La poesia come demone moraleggiante e condominio solitario: Gianluca D’Andrea e Alessandro Canzian

La poesia è urgenza di comprendere il mondo e restituirlo in immagini, vite vissute che si innestino tra le pagine.
Se Gianluca D’Andrea scandaglia il mondo attraverso strumenti sociologico-filosofici che rimettono poi in gioco la capacità immaginifica della parola, Alessandro Canzian cerca di rendere la distanza volontaria e inconsapevole tra le persone partendo da un vissuto intimo per allargare lo sguardo a una più vasta porzione di realtà.
Camminano dunque entrambi in quel solco che da individuale si fa condiviso.
Buona lettura!

Rossella Pretto e Marco Sonzogni

 

L’ultimo lavoro di Gianluca D’Andrea è Forme del tempo – (Letture 2016-2018) (Arcipelago Itaca 2019). In Postille (tempi, luoghi e modi del contatto) (L’arcolaio 2017) ha raccolto i commenti a singoli testi di poesia moderna e contemporanea, elaborati dal 2015 al 2017 in vari siti letterari. L’ultimo libro di Alessandro Canzian è Il colore dell’acqua (Samuele Editore, 2016). Condominio S.I.M. uscirà per i tipi di Stampa 2009.

 

CINQUE DOMANDE AI POETI: GIANLUCA D’ANDREA (1976)

1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?

Mi piace partire, per provare a rispondere a questa tua prima domanda, da un’espressione di Andrea Zanzotto, rintracciabile all’inizio di Fosfeni. Si tratta di «coagulo sacro» che, nel testo d’appartenenza (Come ultime cene), indica la transustanziazione, meglio la «materializzazione» e, quindi, l’umiliazione di qualcosa di inviolabile, separato. Ecco, per me, quel «segno» che «s’innerva» è la poesia, che arriva sempre dal basso e nel tentativo di agganciarsi al reale, se ne trova irrimediabilmente separata. S’intuisce un’urgenza, che veramente scorre nelle «mie vene» e poi defluisce nella mia scrittura: il tentativo costante di rimediare a un’assenza di fondo (anche il mottetto di Montale da te citato parla un po’ di questo). Più di cosa o chi, allora, a essere decisivo è come affrontare la relazione presenza/assenza, la scissione cardine, direi, del gesto poetico. Nel mio caso, ne sono più consapevole adesso che ho superato i quarant’anni, a diventare decisiva è una spinta agonistica. Ho proprio difficoltà ad accettare il reale per ‘quel che è’, a considerare «la trasparenza del male» (per citare un titolo celebre di Jean Baudrillard) e restare indifferente. Fu Magrelli il primo a intuire nella mia scrittura un demone moraleggiante e, quindi, una visione austera del mondo, che ne rifiuta la «perdita di realtà» (ancora Baudrillard), pur tenendo in considerazione il suo versante oscuro.

2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?

Riallacciandomi alla risposta precedente e ridefinendone il finale: non vedo oscurità, perché siamo già dentro quello «spilling dark» evocata dal grande poeta scozzese Robin Robertson. Insomma un’ombra ci è già caduta addosso, quel “rivolgimento” (Zukehr) di heideggeriana memoria, che è anche “esser-volto-verso” una costante caduta. Da quando, cioè, «la metafisica è realizzata nella fisica, adagiata nella tecno-scienza» (come diceva già nel 1988 Lyotard), ogni visuale è stravolta, schermata e, quindi, esposta nella «trasparenza totale dell’informazione» (Baudrillard). Siamo in un’oscurità totale, appunto, per eccesso di “illuminazione”, non è certo una novità. Per non sprofondare completamente nell’interfaccia che annulla definitivamente l’Altro, avverto la necessità di una fuoriuscita. A essere centrale nella mia riflessione è ancora il “come”: a mio avviso, la vera urgenza in poesia risiede nel rimettere in gioco la capacità immaginifica della parola, per ri-creare ininterrottamente il reale. Il «passaggio dallo stadio storico a uno stadio mitico», la definizione è ancora di Baudrillard, è il cruccio della mia scrittura attuale. Ne ho scritto in Transito all’ombra, libro che riconsidera la mia storia personale dentro il quadro più ampio della storia collettiva. Ora, però, la mia scrittura tenta di trasformare la necessità di ricostruzione storica in racconto immaginifico. Per entrare nuovamente in quella che Rilke definisce «la mitica miniera delle anime» (der Seelen wunderliches Bergwerk) occorre considerare il mondo nella sua caduta e riscoprire le «arterie nella sua oscurità» (als Adern durch sein Dunkel). Mi permetto di riportare un mio inedito recente, forse il modo migliore per riassumere quanto finora esposto:

Mentre la pioggerellina sorda

«In pochi anni un lago», disse l’uomo.
Il fiato in nuvole di vapore,
mentre il faggio, che ne accompagnava gli argini,
radicava dentro una pianura
alluvionale. Lo raggiunse
un ticchettio, una voce, un raggio
grigio e vecchio di quarant’anni.
Nel duemilaqualcosa calcolarono
nel duemilaqualcosa arcipelaghi,
corolle alpine e sopra cembri
e alghe dai cembri.
Torbiere, schizzi fossili,
riflessi sul thread dell’acqua e della luce.
L’uomo pregò il dio dell’acqua e della luce
ma il lago non era più lì. C’erano lappole
e faggiole cristallizzate nelle fauci del cinghiale
e nel sangue. Mentre una pioggerellina
sorda attutiva la preghiera, dentro,
sempre più simili a barricate, i primi
tre acri d’informazione.

3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?

Ne ho parlato anche in altre occasioni: il poeta che mi trasmette solidità (almeno così interpreto la «permanenza» evocata da Dylan) e, allo stesso tempo, apre vertigini di senso che danno i brividi, è Wallace Stevens. Lo rileggo per i motivi appena esposti, perché la stabilità («il mero essere») si abbina costantemente ad aperture inedite: «The leaves cry… One holds off and merely hears the cry. / It is a busy cry, concerning someone else. / And though one says that one is part of everything, // There is a conflict, there is a resistance involved; / And being part is an exertion that declines: / One feels the life of that which gives life as it is». Avverto sempre in Stevens una spinta a una nuova percezione e, infine, alla trasformazione. Allo stesso tempo, la sua poesia mi dà la consapevolezza di appartenere a un mondo unico e banale, anzi unico proprio per la sua banalità, il che implica un’accettazione dello stesso che definirei sacrale, di un’umiltà sconcertante: «The leaves cry…», «until, at last, the cry concerns no one at all», eppure continua a riguardare tutti.

4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?

Per me il poeta è sempre un sovversivo o non è. Non si tratta di comportamento o posa ma, appunto, di “energia verbale”, utilizzo “trasformativo” dello strumento linguistico. Trasformazione che investe ogni referenza, compreso il soggetto che scrive. Basti pensare a poeti che certo non ebbero una vita “movimentata”, ma non per questo meno inquieta: «E quando vicino gli passo, / al legno che trema e che canta, mi sento / mutato d’un tratto / nel sonoro strumento: / in corde metalliche tese / cambiata ogni fibra, / il corpo, percorso da brividi, / in fascio di nervi che vibra» (Camillo Sbarbaro).

5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?

Tengo molto a un testo contenuto in Transito all’ombra. Mi è sempre piaciuto lo scarto tra il titolo altisonante e il contenuto “umile” e quotidiano. Già in questo credo risieda la vera necessità della poesia, nel suo tentativo di cambiare il contesto, anche di pochissimo, aprendolo alla relazione. Meglio, però, far parlare i versi:

Aspettavo la storia di un quadro millenario

Vedevo lo spettro nell’immagine
lenta, che rallentava gradualmente;
per un istante le figure si muovono appena:
case sullo sfondo, in un parco
bambini e famiglie, madri in maggioranza,
compiono le loro azioni.
In un pomeriggio di aprile –
dentro il quadro mia figlia e mia moglie
nel loro angolo, sedute sulla ghiaia.
Aspetto ancora un po’ prima di entrare,
ho il tempo di sperare che qualcuno
colga da un altro spiraglio il quadro,
che il tempo senza tempo si ricordi
in molti modi, senza nostalgia,
senza la mia stessa speranza,
nell’oblio di un ricordo che non può essere ricordato,
nella compassione lontana
di chi non ne sa parlare.

Gianluca D’Andrea, ph Dino Ignani.

CINQUE DOMANDE AI POETI: ALESSANDRO CANZIAN (1977)

1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?

Intanto ti voglio ringraziare per queste domande, Marco, e per avere pensato a me. Montale si rifaceva a una donna reale (Irma, vissuta contemporaneamente a Drusilla) e ideale (Clizia). In tutto questo va considerato che il Montale che perde Irma per sua stessa incapacità a gestire le cose della vita (la possessività e i tentati suicidi di Drusilla) è il medesimo che la idealizza e la relega, in qualche modo, a figura di donna idealizzata. Clizia non è Beatrice, non è colei che ascende ma è la possibilità di una salvezza che esprime e contiene anche tutte le frustrazioni del reale rapporto con Irma in una sorta di autoalimentazione di quel vissi al 5 per cento montaliano. Quando parliamo di segno che s’innerva e sangue tuo nelle mie vene dobbiamo capire di cosa stiamo parlando. Il segno che s’innerva va considerato alla luce della cara minaccia che consuma e dell’altro che lei stessa rappresenta.

A questo punto cerco di rispondere. È doveroso sottolineare che la mia vita letteraria (parolona per uno che ha solo 42 anni) al momento è suddivisa in due momenti: il primo nel quale la tematica era prevalentemente amorosa, il secondo sostanzialmente rappresentato dall’opera a cui sto lavorando da cinque anni (Il Condominio S.I.M.). Prima il mio segno che s’innerva era sostanzialmente una donna che, nella relazione, portava i simboli del rapporto dell’uomo con il mondo inteso come realtà astratta, più concettuale che reale. Nessun percorso definitivo, la donna, il segno che s’innerva, era sostanzialmente la cornice di un quadro di studio. Dal Condominio S.I.M. ho cambiato prospettiva e segno. Alla radice prima dell’opera c’è sempre una donna, in questo caso letteralmente una Irma, ma solo come punto di partenza e continua adesione e scontro con la realtà. Il sangue tuo nelle mie vene in questo diventa l’osservazione delle relazioni altrui alla luce di una comprensibilità data dall’esperienza diretta (con Irma).

Nelle vene della mia scrittura s’innerva il desiderio di comprendere delle persone che hanno nome e casa, luogo. Perché questa solitudine? Perché le relazioni sembrano più muri alzati con incontri (anche intimi) che sono distanza, non avvicinamento? È questo che mi interessa, il segno che s’innerva: partito in qualche modo da Irma e dalla mia esperienza con lei cercare di far domandare ai lettori quanto di Olga, di Carlo, di Anna, di Giulia e via dicendo (tutti personaggi dell’opera) c’è in loro. E perché.

2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?

L’oscurità che ho visto, o che mi è parso di vedere, è sostanzialmente la solitudine umana. Alcuni mesi fa ero a un Simposio in Austria su Natura e Letteratura e abbiamo discusso di unità e separazione con la natura, e tra gli uomini. Dal mito della Genesi al buon selvaggio di Rousseau al film Apocalypto di Mel Gibson che, pur con le sue inesattezze storiche, sottolinea quanto sia connaturato nell’uomo fare del male agli altri, ci siamo domandati della possibilità di un ritorno all’unità, alla pace. Oggi sottolineiamo quanto i social media ci abbiano avvicinato e allontanato. Una solitudine data dall’incomunicabilità intrinseca negli esseri umani. Nel Condominio i personaggi sono tutti soli a modo loro, isolati, le relazioni sono sostanzialmente superficiali. Ma è proprio il cercare relazioni che non possono che essere superficiali a creare l’impossibilità della relazione. E la solitudine. Che poi si declina per ogni personaggio in maniera diversa.

3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?

Certamente, e più d’uno. Tralasciando il già citato Montale dei Mottetti, che rappresenta assieme a Xenia un momento poetico per me fondamentale (pur nelle differenze), non posso non citare in primis Ferruccio Benzoni. Poeta malato di solitudine e di alcolismo. Ossessionato dalla (morta) madre, la sua intelligenza era autofagocitante eppure sempre attenta, penetrante. Benzoni aveva la capacità di gestire la velocità del testo, spesso modulando due diversi andamenti. E lo possiamo ritrovare anche quando abbiamo solo 8/9 versi. Una capacità di addensare la parola e le immagini con uno stile rotondo eppure irto, spezzato. Benzoni alla lettura è dolcissimo e spinoso, partendo da Sbarbaro (uno Sbarbaro che ciclicamente torna nella letteratura italiana, basti pensare a Montale o al recentissimo Matteo Bianchi) esprime e diventa perfettamente quel sangue tuo nelle mie vene di cui si parlava prima. Non ultima la capacità, in questo caso non unica nel suo contesto, di inserire versi altrui nascondendoli, facendoli propri, rielaborandoli senza mai dichiararli apertamente. Tanto che un testo di soli 8/9 versi, se analizzato nei suoi riferimenti, acquisisce una complessità che spesso oggi non è raggiunta nemmeno da testi di ben maggiore ampiezza.

Altro poeta che trovo folgorante è Ivano Ferrari, l’Ivano Ferrari di Macello. La sua forza è quella di deflagrare la realtà oltre il senso comune. Di mostrare, senza aggiungere nulla più del necessario e del reale, quanto c’è sotto la superficie. Ferrari mostra, evidenzia, e colpisce con la pura realtà.

Questi dunque sono poeti che letteralmente mi fanno venire i brividi perché non solo hanno scritto qualcosa di permanente, ma di definitivo.

4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?

Questa è una domanda molto complessa. Sappiamo gli influssi che ha avuto Pound, come la Szymborska, Bukovskij e via dicendo. È anche vero che nei contemporanei raramente emergono autori che si rifanno chiaramente ad altri definibili Maestri. Alcuni casi ci sono, sto pensando ad esempio a Giovanna Frene con Zanzotto, ad Alberto Toni con Mario Luzi (in Il dolore, Samuele Editore 2016), a Flaminia Cruciani con Deridda (in Piano di evacuazione, Samuele Editore 2017). Forse la domanda è sbagliata a monte. Forse la vera domanda è: può esserci un Eminem in poesia? Può esserci un poeta sovversivo capace di cambiare le regole del gioco?

Secondo me no, in primis perché non c’è, poi perché a tutti gli effetti oggi non avrebbe senso. La poesia è solo uno specchio della società, e in Italia (per restare nello specifico) da decenni sentiamo parlare di riforme costituzionali e non solo, senza che mai effettivamente cambi qualcosa, o se cambia in peggio. In poesia non è diverso. Da decenni i poeti cercano di creare qualcosa di nuovo producendo così un appiattimento delle forme e delle riforme. Non c’è sovversione perché in qualche modo tutti cercano d’essere sovversivi fino a omologarsi. E da qui la domanda: abbiamo veramente necessità di un autore sovversivo? E cosa vuol dire sovversivo? Quando un’opera si può definire sovversiva?

Io ritengo che il poeta oggi debba essere più vicino al bancario Eliot che a Eminem, o se vogliamo parlare di contemporanei più vicini a un Guido Mazzoni che a un’Alda Merini. Che debba avere una base poetico filosofica importante e ragionata. Che agisca sulla cultura e sulla società non con le azioni ma con versi e critica. Perché siamo in un periodo in cui le cose nascono, esplodono e poi si esauriscono in sé stesse. Per quanto riguarda il poeta che per me è stato sovversivo, rifacendomi alla questione libro sovversivo e non autore sovversivo, oltre ai citati libri di Benzoni e Ferrari, anche gli stupendi Il franco cacciatore di Caproni, La capitale del dolore di Èluard, Aprire di Porta, Diario di Normandia di Ruffilli.

Se proprio dovessi essere chiamato a nominare poeti sovversivi per modello di vita purtroppo non potrei non citare Federico Tavan e Claudia Ruggeri (quest’ultima da me spesso messa in relazione a Claudia Di Palma in quanto, a mio avviso, nel tempo ne prenderà il testimone), sapendo però che sono esempi (diversi) di vita autoerosa, consumatasi in sé stessa. Il che pone una questione fondamentale: quanto vale la letteratura di fronte alla vita?

5. Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?

C’è mai una poesia che veramente ci rappresenta? O per meglio dire: accettiamo che ci rappresenti? Per me la scrittura è un’azione estremamente faticosa, un esaurimento fisico e psicologico. Eppure non posso non prenderne atto. La scrittura per me è un atto inizialmente definito da una sintesi di letture, riflessioni ed esperienze che vengono coniugati (l’unico momento per così dire magico) e addensati dall’ispirazione in un testo. Da lì però succedono mesi, a volte anni come nel caso del Condominio, di rielaborazione continua (oltre a diversi momenti di rivalutazione e rifacimento, dati da consigli di amici e colleghi quali Federico Rossignoli, Maurizio Cucchi, Gian Mario Villalta).

In questi anni di lavoro il rapporto con l’opera diventa analisi di ciò che la poesia vuole dire, e dell’obiettivo che vuole raggiungere. E del contesto in cui nasce, e della tradizione o meno a cui si riferisce. Per cui la mia risposta non può che essere che al momento è il Condominio la poesia che più mi rappresenta, appellandomi alla definizione di poesia lunga che si dà della Terra desolata di Eliot, mentre se dovessi proprio riportare un testo metterei la parte per me più personale: Carlo.

Non siamo fatti per restare. È vero? Non è vero? Scriverlo implica una responsabilità enorme perché si sta definendo un qualcosa di cui non si è sicuri. Carlo cerca e vive una donna come una condanna. E anche lei non sa come uscire dalla vita. Carlo è l’uomo che è andato a Parigi e l’uomo che sta inutilmente attendendo. Perché siamo uguali. La diversità tra individui perde di sostanza nel momento in cui comprendiamo che siamo tremendamente uguali.

Potrà questo aiutarci? Potrà questo erodere un po’ la solitudine? Non lo so.

 

Carlo è il ragazzo della porta
accanto. Vive solo. Grida
qualche volta di notte perché
tutto ciò che è trattenuto
alla fine esplode, butta
le immondizie la sera, come
la vita, una volta alla settimana.

Carlo è un ragazzo che beve.
Vive di fronte a una cucina
che non ha nulla da dire,
colleziona lattine, lascia
in giro fazzoletti perché
raccontino una storia, vicino
al forno, ai libri accanto al letto.

Carlo sbatte la porta
ogni volta che torna a casa.
Misura cinque passi la sua
felicità – se si può parlare
di felicità quando si hanno
i calzini sporchi e gli occhi
bucati, dall’ultima lavatrice –.

Carlo so ha fatto un viaggio.
A Londra, o a Parigi, ha
fotografato salumi e donne
abbracciate alle vetrine, perché
gli uomini amano l’effimero,
ciò che esiste e poi scompare.
Non siamo fatti per restare.

Carlo sono giorni che
non fa la doccia. Lo vedo
uscire dal portone con gli stessi
pantaloni, lo stesso odore, per
questo sua madre l’ha sgridato
al telefono dicendo
che è inutile attendere l’attesa.

Stamattina Carlo si è fermato
a lato della strada, appena
fuori dal portone, in attesa
di qualcosa che non passa.
Un cappellino bianco e le
mani strette a pugno.
È la vita che non passa.

Oggi ho visto Carlo con
due bottiglie di vino e un pollo
da fare al forno, poi
gli ha suonato una ragazza
che portava stivali alti e calze
blu come una condanna.
Una cosa che lui aspettava.

Carlo questa notte credo
abbia fatto l’amore. Ho sentito
versi di gole che si toccano, ma
era senza volto quella donna.
Solo piedi lunghi e capelli ben curati.
E grida di un animale in gabbia
che non sa come uscire dalla vita.

Alessandro Canzian, ph Dino Ignani.

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