporto polisemico tanto con il reale quanto con il testo poetico. Una disposizione d’animo che appare in modo paradigmatico nella poesia più famosa di Tranströmer, emblematicamente intitolata “I ricordi mi vedono”:
Una mattina di giugno in cui era troppo presto
Per svegliarmi ma troppo tardi per riprendere sonno,
Devo uscire nel verde che è colmo
Di ricordi, e mi seguono con lo sguardo.
Non si vedono, si fondono completamente
Al paesaggio, perfetti camaleonti.
Sono così vicini che li sento respirare
Benché il canto degli uccelli dia stupore.
Quella di Tranströmer potrebbe dunque essere definita una poetica di “occasioni” in senso montaliano, oppure una poetica di “epifanie” in senso poundiano. Occasioni ed epifanie che permettono al poeta di “leggere” su più piani la realtà che lo circonda, sia umana sia naturale.
Se la sua ricerca è costantemente volta ai principi fondamentali del vivere e dell’essere, lo stile di Tranströmer è asciutto, prosciugato, “in levare”. Potremmo persino definire complessivamente la sua poesia come una poesia in re, dotata d’uno stile sostanzialmente introspettivo. Nel 1990 Tomas Tranströmer venne colpito da un ictus che ne lese la capacità di parola e lo lasciò paralizzato alla mano destra. Da allora l’ascolto della musica divenne la sua principale ragione di vita. E per sei anni parve che la sua voce di poeta fosse stata ridotta al silenzio dal male. Dopo tale lunga pausa però, forse perché confortato dal successo ottenuto dalla pubblicazione dell’opera omnia, Tranströmer tornò in libreria con una nuova raccolta, La Gondola Funebre. A dimostrazione della sua forza di carattere, Tomas Tranströmer aveva ripreso anche a suonare il pianoforte, sua antica passione, pur se solo con la mano sinistra.
4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?
Il poeta è Seamus Heaney stesso, che conobbi nel 1986 a Cambridge e del quale curai il primo Selected Poems italiano all’inizio degli anni Novanta. Recentemente gli ho dedicato questa poesia:
Seamus Heaney
Pisa! Pisa, your sounds are like a hiss
Sizzling in our country’s grassy language,
Da parte di chi fin dall’adolescenza
Ha già deciso
Che alla lirica inglese avrebbe fatto ingoiar cose
Mai mangiate prima,
Restando tuttavia lirica inglese.
Lo conobbi a Cambridge nell’86
Mentre traduceva questi versi
Ed era contento che un italiano vivo
Glieli leggesse con la birra.
Pisa traditrice nel cerchio dei traditori
Come un sibilante serpente nell’erba,
Trasformato in ragion d’essere dei versi.
5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?
Tecniche di indagine criminale
Tecniche di indagine criminale
Ti vanno – Oetzi – applicando ai capelli
Gli analisti del Bundeskriminalamt di Wiesbaden.
Dopo cinquanta secoli di quiete
Nella ghiacciaia di Similaun
Di te si studia il messaggio genetico
E si analizzano i resti dei vestiti,
Quattro pelli imbottite di erbe
Che stringevi alla trachea nella tormenta.
Eri bruno, cominciavi a soffrire
Di un principio di artrosi
Nel tremiladuecento avanti Cristo
Avevi trentacinque anni.
Vorrei salvarti in tenda
Regalarti un po’ di caldo
E tè e biscotti.
Dicono che forse eri bandito,
E a Monaco si lavora
Sui parassiti che ti portavi addosso,
E che nel retto ritenevi sperma:
Sei a Munster
E nei laboratori IBM di Magonza
Per le analisi di chimica organica.
Ti rivedo col triangolo rosa
Dietro il filo spinato.
Questa poesia appare nel Profilo del Rosa (Mondadori, Specchio 2000) e fu l’ultima poesia che scrissi per quel libro, quando ormai la mia poetica si stava volgendo verso il nuovo progetto, che cinque anni più tardi si sarebbe concretizzato in Guerra. Credo che come una lunga faglia questa poesia si stagli tra quelle due zolle del mio lavoro, appartenendo un poco a entrambe.
Inoltre essa mi permise di rendere polisemico il titolo del libro: Il profilo del Rosa, con riferimento alla catena del monte le cui vette imparai a conoscere sin da bambino (Gnifetti, Zumstein, Nordend, Dufour), ma anche al colore del triangolo che i detenuti omosessuali erano costretti a portare nei lager nazisti.
CINQUE DOMANDE AI POETI: GIOVANNA CRISTINA VIVINETTO
1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?
La profonda, e al contempo intima, necessità di raccontare. Di rendere, attraverso la poesia e la sua narrazione, universale qualcosa che all’apparenza non lo è. Questa necessità emerge fortissima nel mio libro d’esordio, Dolore minimo (Interlinea, 2018), in cui un dato estremamente unico e “particolare” (ossia la transessualità), per mezzo della poesia che lo sviscera a fondo, diviene una materia “avvicinabile” dai più poiché resa comprensibile, innocua, trasparente. La poesia consente questo miracolo poiché con la forza della parola riesce a radere al suolo muri che esistono solo nella mente, creando al contempo porte, soglie da attraversare per scoprirci un po’ più vicini, uniti tutti alla medesima radice. C’è chi troppo frettolosamente liquida la poesia come un bene inutile, non necessario, qualcosa che si avvicina più a un vezzo che a un mezzo in grado di salvarci. Allora, per ribadire invece la sua innegabile e irrinunciabile necessità, riprendo la tua citazione nella domanda e ti rispondo con Montale, e cioè che “la poesia al suo culmine / magnifica il Tutto in fuga”. E l’orizzonte obliquo in cui agisce la poesia è salvifico perché, come sottolinea il Poeta, “s’era tua era di qualcuno”. La necessità di creare un orizzonte “relazionale” e la vocazione al racconto sono elementi fondamentali anche nel mio secondo libro, uscito per BUR con il titolo Dove non siamo stati.
2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?
L’oscurità è la condizione primaria per poter scrivere poesia, la nebbia da attraversare per maturare un senso del sé, del vivere e della poesia più denso e articolato possibile. La poesia spesso esplicita questa funzione “formativa” che ci permette di maturare, non solo a livello tecnico (come poeti) ma soprattutto come identità che agiscono nel mondo e, attraverso la parola, continuamente lo risignificano e ripossiedono (la poesia, allora, è una forma di possesso e rifunzionalizzazione). L’oscurità che mi è capitato di vedere nella mia vita, e che poi ho riversato nella poesia di Dolore minimo, è stato il dolore sordo e lacerante di non riconoscersi nel corpo con cui si è nati nel momento in cui la propria identità di genere appare dissonante, profondamente diversa. L’oscurità, invece di sopraffare e annichilire, può diventare allora un “trigger”, un grilletto in grado di avvertirci su qualcosa, di sussurrarci piano: “Salvati, puoi farlo. Ne sei in grado”. E dall’oscurità, che ho fatto mia rendendola innocua, ne sono uscita risoluta e splendente, come persona e come poeta. Ecco perché dico che è condizione primaria e irrinunciabile: senza di essa, non sarei oggi quella che sono. Devo molto al dolore: è una forza muta e preziosissima che agisce a fondo e non si vede.
3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?
Due nomi: Wislawa Szymborska e Antonella Anedda, due modelli a cui faccio riferimento per la mia poesia. Per motivi poetici diversi: la prima per la sua potenza espressiva che, attraverso un’apparente leggerezza e ironia, rende profondissima la materia lirica, che diviene elemento universale e “comunitario; la seconda per il suo lirismo altissimo: la tecnica compositiva di Anedda è straordinaria ma la cosa che più mi sorprende è che questa tecnica viene sapientemente dissimulata nei suoi versi, in cui la vocazione al racconto sembra prevalere sul dato meramente compositivo. Historiae (Einaudi, 2018), in tal senso, è la mirabile congiunzione di questi due elementi (la lirica pura e la tendenza al racconto) e molti versi, ogni volta che ci ritorno (cioè spesso), mi fanno venire i brividi. Allora, quando ciò avviene, capisco di essere sulla strada giusta.
4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?
La tradizione poetica italiana, rispetto alle letterature di altri Paesi, si è mantenuta nel corso dei secoli decisamente più compatta e monolitica. Se questo costituisce un bene per molti aspetti (ad esempio, a differenza di un francese o a un inglese, a cui tale chiarezza è preclusa, noi ancora riusciamo a leggere la poesia di Dante – quasi – come se fosse un nostro contemporaneo), rivela tuttavia almeno, e macroscopicamente, un elemento negativo: i rinnovamenti, com’è prevedibile per qualsiasi organismo culturale, non sono stati molti. Eccettuando la “rivoluzione” poetica avvenuta nel primo Novecento, sostanzialmente da allora non ci sono state evidenti rotture o scosse tali da far pensare a qualcosa di davvero nuovo e originale, almeno in ambito poetico. Qualcosa sta cambiando, ma solo da molto poco, e all’interno delle generazioni più recenti di poeti. Tuttavia confido assai nelle capacità di rinnovamento della mia generazione e sono profondamente convinta che i giovani poeti metteranno in moto quella scossa in grado di scollare di dosso tutto quello che ormai non funziona e deve essere lasciato alle spalle. E far uscire la poesia da quella nicchia di specialisti a cui i nostri “padri” l’hanno relegata, facendola diventare purtroppo materia elitaria e per specialisti. Eppure la poesia nasce come comunicazione, relazione, orizzonte inclusivo e trasversale: bisogna ripartire da qui.
5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?
Non ho figli da dare – non potrò.
Non ho tube che si gonfiano
né ovuli da spargere per il mondo.
Non ho vulve da tenere fra due
dita – da schiudere tra le valve
delle gambe non ho niente.
Ma lui mi sfiora, continua a toccarmi,
a perlustrare con le dita questo
corpo imploso, risucchiato tutto
all’interno. Fuggito senza lasciare
tracce. E lui persiste a sfiorarmi
per trovare il punto che possa
dargli piacere. Che possa
consolarlo, farlo sentire uomo.
Non glielo dico, ma non c’è.
Eppure tutta questa sua goffa
illusione, quest’avventatezza
nel proiettarsi verso il dato certo
per un attimo mi restituisce
tutto ciò che mi manca – e al suo miracolo
questa sera mi faccio donna.
Completamente.
Questo è, tra le poesie edite, il testo che, al momento, ritengo più vicino al mio modo di esprimermi e rappresentarmi in poesia. Nonché poesia forse più rappresentativa del libro da cui è tratta (Dolore minimo, p. 107). In essa c’è tutto il senso che ho attribuito alla transizione: non fattore meramente fisico, come si potrebbe pensare, ma processo di stratificazione mentale. La transessualità, allora, messo da parte il dato corporale evidente, diviene metabolizzazione e rappresentazione interiore. Io sono donna perché mi rappresento in quanto tale e perché gli altri mi percepiscono così: ecco che, allora, emerge la potenza del “pensiero” e del “fingersi” leopardiano (“Io nel pensier mi fingo” – attraverso l’immaginazione e la fantasia riesco a modificare il mondo reale a tal punto che il pensiero diventa “più reale del reale”). Ecco, per me la transizione è stato proprio questo: un processo immaginativo che nasce dall’interno ma che, al contempo, è in grado di concretizzarsi e concretizzare la realtà esteriore e circostante. “Completamente”.