Alterità come rabbia quantistica della scrittura e parlantina delle meraviglie: Maria Grazia Insinga e Eliza Macadan
In questa puntata di Chiedimi ancora ad essere messe a confronto sono due donne, due poetesse che chiamano l’alterità, sono abitate e attraversate da quella voce che è residuo e canto che si riversa nella scrittura. Due profetesse laiche che ascoltano e trascrivono. Nessuna possessione, solo ricerca e orecchio teso. O attesa e silenzio affinché si manifesti la voce, scardinando la testa, sbaragliando l’ego.
Per Maria Grazia Insinga «l’altra è, dunque, il testo ombra, il testo assente, il testo parallelo: quasi una rabbia quantistica della scrittura».
Per Eliza Macadan «il potere è il linguaggio delle soluzioni pratiche mentre la poesia è la parlantina delle meraviglie».
Buona lettura!
Rossella Pretto e Marco Sonzogni
L’ultima opera poetica edita di Maria Grazia Insinga è Tirrenide (Anterem 2020); quella di Eliza Macadan è Pianti piano (Passigli, 2019) – In ginocchio fino all’arcobaleno sta per uscire (Passigli).
CINQUE DOMANDE AI POETI: MARIA GRAZIA INSINGA (1970)
1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di “segno” che “s’innerva” e lo descrive con queste parole: “sangue tuo nelle mie vene”. Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?
È l’altra, è sempre stata l’altra a innervarsi nelle vene della mia poetica. Lo provano le dediche in Persica, Oprhys, Etcetera e Tirrenide e il desiderio rabbioso di protendermi verso l’altra che legge, di toccarla. In questo protendersi dei versi è il luogo della recreazione, della forma venuta fuori dal tentativo di colmare una distanza con la parola. L’altra è, dunque, il testo ombra, il testo assente, il testo parallelo: quasi una rabbia quantistica della scrittura. L’altra è colei che cavalca su posidonie in una regione del cervello piena d’acqua, lei che succhia i fiori all’altezza degli alberi pizzuti dove schiatto, lei nella testa scoronata, lei di me la maggior parte, lei pesce angelo che mi vola di canto al sonno.
2.
In una delle sue canzoni piû celebri, the man in black, Johnny Cash, dice di aver visto un’oscurità (‘and that I see a darkness’). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?
Sua Maestà il sonno, l’abbandono, la testa scoronata, la testa decapitata. La poesia è simulazione di un piccolo sonno, una piccola morte, una interruzione, un abbandono guidato che equivale a un sogno lucido. Scrivere consente di cantare dopo la decapitazione come la testa di Orfeo. Il linguaggio e la testa mozzata sono la stessa cosa; ma la paura del sonno è ancora sonno e non è ancora canto. Se le chiuse del sonno cedono, allora è il momento di tuffarsi. Chissà se ai morti è concesso il sogno. La poesia è il tentativo di scrivere io dormo; ma non puoi dirlo: il sonno taglia prima la testa. Nell’opera di Giraudoux, Ondine chiede al poeta quale è stato il suo primo verso; lui risponde: Non lo so più. L’ho scritto in sogno.
3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente (“something about him seemed permanent”) e che riusciva a trasmettere qualcoaa che gli faceva venire i brividi (“he transmitted something’… “and it gave me the chills”). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?
I primi brividi coincidono con la scoperta di Amelia Rosselli: la prima alterità capace di incendiare ogni distanza. Leggere “La libellula” fu un assalto lucido di metri inattesi dove la sequenza anapestica o giambica è sempre disattesa. Poi, la musica; anzi, prima. Qualcosa di lontanissimo da ogni schema metrico canonico ma così musicale! Mi ricordava un po’, solo un po’, il sistema musicalmetrico folle che, fin lì, mi dava ragione del fatto che la mia scrittura non aveva fondamento logico alcuno e, dunque, era vitale nascondere quell’attività illegale che è la poesia. Non vedevo sillabe quando tamburellavo le dita sul tavolo per scrivere, per fare tornare i conti almeno in poesia; vedevo fiati musicali, fiati che si facevano spazio tra una emissione e l’altra, una vertebra e l’altra. Insomma, leggevo in cinque, in cinque ictus “La libellula” e tutto aveva un senso; come quando di fronte a qualcosa di lungamente incompreso è proprio il silenzio a quadrare il cerchio, a mostrare non l’errore ma gli ingranaggi misteriosi: “Fluisce fra me e te nel subacqueo un chiarore / che deforma, un chiarore che deforma ogni passata / esperienza e la distorce in un fraseggiare mobile, / distorto, inesperto, espertissimo linguaggio / dell’adolescenza! Difficilissima lingua del povero!”.
4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione (“he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation’) non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale (“He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy.”). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?
essere
giardino
nessuna paura
Antoine Emaz
Da un lato, la trebbiatura planetaria che sgrana i versi dai chicchi del grano, butta via la parte che non serve, la abbandona, la disperde in diversità illegittima e illeggibile, non codificata, incolta: la poesia, appunto; dall’altro, il giardino in versi di Jean Flaminien: cascame da foraggio, pula, scarto, testa mozzata che continua a rotolare, a flottare, a cantare. Uno spazio che non c’è, perché abbandonato, non visto, è il luogo in cui vive la grazia scabra dei versi senza nessuna paura; uno spazio tanto più angusto quanto più grande è la poesia: le geografie solenni dei limiti umani, direbbe Eluard.
5.
Scegli una tua poesia e spiegaci perché ti rappresenta.
Scelgo il giardino. Scelgo la valle dell’Ippari e il suo giardino di orchidee selvatiche, da togliere il fiato. Qui, nel 2017 edita da Anterem, nasce Ophrys (dal greco ciglia) per ibridazione dal vento. Scelgo la poesia eponima della raccolta dove c’è una moncanza: e siamo noi quella mancanza, e continuiamo a cantare come Orfeo, e continuiamo il concerto nell’uovo come nel quadro di Bosch. Tagliamo via la testa, la parte razionale, l’ego, tagliamo via il male del mondo; ed eccola, l’umanità: acefala, tutta cuore, tutta anima. L’Ophrys lunulata è endemica in Sicilia e l’ibridazione avviene col vento; priva di nettare ha sul labello una mezzaluna dove appare la sagoma di un omino impiccato.
OPHRYS
I ciglio
Nel giardino liquido
l’omino impiccato
benedice il vento
raffiche di ciglia
hanno ibridato l’aria
e tutto è in lacrime.
CINQUE DOMANDE AI POETI: ELIZA MACADAN (1967)
1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?
La Clizia di Montale, la Beatrice di Dante ma anche la Laura di Petrarca, per elencare solo tre figure che altro non sono che “segni” – «sangue tuo nelle mie vene», mi si permetta di mettere la maiuscola, sì, perché se guardiamo più attentamente la parola Segno / segnare, vediamo che il suo corrispondente in francese, è Signe / Saigner ossia segno / sanguinare. Intravedo un legame forte tra queste realtà linguistiche, tra questi sensi. Una mappatura adeguata potrebbe rivelarci incredibili sovrapposizioni passando per le diverse lingue: Sangue è dunque il Segno, quel segno che di sicuro non appartiene al regno dei vivi, come direbbe lo sceneggiatore del Trono di Spade, quel segno prende le sembianze del percorso che il nostro intelletto fa per arrivare al nostro cuore. È quello che io chiamerei il percorso spirituale di noi umani. Certo, questo percorso, il tragitto, può essere fatto anche all’incontrario, dal cuore all’intelletto – temo che questa sia la cosa che avviene sempre di meno nei tempi che viviamo. Giusto a questo proposito, ho detto tempo addietro in una poesia «queste non sono le mie parole», e di recente ho scritto «stai sulla mia mano e nessuna passione mi brucia». Mi riferivo anche alla mano che scrive – io continuo a scrivere a mano i miei testi poetici, che non arrivano mai diversamente. Per me è così. Non è importante sapere chi, ma sentire la sua presenza e ascoltare. Ascoltare e trascrivere. Trascrivere dal cosciente.
2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?
Ognuno di noi deve fare i conti con l’oscurità. La mia immagine sull’oscurità è fortemente legata all’uomo senza umanità, all’umanità senza Dio. Noi siamo riusciti, scriveva un autore che amo, a celare ogni miracolo con la nostra indifferenza, la nostra vita, più che mai è routine e la routine è resistente, una monetina tenuta davanti al viso, vicino agli occhi, che impedisce anche la vista di una montagna: esattamente così la banalità del vissuto quotidiano può nascondere alla nostra vista la luce infinita. L’oscurità non attiene al dominio della percezione fisica, possiamo vedere tante cose senza osservarle, sentire tante cose senza ascoltarle – il potere è il linguaggio delle soluzioni pratiche mentre la poesia è la parlantina delle meraviglie. Le oscurità da me percepite sono quelle dell’individuo moderno vittima di una brutalità e aggressione quotidiana che hanno ridotto la sua sensibilità – il nostro senso del terrore sta diminuendo. La distinzione stessa tra bene e male è annebbiata. Ora abbiamo solo il terrore di aver perso il senso del terrore. Il secolo scorso è stato considerato il culmine dell’orrore umano, con le fabbriche della morte e il sapone fatto di grasso umano. Il secolo in corso, dopo due decenni già volati via, ci mostra che non c’è fine al male e all’orrore – ci guardiamo le guerre in diretta tivù e riusciamo a mangiare tranquilli come se nulla fosse accaduto – dico in un altro verso «continuo a scrivere poesia come se nulla fosse accaduto». Questa è la mia oscurità e provo a trafiggerla con le parole che qualcuno mi sta dettando di tanto in tanto.
3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?
No, non c’è per me un poeta così, ma ci sono alcuni personaggi che ho avuto la fortuna di incontrare nella vita e nei libri – il mio nonno è uno di loro, parlo spesso di lui, tante volte ho visto il mondo con i suoi occhi, ma non so se sia il mio nonno così com’è stato oppure il nonno che vive di continuo nella ma mente e fa quel tragitto di cui parlavo prima – lui sembra essere tra i pochi che riescono a percorrere quella strada senza inciampare mai. Poi ci sono alcuni scrittori, filosofi, teologi… Non c’è un poeta, solo un poeta intendo, che mi dia questa sensazione.
4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?
Amo la musica di Eminem, l’ho ascoltato dai suoi inizi e mi capita di ascoltarlo con lo stesso coinvolgimento anche ora. Quello che ha fatto quel ragazzo ha segnato la storia della musica rap che era considerata un genere esclusivo dei neri, un asso nella loro manica. Abbiamo a che fare in quel caso con una eccezionalità: un bianco marginale che è entrato nel campo di battaglia dei neri – non sempre marginali perché lì c’era una cellula di potere – e che ha impartito lezioni di rap agli stessi professori. La sua musica è uscita dalla rabbia di un essere umano traumatizzato, preso a calci nel sedere dalle più care persone, messo a dura prova e rimasto in piedi – Eminem non inventa situazioni per i suoi testi, lui racconta la vita stessa, ma in maniera arrabbiata, cinica – è come un reporter che sta trasmettendo dal luogo del delitto. Da questa verità deriva l’Energia della sua musica. Heaney, penso, con la sua frequenza irish, l’ha recepito bene Eminem, ma immagino che la distanza generazionale gli abbia impedito di accettare che quello che il ragazzo ha fatto è una forma di arte, una tra le più coinvolgenti per giovani di tante parti del mondo.
5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?
qualcuno
mi scrive
sulle pareti
nel buio
poemi in cattività
io sbalzo
direttamente in piedi
respiro con i tuoi polmoni
cammino con le tue mani
scrivo le tue parole
mi libero
e giro la pagina
dal cielo
È uno dei testi che si trovano nella raccolta Il cane borghese (2013): più che rappresentare me, rappresenta il mio rapporto con la scrittura, è una forma abbreviata del mio credo poetico – ho sorpreso in questi versi il momento dell’incontro con quella entità di cui lei mi chiedeva nella prima domanda – chi fosse o cosa fosse. Non la so, ma la sento, la ascolto e vorrei che mi trovasse sempre in stato di veglia e di ascolto.