#1Libroin5W
CHI
L’olmo. Il protagonista è l’albero, che era già grande quando io cominciavo a crescere, e che poi è stato abbattuto. C’è poi un “io”, co-protagonista e narratore, che lega le varie vicende alla storia dell’albero. Attraverso questo “io” il racconto dell’olmo diventa anche la narrazione di eventi rilevanti per una famiglia e per un intero ambiente. Il fatto decisivo è che questo “io” non è del tutto “me”, cioè l’autore, anche se cerca di corrispondergli: proprio nel corso della narrazione (delle ricerche e delle riflessioni) scopro qualcosa di vero ma difficile da dire e da accettare: l’“io” è un campo più ristretto, più limitato del “me”, poiché l’“io” è un dialogo interiore che diventa un monologo, mentre il “me” è il dialogo della vita che non si compie mai in un monologo e che ha il suo racconto vero nella condivisione con gli altri. Se è vero che siamo costretti a raccontare la nostra vita perché assuma un senso, e perciò si dice che la vita è un racconto, non dobbiamo confondere quella che è solo una parte della verità con il tutto: ce la raccontiamo, quella vita, in tutti i sensi. Mentre la vita vera non è affatto un racconto, ma è qualcosa che resta sempre esposto all’improbabile, così come all’inevitabile, e il racconto che di volta in volta è narrato ha radice nel confronto con gli altri.
COSA
Due i temi principali. Il primo è proprio quello appena enunciato: cercando di ricostruire la storia dell’olmo e di scoprire perché è stato abbattuto, il narratore – in modalità autofiction – si rende conto che la sua memoria, intorno alla quale ha costruito il mondo simbolico dell’io, è solo una parte della verità della memoria, mentre altre parti le possiedono gli altri, e quindi diventa necessario mettersi in discussione e in relazione sincera con gli altri. Il secondo tema riguarda l’avvento dell’industria nella campagna veneto-friulana, a cominciare dagli anni ’60, e la devastazione dell’ambiente, delle consuetudini, dell’affettività dentro quel mondo.
QUANDO
Due sono anche le ragioni che mi hanno portato a scrivere questo libro. La prima è che la storia dell’olmo si legava perfettamente a quella della meccanizzazione del lavoro agricolo, dello sviluppo industriale e delle relative conseguenze. La seconda è un’antica devozione agli alberi, presente da tempo anche nella mia poesia. La vegetazione in generale, ma soprattutto gli alberi, non sono soltanto il paesaggio in quanto “veduta”, il paesaggio-cartolina, ma i veri protagonisti delle forme del mondo che ci circonda e del quotidiano scorrere del tempo.
Il libro ha avuto bisogno però di un motorino di accensione e di un giro di chiave per cominciare a girare. È stato questo: nel mio romanzo precedente (che era un vero romanzo), Bestia da latte, c’era il personaggio di un cugino del protagonista che davvero era troppo simile in tutto a un mio vero cugino. Avevo giocato con l’autofiction su un limite – l’ho capito dopo – non facile da accettare per chi si era riconosciuto. All’unica presentazione del libro che ho fatto nei luoghi dove abito è comparsa la moglie di quel cugino. Ci siamo parlati per pochi minuti, e poi… E poi inizia quell’altra storia che si intreccia con la storia dell’olmo e della sua fine. D’altra parte, c’è qualcosa che è chiaro fin dall’inizio: dopo aver descritto il rogo che consuma l’albero, il narratore dichiara: “Ho questo ricordo”, e poi, una riga sotto aggiunge. “Questo ricordo è falso”.
DOVE
Sono tornato nei campi della mia infanzia, con una curiosità ancora intatta. Ho rivisto com’era quella vita, quale paradiso di vegetazione, di acque, di animali fosse il posto dove vivevo e allo stesso tempo quanto era dura e povera la vita, quanto erano rigide e obbliganti le relazioni in famiglia e fuori. Mi ha guidato però più di tutto l’attenzione alla vita degli alberi, alla loro realtà biologica e alla loro domesticazione. Fino al punto di comprendere che la vita degli alberi ha una storia fortemente intrecciata a quella dell’uomo. La differenza è che gli alberi sono più lenti, però a loro volta si muovono, comunicano, stringono alleanze, aggrediscono e uccidono.
PERCHÉ
Il già menzionato romanzo precedente, Bestia da latte, mi aveva lasciato irrisolte molte questioni, anche personali, come ho detto. E c’era da affrontare la questione della differenza tra autobiografia, autofiction e “narrabilità” della (propria) vita. Tutto era rimasto vago: schede, inizi di capitoli, annotazioni. È stato l’albero, l’olmo grande a creare l’ordine che tiene tutto insieme.
Inizio del libro
Il cuore del fuoco è bianco. Il sangue della luce è nero. La notte si incurva intorno alle fiamme che cercano il cielo fuori dal loro involucro buio.
La materia che nutre il bagliore si rivela, avvicinandomi ancora di qualche passo, fatta di groppi di sarmenti di vite, accatastati uno sopra l’altro a formare la pira.
Sul rogo si contorcono, crepitando e urlando, i rami bianchi dell’olmo.
Il calore è così forte che tutta l’aria trema intorno al fragoroso trionfo delle fiamme. Avviluppa no il tronco dell’albero, si torcono innalzandosi, divorano la luce gialla che resiste sulla corteccia.
La chioma appare immensa e, ancora buia, si confonde con la volta notturna.
Tra l’osceno lingueggiare delle fiamme, il fusto ancora resiste quasi intatto mentre i primi rami si concedono al fuoco con mugolii e tremori. Il fumo non si vede, nella notte senza stelle, solo il fuoco e l’olmo, l’olmo e il fuoco, in una festa selvaggia e indecente che non è ancora di morte, ma di esaltazione della materia, già nel profondo penetrata dal calore mortale.
Resto lì, guardo, no a quando un’onda rossa e gialla implode dentro la chioma, e un guizzo di luce e fuoco buca la densità del fogliame, uscendo al di sopra dell’albero, che finalmente vedo intero nella maestà del sacrificio.
Ho questo ricordo.
Questo ricordo è falso.
Ma sì, devo essermi rappresentato così tante volte la morte dell’olmo, che ho costruito nella mia mente una sequenza di immagini e queste, proprio perché ricorrenti e impresse dalla mia adesione emotiva, sono rimaste invischiate, abusive, nell’apparato della memoria.
Di questo sono sicuro, perché al presentarsi del ricordo dell’olmo arso vivo, capro espiatorio e corpo sacri cale di un mondo che aveva da poco abbracciato la religione del capitalismo, non si accompagna il senso di un vero legame con il vissuto.
È qualcosa che per esperienza conosco bene: c’è una memoria di immagini, di sequenze che ricompaiono come videoclip nella mente, che riconosco come memoria mia, ma allo stesso tempo fatta di una materia non incarnata. Mentre altre immagini, altre sequenze, se pure in nulla diverse, sono radicate – non so dove o come – nel mio corpo con il sentire della vita presente e, benché provengano dal passato, di questa vita presente fanno parte. È come se ci fosse qualcuno che porta in me tutto quello che riesce a trattenere di me stesso, e un altro – ben più fragile ma più tenace – che possiede la mia individualità assoluta, il mio essere proprio io, il tessuto della mia vera vita.
—
pag. 79
Poche settimane dopo l’uscita di Bestia da latte mi avvertirono che sui social (che io non frequento) c’era una locale campagna di aggressione, dove mi si accusava di falso, di frode e di altre cose peggiori, orchestrata dalla moglie di mio cugino: il marito si era riconosciuto nel personaggio e ora chiedeva verità e vendetta.
Mio cugino, che non si chiama Giuseppe, ha davvero qualche anno più di me, è vissuto nella mia stessa casa, e il legame che io sentivo di fratellanza a un certo punto si è trasformato in una persecuzione inconfessabile – a causa della situazione della famiglia – e inascoltata anche quando trovavo la forza di confessarla, e quello è stato il mio segreto per tanto tempo.
Solo allora, alla notizia di quella sua reazione, che aveva coinvolto una parte – la sua parte – dei famigliari, mi resi conto che avevo prelevato così tanta materia del romanzo dai miei ricordi veri. Forse più di quanto era necessario. Però era evidente che, a parte il nucleo profondo della vicenda, c’era troppa invenzione perché chiunque non potesse capire la distanza dalla mia vera biogra a e dalla vera storia della famiglia. Solo allora mi venne in mente che quelle invenzioni potevano essere accolte come volontarie distorsioni allo scopo di produrre una versione falsa di ciò che era realmente accaduto a me e a tutti gli altri.
Non potevo far altro che ignorare. Sarebbe stato più difficile spiegare che non mi sarei mai illuso di raccontare “la verità dei fatti”, quanto piuttosto avevo sperato di circoscrivere la verità di un’esistenza, che veniva dall’esperienza mia personale, soprattutto interiore, e con la comune vicenda fa- migliare non aveva più alcuna relazione.
Per quanto anche nei fatti – mi capitò di pensare in un assalto di stizza – il mio vero cugino doveva solo stare tranquillo che c’ero andato leggero! Il disagio mi faceva dimenticare quanto ero stato attento a creare per quel cugino – dentro il romanzo – un personaggio spaesato, ferito dall’abbandono, che assume quel comportamento feroce in preda a una terribile confusione. Non c’è un solo giudizio malevolo, non c’è un’accusa, neppure un rimprovero nei suoi confronti. È una figura dolente e priva di colpa.
Mentre scrivevo quel libro ero cosciente di manipolare una materia che era parte viva della memoria di altre persone, e proprio perciò ero stato attento a dividere bene la coscienza adulta del protagonista dai suoi ricordi di bambino.
Sapere di questi attacchi mi faceva male, nonostante le mie buone ragioni. Intuire che il libro stava assumendo per alcuni, nel paese dove sono cresciuto, motivo di chiacchiera, mi metteva a disagio.
La cosa è andata avanti per qualche mese. Pregai tutti quelli che mi riferivano via via le frasi insultanti e le accuse di non intervenire per nessuna ragione.
Poi commisi un errore: accettai di parlare del mio libro a un gruppo di compagni di scuola e di università, in una piccola libreria del paese dove da tempo sono andato ad abitare. Non era una presentazione u ciale del romanzo, piuttosto una chiacchierata fra amici, un motivo per ritrovarci, con alcuni di loro, dopo tanto che non ci si vedeva. Gli inviti erano stati fatti ad personam, ma la libreria era aperta al pubblico e una delle titolari, che conoscevo da quando eravamo al liceo, aveva postato la notizia su Facebook.
La chiacchierata era iniziata da una mezz’ora quando comparve sulla porta la moglie di mio cugino, passò la soglia di un metro e si fermo lì, in piedi, senza muovere un muscolo, fino alla fine.
Arrivai in fondo, spinto dalla fretta di consegnarmi a quello che sarebbe successo dopo e allo stesso tempo desideroso di ritardare quel momento. Intanto mi aspettavo una piazzata. Che non ci fu. Un paio di volte devo aver sorvolato a vuoto il discorso che stavo facendo e poi ripreso terreno con qualche esitazione, mentre continuavo a sorvegliare la moglie di mio cugino che non batteva ciglio.
Dopo gli scontati amichevoli applausi, divorato dalla tensione, mi diressi senza esitare verso Maria (è il nome della moglie di mio cugino) e le ho chiesto per favore di uscire con me.
Sul marciapiede davanti alla vetrina della libreria, tutto si svolse diversamente dalle mie attese (e forse anche dalle sue).
“Ciao, come stai?”
“Ciao, non ti sei mai fatto vedere. Tuo cugino sa di quello che hai scritto e ne so re. Hai messo in piazza la sua vita. Dice che gli torna addosso con tutto il dolore. Dovevi dirglielo. Dovevi parlargli.”
Il tono era di rammarico, ma non violento, e quando, più avanti, le parole diventarono di accusa, la voce rimase pacata, la pronuncia lenta.
Elencai le mie ragioni, lei quelle di mio cugino. E le sue, perché una parte di quello che raccontavo riguardava tutta la famiglia e quindi – era chiaro che lo pensava – anche lei.
In questa discussione, che durò una ventina di minuti, quello che mi colpì veramente, e che mi lasciò il segno, fu qualcosa che non mi sarei mai aspettato: una richiesta di vicinanza, di condivisione, direi più che il rimprovero, il rimpianto. La cosa che più feriva mio cugino, e anche lei, era che io avessi scritto quelle cose in solitudine, senza confrontarmi con loro, a coronamento del fatto che da anni sfuggivo qualsiasi occasione per incontrarci o, se ci si incontrava, per parlare un po’ insieme.
È vero, quella pretesa faceva sorridere: avevo scritto un romanzo. Come avrei potuto confrontarmi con loro? Su che cosa? Però in questo assurdo biasimo c’era qualcosa che mi colpiva, un richiamo vero, una punta dolorosa.
Promisi che ci saremmo visti, che sarebbe venuto presto il momento in cui avrei trovato il tempo di andare a trovarli e parlare con mio cugino. Promettevo e intanto mi chiedevo se l’avrei fatto mai veramente.