L’antichità che guarda al futuro: Paolo Febbraro e Nicola Gardini
In questa puntata di Chiedimi ancora ad essere messi a confronto sono due poeti della stessa generazione. Poeti e critici/saggisti.
Gardini, dopo Baroni (Feltrinelli 2009), ha scelto di prestare la sua intelligenza a Oxford. Ma non trascura l’Italia: Rinascere. Storie e maestri di un’idea italiana (Garzanti, 2019) ne è un esempio. È recentissima inoltre la nomina alla presidenza di Salani, per cui gli facciamo gli auguri.
Febbraro non teme l’eco che la tradizione e la vasta memoria fanno risuonare in lui. Ecco allora che nel 2019 ha curato Le grandi traduzioni. Versioni di poeti (Elliot), frutto del suo lavoro sul «Sole 24 Ore», e Angel Hill, di Michael Longley (sempre Elliot).
La brevità è l’anima della saggezza, diceva Amleto. E i due poeti non si sono tirati indietro, regalandoci, in estrema sintesi, un lampo del loro mondo e delle loro predilezioni: «nell’evanescenza c’è corporeità e realtà», dice Nicola Gardini, che vede la verità del buio, un modo per riconoscere la forma segreta di tutto. Ci parla invece non dell’oscurità privatissima, Paolo Febbraro, ma di quella «della troppa luce», non rinunciando a denunciare la concreta minaccia del riscaldamento globale.
Non sveliamo di più, lasciando al lettore il piacere di questa fulminea incursione.
Buona lettura!
Rossella Pretto e Marco Sonzogni
L’ultima opera poetica edita di Paolo Febbraro è La danza della pioggia (Elliot 2019); quella di Nicola Gardini è Istruzioni per dipingere (Garzanti, 2018).
CINQUE DOMANDE AI POETI: PAOLO FEBBRARO (1965)
1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?
L’amore per mia moglie Daniela. Ma quella del sangue nelle vene è un’ottima metafora, perché il sangue – che è lei – percorre tutto il corpo, organi coordinati ma diversi fra loro. Credo che siano così i miei libri di poesie: un solo sangue trapassa e nutre componimenti e registri differenti.
2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?
Naturalmente, e più volte, un’oscurità privatissima, di cui non posso parlare in questa occasione. Ma quella di cui invece posso e voglio parlare è l’oscurità della troppa luce. Quella del Sole sempre più inflessibile per il riscaldamento globale. Quella che riverbera da miliardi di schermi portatili o domestici. Quella che moltiplica il numero di chi possiede una mediocre e parzialissima conoscenza, espandendo a dismisura la democrazia fino a renderla ineffettuale, immensa e reciproca elisione. Troppa luce, e buio fitto.
3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?
Più che un solo poeta, ci sono molte poesie che mi fanno sentire questo. Più volte ho ricordato il mio grande debito per il Congedo del viaggiatore cerimonioso di Giorgio Caproni. Ma sono decine le poesie che mi hanno dato quella vibrazione del “permanente”, di qualcosa che viene da ciò che è primario e che ci sembra perfetto, non perché è levigato e melodioso, ma perché emerge come eco dal vero abisso che siamo. Ricordo di quando bambino leggevo sul libro di epica, in prima media, l’Iliade tradotta da Vincenzo Monti, e la morte di Patroclo m’instillava il dubbio acerbo sullo splendore della forza; parteggiavo per Achille contro Ettore anche se sapevo, o forse perché sapevo, che anch’egli sarebbe morto presto. Ricordo l’impressione fortissima del canto dantesco di Ulisse, che imparai a memoria per “suonarlo” quando volevo. Ma non dimentico l’impronta che le canzonette ascoltate durante l’infanzia hanno inciso sul corpo della mia mente. Ancora oggi, Bandiera gialla di Gianni Pettenati, per cui andavo matto, mi sembra un memento sulla fugacità della giovinezza. E non potrei mai sminuire l’importanza che Fabrizio De André ha avuto nella mia formazione ideale. Senza Il testamento di Tito forse non avrei mai scritto le mie poesie su Dio. C’è poco di più “permanente” per me.
4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?
Lucrezio e Dante. Come vedi, il mio gusto non si orienta verso il presente, ma verso il futuro…
5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?
Deposizione:
«Do testimonianza, metto a verbale
che un tempo si cantava per lo specchio,
tardava o ci ammalava primavera,
le donne si compravano coi cuori.
Notte, tramonto e sera
stavano per la morte, di amori
era sintomo il giorno, e cecità.
Del mare affermo la materna crudeltà,
dell’albero la piega taciturna.
Visto e approvato ciò che qui fu legge,
piango, lo scordo e depongo nell’urna».
Forse è la più bella e misteriosa poesia che io abbia mai scritto. Mi commuove e mi viaggia dentro; m’inquieta e mi racchiude; forse addirittura mi protegge. Il mio scopo di poeta è quello di scrivere alcune delle poesie che mi piacerebbe leggere. Credo, con questa, di esserci riuscito.
CINQUE DOMANDE AI POETI: NICOLA GARDINI (1965)
1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?
Montale indica un sangue dannato e salvifico a un tempo; un sangue angelico e storico, e lo attribuisce a un’icona paradisiaca, Clizia-Beatrice. Il sangue che io sento nelle mie vene è un plasma eterogeneo, infetto e policromo, maschio e femmina, umano e no, antichi e no, dove scorrono i fantasmi di vite invisibili e inconoscibili, schiere di ospiti, chiamiamoli così, e il tempo della mia vita è solo un’illusione.
2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?
L’oscurità è ovunque. Niente vive in un mezzogiorno. Ombre e penombre e tenebre si avvicendano variamente intorno a qualunque idea e parola, mutando di continuo la nostra percezione del mondo e i nostri giudizi. Nell’oscurità è la verità. Su questo ho scritto un libro, Lacuna. Ma anche le mie poesie e i miei romanzi parlano di cose che non si vedono subito e quando si vedranno saranno già altro.
3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?
Dovrei dire Virgilio. Ma suppongo che qui si voglia un esempio più vicino. Emily Dickinson, allora. Entrambi, pur diversissimi, hanno capito il patire di ogni forma vivente. Io rabbrividisco quando qualcuno mi insegna la bellezza del soffrire.
4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?
Andrea Zanzotto, tra i novecenteschi. Sì, “energia verbale” è un’espressione che si applica benissimo anche a lui. Dove ogni parola è buttata sul palco della frase come una vecchia cosa che deve assolutamente reinventarsi se non vuol morire.
5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?
Prenderò una poesia breve, recente, inedita.
DOVE
Poesie che ho solamente cominciato,
che poi non sono poche, almeno quante
le volte che mi sono addormentato…
Venute e dileguate in un istante…
Uno o due versi e una metà di rima –
un po’ come un Narciso solo… Andate
poi dove? Scese in fondo o ascese in cima,
dissolte eternamente o rimandate?
Chissà, chissà… Sembravano decise
a rimanere, a dirmi grandi cose
nel buio, ma il silenzio le divise
a un tratto dalla mente… O le nascose
il sonno? È il sogno allora la metà
mancante, il pieno che credevo spreco,
il doppio che riporta l’unità?
C’è sempre a completare il nulla un’Eco?
Mi rappresenta perché descrive un processo, una progressiva presa di coscienza, perché c’è l’oscurità, perché c’è l’inizio che non cresce nella direzione che si vorrebbe, perché nell’evanescenza c’è corporeità e realtà, perché c’è la rima, nella quale continuo a credere, perché c’è il ricordo di un antico autore che non è mai antico, quando lo ascoltiamo…