È sul luogo inaccessibile della parola raggrumata in Di tu in noi – appena edito da La Nave di Teseo – che Cettina Caliò, classe 1973, costruisce la cittadella fortificata di una poiesis in cui vige il tempo incalcolabile del dolore «naturale». Un centro in cui il dire poetico è capace di illuminare lo strazio di una perdita – il marito Sergio Claudio – «nell’infinita luce passante» della sofferenza e su cui vige «questo crudo frammento di cielo/ il nostro indirizzo».
Un pathos però che non è mai ostentato – l’opzione larmoyant di tanta poesia è rigettata per scelta – ma che, al contrario, occupa il «vuoto cocciuto pieno di te» con una lucidità ed una concentrazione atroci, sfuggendo ad ogni funzione consolatoria con uno stile che scardina, fortunatamente, ogni coerenza logico-grammaticale all’interno di una straordinaria e rastremata chiarezza espressiva. Nella rarefazione della parola Cettina Caliò attua dunque una precisa scelta di campo per offrire e donare a quella perdita «senso e suono in segmenti»: coniugando così drammaticamente la sua forma «detenuta» (così come si intitola, autoreferenzialmente, la prima sezione della silloge) insieme ad una precisa scelta nella scrittura – verso, suono, ritmo – a quella del suo significato profondo. Questa alternanza è una costante nella poesia della Caliò, consistendo qui, a maggior ragione, in una consapevole, ineluttabile e antifrastica indicibilità – «non basta/ scuotersi dal grido/ dire ci sono/ non basta» – in cui a fiorire è appunto la nuda parola.
E se nella precedente raccolta (La forma detenuta appunto) il discorrere della lingua in direzione del senso era come percorso in controcanto in una continua opposizione tra sosta e movimento, su cui incombeva profeticamente il campo semantico dell’abbandono, in questa, nel ritroso che la poesia è capace di schiudere, Caliò inaugura uno sdoppiamento vertiginoso, capace di cantare il «tu» dalla distanza inattuabile di un «noi» che non potrà mai più consistere.
Il dolore è impastato dentro una quotidianità immanente, nella quale «batto l’anima sempre/ sullo stesso spigolo», nei confini di una abitudine folgorata da quel «sabato eterno» in cui tutto riaccade in un loop atroce: non a caso, da quella tragedia, «puntare» e «schianto» sono i lemmi che emergono d’improvviso come punte rimosse d’iceberg, squarci sottili e abissali sulla nuda pelle della poesia – «si fa sottile l’anima/ nella precisione del taglio» – rinviando inoltre a quelli verticali di Lucio Fontana che compaiono sulla copertina della raccolta. In questa complessa declinazione del silenzio Cettina Caliò scrive e scava il suo «urlo perfetto» al denominatore di una quiete spaventevole, riparo esposto «all’inutile/ memoria di me» che la poesia riesce a convertire in esplorazione di quel «noi» ormai irraggiungibile ma presente all’infinito nel logos poetico, declinato «in questo inesorabile ognuno per se» che la morte continua a dettare.
Quello che si agita nella poesia di Cettina Caliò è insomma una sorta di scontro tellurico: le placche di una «quotidianità scardinata/ dal respiro» contro quelle della semplice e docile crudezza della convivenza col dolore. Una geologia poetica riversata nei paesaggi essenziali del verso, sotterranea come un fiume carsico, tracciata all’interno di una gerarchia espressiva che rifugge sempre dal puro calligrafismo e che si avvicina invece ad un sentire espressivo interiormente haiku. Plaquette di estrema e dolente bellezza, «Di tu in noi» riverbera una poesia che pur «convalescente» è già di per sè una sorta di commiato, un irragionevole addio interrotto: «universo in contrazione che attende un nuovo inizio».