Questo è il mio regno dei cieli (tra quarantena e novena).

Durante gli anni della ezovscina, dal 1936 al 1938, il periodo più sanguinoso del “terrore staliniano”, quando ogni forma di opposizione al vertice comunista, vera o immaginata, venne annientata dalla polizia di Ezov attraverso giudizi sommari, omicidi, deportazioni di milioni di persone, una delle voci più importanti dell’URSS, Anna Achmatova, poeta, per molti anni sottoposta a censura, trascorse diciassette mesi in coda, dall’alba al tramonto, fuori dal carcere di Leningrado, in attesa di avere notizie del figlio arrestato. Un giorno (lo scrive lei stessa nella prefazione alla raccolta di poesie Requiem) qualcuno la riconobbe e «allora una donna, con le labbra livide dal freddo, che stava dietro di me, e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, riprendendosi dal torpore mentale che ci accomunava, mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): “Ma lei può descrivere questo?” E io, dissi: “Posso”. Allora una specie di sorriso scivolò su quello che una volta era stato il suo viso».
Questa citazione dell’Achmatova è di fondamentale importanza. Nelle ultime settimane la cronaca è stata intervallata da interviste, consigli di intellettuali, scrittori, poeti chiamati a dare un loro contributo all’emergenza sociale creata dalla crisi epidemica. In generale, quello che in forme e parole diverse arriva al lettore è che bisogna considerare gli aspetti positivi di questa situazione (da un punto di vista dell’ambiente, ad esempio, dovevamo fermarci…); l’essere forzatamente chiusi in casa è l’occasione per avviare un cambiamento interiore, o per una maturazione improvvisa nel microcosmo relazionale, per rivalutare piccoli gesti quotidiani, come «lavare il pavimento», fino ad essere un esercizio della «tolleranza del non capire» o speranza di uscire dalla paura della solitudine. E in questo silenzio elitario, privilegiato, altro, improvvisamente si è alzato il grido di un’altra poeta russa, Marina Cvetaeva. Stessi anni, stesso orrore, lei esule in Boemia, scrive a Rilke, il 22 agosto 1926: «Per tutta la mia giovinezza (a partire da 1917) nient’altro che lavoro da manovale. Mosca? Praga? Parigi? St. Gilles? Tutto uguale. Sempre e soltanto fornelli, ramazza, denaro (che non c’è). Tempo per me, mai. Fra le Tue conoscenti e amiche, nessuna vive, potrebbe vivere, in questo modo. Non dover più spazzare: questo si chiama il mio regno dei cieli».
Non credo sia tempo di volgere lo sguardo verso l’interiorità, ma di aprire le finestre e guardare fuori. Questi avvenimenti, il dolore, i sacrifici devono essere una spinta verso l’altro, verso chi perde la propria voce nella sventura e spera di trovare espressa e denunciata la sua lotta nelle parole dei poeti. Nuovi pensieri, nuove conoscenze, che non riguardano tanto un mitico tempo ritrovato, ma la condivisione di un’etica. Abbiamo responsabilmente accettato la restrizione della liberà individuale, il venir meno degli spazi di aggregazione, la socialità, le scuole, la chiusura delle frontiere, in una parola: l’aperto. Quanto sono importanti per ognuno di noi? Per la maggior parte della popolazione mondiale si tratta di lottare per la sopravvivenza: in America nella prima settimana di lockdown si sono creati 3,3 milioni di disoccupati. Per chi non vive solo o non ha una villa, stare a casa vuol dire saper gestire, organizzare, pacificare più personalità spaventate, esauste, strattonate dai propri compiti, che siano scolastici o riunioni interminabili al telefono. Spesso tutto ciò insieme, spesso con lo spettro del problema economico.
La riflessione andrebbe rispettosamente portata sulla distanza che separa una scelta da un obbligo; la condizione privilegiata di poter vivere in un tempo presente, dalla realtà della cassa integrazione. Viviamo ormai da più di un mese in un “giorno per giorno” fangoso. Dove sono i matematici, gli analisti, gli economisti? Chi ha calcolato e ha un prospetto delle ripercussioni economiche del fermo totale del Paese, con uno scenario che vada da quattro settimane, due mesi, quanti? Quando scade il punto di non ritorno, dopo il quale la crisi non potrà essere riassorbita nei prossimi anni? Chi si assume la responsabilità di decidere cosa fare se raggiungeremo un aut aut, tra tenuta economica e difesa della salute?
Questi interrogativi sono qui posti non perché si ritiene corretto adottare una linea cinica alla Boris Johnson del 13 marzo, «prepariamoci a perdere i nostri cari», o contestare la scelta dei provvedimenti per il contenimento del virus attraverso la quarantena, ma perché è paradossale la mancanza di visione condivisa con la popolazione di quello che ci attenderà, se dovessimo precipitare in una lunga e devastante crisi economica, che la storia insegna essere la migliore incubatrice di ogni svolta autoritaria. Chi scrive «noi siamo Enea che prende sulle spalle Anchise […], noi siamo Virgilio […] nani, forse, ma seduti sulle spalle di giganti, che la grande bellezza dell’Italia l’hanno messa a disposizione del mondo», forse non si rende conto di quanto sia vera l’affermazione che la «grande bellezza dell’Italia» sia ora a disposizione del mondo, più propriamente del mondo della speculazione finanziaria. Le imprese in difficoltà economica, che non saranno in grado di riprendersi se la chiusura continuerà, secondo questo modello orizzontale di quarantena, saranno facilmente preda di acquisizioni. Ad oggi si parla di fallimento per un dieci per cento di esse. Sul NewYork Times del 22 marzo è pubblicato un articolo su «come tornare al lavoro», che è stato ripreso in Italia da diversi imprenditori, tra i quali Nicola Bedin, che scrive: «Dobbiamo evitare di distruggere la nostra economia e per farlo dobbiamo dividere la popolazione in quattro categorie in base al loro rischio ed alla loro vulnerabilità. Categoria 1, gli infetti e coloro che hanno più di 75 anni e altre patologie: per loro l’isolamento assoluto deve continuare. Poi altre categorie con livelli di misure restrittive sempre più blande fino alla Categoria 4, persone con meno di 60 anni e in salute: loro possono riprendere subito a lavorare regolarmente, solo mantenendo le distanze e l’igienizzazione consigliati. Per dirla come John Cochrane, spegnere e riaccendere l’economia non è come spegnere ed accendere una lampadina».
Tornando nel linguaggio che abito, vorrei ricordare le parole di Etty Hillesum: «se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati ad ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione –, allora non basterà.

Aimara Garlaschelli

 

 

Aimara Garlaschelli, giovane poeta valtellinese, ha all’attivo due raccolte di poesie, Figure di silenzio, Lietocolle, Faloppio 2016, e Il rito delle ore (posfazione di Stefano Agosti), ETS, Pisa 2019, nonché una curatela con traduzione a fronte, T. S. Eliot, La terra desolata (introduzione di Anthony L. Johnson), ETS, Pisa 2018

 

 

 

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In copertina, Samantha Torrisi, Untitled, 2013. Olio su tela, su tavola, 13×18 cm – Samantha Torrisi (Catania, 1977) dà vita, con i suoi dipinti, a un mondo indefinito e irreale, giocato sulle mille contaminazioni dei media di oggi. La sua è una visione esistenziale dell’uomo in continua fuga, ricerca, trasformazione, in rapporto costante con la società odierna e con la Natura. Le sue opere fanno parte di diverse collezioni di arte contemporanea. Ha collaborato a progetti multidisciplinari, partecipato a concorsi, fiere d’arte contemporanea internazionali e a numerose mostre collettive e personali in Italia e all’estero. Vive e lavora alle pendici dell’Etna. Approfondimenti: www.samanthatorrisi.it / www.instagram.com/samanthatorrisi_art

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