Un dono necessario da restituire: Clery Celeste e Eleonora Rimolo
In questa puntata di Chiedimi ancora ad essere messe a confronto sono due poetesse che intendono la poesia come ispirazione necessaria e indifferibile ma anche condivisione e avvicinamento possibile. In questo senso, Celeste pensa alla scrittura come atto sacro e come dono da restituire «per sentirci parte di qualcosa»; per Rimolo è una spinta «verso la conoscenza dell’alterità e verso la voglia di condivisione di tutto ciò che è “emozione” e dunque vita».
Buona lettura!
Rossella Pretto e Marco Sonzogni
L’ultima opera poetica edita di Clery Celeste è La traccia delle vene (pordenonelegge – Lietocolle, 2014); quella di Eleonora Rimolo è La terra originale (pordenonelegge – Lietocolle, 2018).
CINQUE DOMANDE AI POETI: CLERY CELESTE
1. In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di “segno” che “s’innerva” e lo descrive con queste parole: “sangue tuo nelle mie vene”. Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?
Ho sempre pensato alla scrittura come a un atto sacro, come a un momento di grazia che ti arriva, una voce a cui non puoi sottrarti. Qualcosa da accogliere, da tenere con cura e da restituire. La poesia, come tutta l’arte, è un dono che va restituito. Qualcosa scorre, è vero, non so cosa sia, ma credo che serva a renderci più umani, più simili e meno soli. Si scrive e si legge per sentirci parte di qualcosa, per riconoscerci uomini e per conoscerci, per affondarci.
2. In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità (“I see a darkness”). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?
L’oscurità è presente in chiunque e ha diverse forme, muta continuamente. Di sicuro mi è successo di vedere la mia, il buio fa molta paura perché i confini smettono di essere netti, abitare il buio è come stare in una stanza piena di spigoli, porte chiuse e rovi tutto intorno. Fa paura ma credo che sia necessario conoscere i propri angoli bui, penso che ci sia sempre un fondo da cui spingersi, da cui poter risalire. La letteratura aiuta, salva la vita, ti permette di conoscere il buio senza dover per forza entrarci con tutto il corpo, ti fa assaggiare l’inferno senza bruciarti la lingua e le corde vocali.
3. Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente (“something about him seemed permanent”) e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi (“he transmitted something’… “and it gave me the chills”). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?
Non parlo dei poeti “sacri”, di quelli già morti o noti, ci metterei troppo tempo a citarli. Parlo quindi dei vivi o degli sconosciuti. Ci sono due poeti che mi fanno questo effetto. Il primo è Stefano Simoncelli, abita a Cesena. Quando ho sentito leggere Stefano per la prima volta i suoi versi mi sono entrati nel cervello, ho passato i giorni successivi con le sue parole che galleggiavano nei miei timpani. Questo effetto me lo fa sempre, è permanente appunto e mi mette i brividi. L’altro poeta che voglio citare è una “scoperta” per me molto recente, Pietro Cimatti, nato nel 1929 e morto nel 1991 a Forlì. Di lui non esiste direi nulla in commercio, se non nella sezione libri usati da qualche parte. Un poeta dimenticato possiamo dire, ed è una cosa atroce. Ha versi durissimi, ti tagliano la pelle, dopo aver letto le sue poesie quei suoni rimangono nelle stanze, l’aria diventa densa, è abitata. Resta. Vorrei che le sue poesie restassero.
4. Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione (“he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation’) non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale (“He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy.”). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?
Abbiamo poco più di una decina di anni di differenza ma per citare qualcuno della mia quasi generazione che stimo parlerei di Francesca Serragnoli. Francesca è sovversiva nel suo esistere appartato, umile. Ha una tenacia, una pazienza veramente rara oggi. È costante e resistente. I suoi sono stati i primi libri che a istinto ho comprato quando ero adolescente e mi avvicinavo alla poesia. Ha mantenuto la promessa che i suoi primi testi portano, le auguro di continuare questo lavoro nel silenzio che le appartiene, nella calma che la distingue.
5. Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?
Ho dei buchi in testa da anni
ogni giorno scavo con le unghie
recuperare poco meno di un millimetro di carne.
Non so perché lo faccio
che sia per far passare la luce
arrivare al centro di me
estrarre tutto il buio.
Vi lascio questo inedito, è un testo che mi appartiene. Che parla appunto del buio e della luce, di una scrittura che tenta di scavare, di scavarsi, abitando una solitudine verticale, un deserto.
CINQUE DOMANDE AI POETI: ELEONORA RIMOLO
1. In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di “segno” che “s’innerva” e lo descrive con queste parole: “sangue tuo nelle mie vene”. Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?
Si innerva qualcosa di assolutamente indefinibile, quanto necessario: una spinta inarrestabile e vitale che mi spinge verso la conoscenza dell’alterità e verso la voglia di condivisione di tutto ciò che è “emozione” e dunque vita. L’eros muove il mondo e pertanto le mie vene ne sono cariche: l’inchiostro ne è diretta derivazione, perché nei miei testi cerco sempre di coniugare il necessario labor limae e lo studio della norma con l’intuizione pura, vissuta ed espressa sull’onda lunga del sentimento.
2. In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità (“I see a darkness”). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?
Ogni giorno vivo immersa in una oscurità della visione che spesso mi impedisce di captare le onde di luce provenienti dal mondo esterno: è una condizione a volte fortemente invalidante, a volte davvero benedetta. Certo è che nel buio si riesce a vedere meglio il rovescio delle cose, motivo centrale attorno a cui ruota gran parte della mia poesia. Non a caso una delle due sezioni del mio ultimo libro (La terra originale) si intitola “La notte più lunga dell’anno”, con riferimento allo stato di offuscamento in cui ci troviamo quando proviamo un desiderio frustrato, perché il desiderio è l’oscura forza di attrazione verso tutto ciò che è “non-Io”: esso ci rende ciechi finché non ci appropriamo dell’oggetto bramato.
3. Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente (“something about him seemed permanent”) e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi (“he transmitted something’… “and it gave me the chills”). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?
Ci sono e ci sono stati diversi poeti che mi hanno fatto sentire il peso della bellezza, con tutte le sensazioni di vertigine che comporta. Sono poeti vicini al mio modo di sentire di quel determinato momento: mi vengono in soccorso lenendo o acuendo le ferite inferte dall’esistenza. In questo ultimo periodo Pierre Lepori con il suo Strade bianche (Interlinea, 2013) ha scavato percorsi carsici e alternativi nel mio cuore, portando alla luce e dando una sistemazione emotiva al senso di perdita e di vuoto che in questo momento mi domina (“Tutto ormai a pezzi,/come un gioco che gioco non è. La solitudine chiama/talmente in alto sui cancelli/che nessuno più la sente. […]”).
4. Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione (“he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation’) non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale (“He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy.”). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?
Un poeta che a mio giudizio possiede una energia verbale sovversiva (in quanto tutto ciò che è energia oggi è sovversione, inversione di tendenza) è Anne Sexton. Anne Sexton non era banalmente solo una donna depressa che cadeva in trance per ore, assumeva psicofarmaci ed era vittima di etilismo; era nello stesso tempo una poetessa chic, molto curata, sempre truccata, vestita di rosso e con tacchi a spillo e circondata da uno staff di collaboratori. Le sue apparizioni pubbliche venivano pagate a peso d’oro e aveva l’abitudine di arrivare sempre in ritardo oltre che ubriaca. Decise di togliersi la vita nell’ottobre del ‘74 uccidendosi con i gas di scarico della sua macchina dopo aver indossato la pelliccia di sua madre. Era di famiglia ricca e moglie di un uomo d’affari ma aveva un comportamento disinibito e molti amanti: per questo diventò una delle paladine della liberazione sessuale. Nei suoi versi introduce senza filtri e senza pudore tali esperienze: la sua poesia, così come quella di Sylvia Plath, viene definita “confessionale” in quanto diviene strumento di conoscenza e anche di trasformazione di avvenimenti traumatici e serve a connettere l’esperienza psichica all’esperienza poetica. Anne è una moglie impeccabile ma per ogni nuovo libro ha bisogno di un nuovo stimolo sessuale – quindi di un amante, che diventa il sostituto protettivo del padre. Ovviamente la tematica delle sue poesie, sebbene sia il traslato delle sue esperienze autoanalitiche, è mediata da alcuni elementi di fantasia che servono a stupire il lettore per la scabrosità dei temi trattati. Con la Sexton, peraltro, si attua in poesia non soltanto una liberazione a livello tematico, ma anche una emancipazione del linguaggio poetico femminile tant’è che si definì “poetessa primitiva” poiché per lei nessuno schermo di tipo intellettuale deve filtrare la rappresentazione poetica, sempre in bilico tra creazione e devastazione.
5. Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?
Da La terra originale, LietoColle & pordenonelegge.it, 2018
I viali esposti alle luci dei fari
come lunghi manuali dell’attesa:
girarci attorno era ridurre il cerchio
ad un’orma, avere ancora una scelta
perché con l’ansia indecente del ritorno
noi dobbiamo vagare, dobbiamo tornare
in cerca della casa originale,
della prima cellula essenziale.
Questo testo mi rappresenta perché non mi rappresenta: la ricerca è la strada maestra che domina tutto il mio agire, in senso poetico ma anche in senso professionale, esistenziale. Una ricerca inesauribile, nella quale ogni lettore deve poter collocare l’oggetto del proprio desiderio irrealizzato (e, forse, irrealizzabile, e proprio per questo decisivo), che viaggia sempre parallelamente al concetto di “perdita”. D’altronde la parola “perdita” la userei anche per caratterizzare il percorso generazionale attuale: penso che muoversi nella poesia per noi giovani oggi significhi fare i conti con tutto ciò che manca. Padri, riferimenti, regole, affetti, sicurezze di varia natura. Come uscirne? Quale atteggiamento usare quando si rischia la chiusura autistica in sé stessi (aggravata dall’uso scorretto dei social, che hanno confuso qualità poetica con numero dei like e delle approvazioni “virtuali”)? Una possibilità potrebbe essere l’autoestraneazione: essa rappresenta infatti il punto di partenza, il momento della presa di coscienza soggettiva, della volontà di rinnovamento e di conversione radicale dell’individuo-poeta che deve liberarsi dalla prigione del proprio Io individuale mentre scrive. I testi non devono mai essere qualcosa di esclusivamente autobiografico, ma solo l’impronta ricavata da un inventario privato della realtà, cioè un veicolo, come avevano già sostenuto Freud e Thibaudet, Bachtin e Debenedetti, per mezzo del quale il passato, l’esperienza vissuta, il proprio stesso io empirico riescono ad aprire di nuovo la porta al caos, al divenire, all’universo dei possibili. Punto fondamentale e non trascurabile, in questi tempi in cui tutto è deviato verso il proprio interno e non verso l’esterno: curare la relazione con l’Altro in tutti i modi è indispensabile e chiunque fa poesia o utilizza una qualsiasi forma d’arte dovrebbe fare.