Vita vissuta: Giandomenico Mazzocato e Maurizio Soldini
In questa puntata di Chiedimi ancora ad essere messi a confronto sono due poeti nelle cui vene d’inchiostro scorre la vita vissuta. Scrittura come baluardo e vedetta per contingentare il male o la Nera Signora che gli artisti tentano di acquietare, secondo Mazzocato: «Gli artisti sono malati e innamorati della loro malattia. Lavorano per tenerla a bada, per darle un codice espressivo, per disciplinarla. Ma non per guarirla». E la poesia è «una patria ideale delle idee», secondo la concezione di Mazzocato, «contemporaneamente dentro al fluire della storia e delle vicende umane, ma anche straniata da esse».
Il fare di Soldini porta alla parola e viceversa in una circolarità che innerva la sua poesia. «La parola poetica non è un dire per dire, ma è un agire nel momento stesso in cui si dice», ci racconta Soldini, «La coincidenza dell’azione col parlato è la condizione performativa di un dettato, che non è solo arte, ma vita vissuta». E quindi «la poesia è un work in progress innestato nella concretezza dei vissuti quotidiani. E dunque ogni testo ha una sua particolarità nel rappresentare determinati istanti».
Buona lettura!
Rossella Pretto e Marco Sonzogni
L’ultima opera poetica edita di Giandomenico Mazzocato è Il loro nome è già urlo (Editoriale Programma 2020); quella di Maurizio Soldini è Lo spolverio delle meccaniche terrestri (Il Convivio Editore 2019). In cantiere, ma i lavori sono pressoché ultimati, il libro di poesia Nativitas. In questa nudità del tempo.
CINQUE DOMANDE AI POETI – GIANDOMENICO MAZZOCATO (1946)
1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?
Sarò generico e forse banale. Direi la vita. Il fatto è che io sono un narratore e non un poeta. Però mi accade in alcune stagioni della mia vita di voler raccontare con ritmo. Non so cosa fa scattare questa cosa. E non sono neanche certo di essere chiaro quando uso l’espressione “raccontare con ritmo”. Certo, la diversa cadenza dei giorni di pandemia ha messo in movimento qualcosa. Sono le parole che mi disse un giorno un grande della poesia italiana, Nelo Risi. “Scrivere è un atto politico” / sentenziò duro. / Poi abbassò la voce, sorrise. / “La poesia, ragazzo, è l’unico modo / per raccontare la vita / seguendo il suo ritmo”. / Si accese ancora un sigaro / Nelo, il cineasta visionario. E le ho ricordate nella dichiarazione di poetica con cui apro la mia ultima silloge, Il loro nome è già urlo. Avevo chiesto a Nelo Risi che senso avesse fare poesia in un universo chiuso e senza spiragli come il suo.
2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?
Sì, l’abisso in cui vivono mostri e che se tu lo guardi finisce che lui guarda te, secondo l’aforisma di Friedrich Nietzsche, che tra l’altro lo rubò ad Edgar Allan Poe. Conosco bene quell’abisso perché ho incontrato la Nera Signora ancora molto giovane. Dico Nera Signora, non le darò mai la soddisfazione di chiamarla depressione, sarebbe come aiutarla a vincere la sua battaglia. Ero in un pozzo profondo e stretto, senza cerchio di luce sopra. Mi sono sciolto da solo dal suo abbraccio. Scrivendo. Produssi un poemetto, Immagini del Regno, che ebbe qualche fortuna in un paio di concorsi di poesia religiosa ma che, letto oggi, mi pare piuttosto ingenuo. E tuttavia mi ha aiutato a chiarire i miei rapporti con la scrittura. Una sentinella attenta al ritorno e alla revanche della Nera Signora. Che è sempre in agguato. Un giorno stavo parlando ad un gruppo di studenti sul ruolo e sul mestiere dello scrittore. Uno mi chiese perché scrivessi. Io risposi “per curare una ferita chiamata anima”. Mi sono pentito un attimo dopo di aver dato una risposta cosi enfatica e retorica. Ma in qualche modo è vero. Gli artisti sono malati e innamorati della loro malattia. Lavorano per tenerla a bada, per darle un codice espressivo, per disciplinarla. Ma non per guarirla. Se posso aggiungere, Johnny Cash (con sua moglie June Carter) è uno dei sottofondi musicali preferiti quando lavoro. The ring of fire è nella mia top ten.
3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?
Beh, brividi no. O almeno con molta parsimonia. Ma qualcosa di permanente, sì. Molti. Se debbo scegliere, dico Giovanni Pascoli, un gigante, là dove la lettura italiana del decadentismo ha sopravvalutato personalità modeste come D’Annunzio o ignorato voci purissime come Gozzano. Pascoli non ha solo dilatato la parola poetica, facendo piazza pulita dei ruderi ottocenteschi e insegnando tantissimo a tutti. Pascoli ha l’auroralità di una sensibilità nuova. È molto più vicino agli intuizionismi e agli ermetismi di quanto si possa pensare. La percezione che esiste una verità conoscibile per lampi e illuminazioni brevi, per frammenti gli appartiene già tutta. L’uomo che viaggia nel mistero. Abbiamo mai provato a rileggere La cavalla storna? Con le sue rime scandite e baciate, appartiene al nostro immaginario come una filastrocca o poco più. Croste… poste, storna… colui che non ritorna. La cavalla è l’unica testimone dell’assassinio di Ruggero Pascoli, il padre del poeta. E mamma Caterina la interroga. Quelle rime baciate sono, nella loro ripetitività, un rosario, un mantra, una evocazione. E lei è la pitonessa, l’oracolo che suscita la verità dal profondo e dal mistero in cui è celata. Celebra un rito, la madre, alza il dito e si sente rispondere dal nitrito della cavalla. Non è una filastrocca, ma una tragedia.
E questo per dire che sento magistrale la lezione di Pascoli anche per come suggerisce di leggere la classicità. Devo parzialmente a lui la revisione del mito di Odisseo / Ulisse di un mio romanzo, Il caso Pavan. In Explicit, la lirica conclusiva di Il loro nome è già urlo, delineo sulle sue tracce la figura dell’intellettuale e i silenzi e le complicità cui l’intellettuale stesso è costretto. Odisseo dialoga con Femio, l’aedo che in quegli anni ha allietato con i suoi canti le convivialità dei Proci. Gli offre una via per scampare alla morte. Disse a Femio, l’aedo: / “Alza forte i tuoi canti / che non si oda l’agonia dei Proci. / Copri la morte”. // Obbedì l’antico rapsodo. // Cantò il sangue, cantò il ritorno. / Poi scagliò la cetra lontano, / con dolore. / Erano soli il re e il poeta, / sul mare fulgido e canoro. / “Mio signore, disse, / ho rallegrato il convito dei tuoi nemici. / Ma risparmia la mia vita”. / Tremava la voce del poeta. / Odisseo accennò col capo, pianse. // Parole che i poeti non dicono / (non sanno, non osano), / canti non sgorgano.
4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?
Direi Edgar Lee Masters nei versi della sua Spoon River Anthology. C’è di che riflettere sul fatto che lo stare contro, l’essere sovversivi /eversivi, l’energia promanino da un cimitero e da un piccolo esercito di defunti. Che urlano come in vita mai hanno potuto fare. L’invito di Dippold, l’ottico: Provate questa lente. / Abissi d’aria. / Ottima! E adesso? / Luce, soltanto luce che trasforma tutto il mondo in giocattolo. / Benissimo, faremo gli occhiali così. Poi dico Pier Paolo Pasolini soprattutto in Trasumanar e organizzar (libro luminoso per i miei giovani anni e decisivo per la mia formazione) e Cesare Pavese di Lavorare stanca, forse il più suggestivo libro di poesia del nostro Novecento. Molto più sperimentale di quanto appaia.
Aggiungo che non mi ritrovo molto in questa idea di travaso di energia. Per me la poesia resta la chiara tenda di Paul Celan, il grande intellettuale rumeno di nascita e tedesco di scrittura. Un luogo aperto, disponibile, luminoso. In cui ognuno va e viene come e quando vuole. E tutti parlano ma anche rispettano le parole (e i silenzi) degli altri. Una patria ideale delle idee, contemporaneamente dentro al fluire della storia e delle vicende umane, ma anche straniata da esse.
5.
Scegli una tua poesia. Ci spieghi perché ti rappresenta?
Cosa meglio di Autoritratto, sempre da Il loro nome è già urlo? Io viaggio molto. E in Europa viaggio in camper, un modo di andare senza obblighi e senza mediazioni. Di grande libertà, con possibilità di conoscenza che nessun viaggio organizzato può offrire. Durante uno degli infiniti vagabondaggi nel Sud d’Italia (Dio, quanto amo il Meridione e le sue genti) sono capitato a Troia, città capace di magie assolute. Il romanico pugliese della cattedrale di Santa Maria dell’Assunta con il suo rosone. E la notte in cui, nella vallata sottostante, ardono i fuochi degli arbusti. Le norme antinquinamento non consentirebbero questi roghi utili a consumare le sterpaglie. Ma nessun contadino vi rinuncerebbe perché hanno un significato sacro e apotropaico. Non solo pratico, insomma. Così la notte di Troia si incendia e si intride di fumo dai mille odori.
Un mattino vedo, nella vetrina dell’unica libreria del posto, due libri di leggende locali, pane mio. Faccio per entrare ma una vecchia signora mi blocca e mi dice che il titolare, suo figlio, è andato a bere un caffè. Conosco i ritmi pausati del Meridione, magari è un caffè da un paio d’ore. La signora mi afferra con due mani il capo. E io, inspiegabilmente perché non so darmene ragione, la lascio fare, non mi sottraggo, soggiogato dalla forza e dal magnetismo che sento venire da lei.
Sono nati questi versi, che alludono alla mia sensualità, ai miei nervi tesi, alle mie capacità di captazione. E alla mia disponibilità al mistero. La mia smarrita bussola.
Mi è vasto il buio intorno.
Nelle valli accendono falò
le notti di Troia
in cerchio lontano,
il taglio dell’orizzonte forse.
Rumori d’acqua
come di maree pigre e dolci.
Seduta sulla soglia della polverosa libreria
un’antica dea di Puglia,
(accanto al romanico ardente della cattedrale,
sonore porte di bronzo,
rosone di schiuma,
mistico oracolo e abissale)
mi prese il volto tra le mani,
non carezza, abbraccio duro.
Inattesa, ineludibile.
“Sento correre il destino in te, disse,
sei misterioso come la stella polare”.
Aveva occhi di mare, la dea
e rituffò le mani in grembo,
presa nel giro dei presagi.
Forse voleva dire lontano, pensai,
o inaccessibile.
Magari bello o prezioso.
Arcano astrolabio,
smarrita bussola.
CINQUE DOMANDE AI POETI – MAURIZIO SOLDINI (1959)
1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di “segno” che “s’innerva” e lo descrive con queste parole: “sangue tuo nelle mie vene”. Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?
La parola poetica non è un dire per dire, ma è un agire nel momento stesso in cui si dice. La coincidenza dell’azione col parlato è la condizione performativa di un dettato, che non è solo arte, ma vita vissuta. Montale imbriglia spesso e volentieri il suo dettato con la dimensione propria dell’eros. E le sue Muse, come Clizia, che qui citi, sono una vera e propria, seppur metaforica, trasfusione di sangue e di nervi, che segnano il passo della parola poetica, energizzando e vitalizzando il poeta stesso, che scorge all’esterno quei segni, che prefigurano l’interiore trasposizione del sublime amore, come nel Mottetto che citi.
Indubbiamente, anche per me, come immagino per la stragrande maggioranza dei poeti, c’è una Musa ispiratrice. A partire dal 2003, per me c’è l’incontro fatale con Mina, che sarà e continua ad essere l’ispiratrice del mio percorso poetico, che da allora in poi fuoriesce dal pantano del nulla. Come del resto la mia vita.
Devi sapere che ho scritto tante, ma proprio tante poesie cosiddette “d’amore”, dedicate a Mina. Ma solo una piccola parte sono state pubblicate. Nell’ultimo libro, Lo spolverio delle meccaniche terrestri, c’è una sezione ad hoc intitolata “L’azzurrità”, dove cerco di rendere manifesto chi “si innerva in me esplicitando la mia scrittura”. E eccone una poesia a mo’ di esempio:
gli occhi l’azzurrità è il corrimano
per salire e scendere il viavai
di vita tra il fogliame della sera
quando la notte incalza i piani
e tu fai luce al giorno per esistere
2.
In una delle sue canzoni più celebri, the man in black, Johnny Cash, dice di aver visto un’oscurità (‘and that I see a darkness’). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?
L’oscurità mi è apparsa attraverso la morte di tanti miei cari. In modo particolare la notte più fonda è stata però avvertita con la morte dei miei genitori, entrambi venuti a mancare a settantadue anni; prima mio padre, dopo una devastante malattia di Alzheimer, durata una decina di anni, e dopo due anni mia madre, portata via in una settimana da un ictus nella domenica agostana, che coincideva con la ricorrenza della Madonna della Neve. Ho scritto di questa ultima oscurità cercando di vedere l’accaduto In controluce, la silloge uscita nel 2009, che voleva lasciare un segno tangibile di quella dipartita. Poi, in seguito, ho scritto diverse altre poesie, nelle quali avviene una riemersione di quelle oscurità, come nel passo che riporto, estrapolato da una poesia del libro, che ho appena concluso e che spero di dare presto alle stampe.
[…]
ma non sapevo che un giorno il padre
sarebbe uscito dalla porta per sempre
dopo una precoce e lunga malattia
quella che fa confondere la notte col giorno
e fa dire ma chi è quello guardandoti
allo specchio e non seppi finché non vidi
che tu da quella porta non saresti più rientrata
dopo che il colpo avesti alla madonna della neve
ma oggi è ancora pasqua il cielo è quello grigio
d’aprile e sotto quella coltre oscura abita ancora
chi vive il morto sono io che sono nella storia
3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente (“something about him seemed permanent”) e che riusciva a trasmettere qualcoaa che gli faceva venire i brividi (“he transmitted something’… “and it gave me the chills”). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?
Sento i brividi quando leggo i versi di Eugenio Montale. Mi è difficile spiegare il perché. Forse per un fatto affettivo, dal momento che Ossi di seppia è stato uno dei primi libri di poesia letti per intero durante l’adolescenza, a quindici anni. Forse perché ci fu uno scambio di lettere e fu il primo poeta col quale mi interfacciai all’età di diciotto anni. Quasi sicuramente perché sentivo come sento una particolare affinità tra la mia indole e il dettato montaliano con il suo linguaggio ricercato e la sua tendenza al cantato e la tendenza a immergersi nelle dinamiche esistenziali con atteggiamento esistenzialista. Così come ho sempre apprezzato la capacità di Montale di cambiare registro e di volare ora alto ora basso. E il bello è che Montale riesce a emozionarmi sia quando usa il pedale alto sia il pedale basso.
4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione (“he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation’) non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale (“He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy.”). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?
Senza dubbio, Pier Paolo Pasolini. Che pure apprezzo e tengo a me caro.
5.
Scegli una tua poesia e spiegaci perché ti rappresenta.
Non ci sono testi che mi rappresentano in modo particolare. Perché per me la poesia è un work in progress innestato nella concretezza dei vissuti quotidiani. E dunque ogni testo ha una sua particolarità nel rappresentare determinati istanti. Al più ci sono testi che mi piacciono per la loro riuscita complessiva tra forma e contenuto.
Motivo per cui scelgo questa poesia scritta qualche mese fa. Poesia che mi rappresenta ora come ora nei vissuti dello scorso straniato luglio perso nello spaesamento pandemico del frinire delle cicale:
accanto alla ringhiera rugginosa
sono le tre del pomeriggio
il sole frigge sull’asfalto
e aspetto all’ombra dei pini
i cespugli dell’oleandro l’alloro
la polvere la resina la cortina
il vento la pozzolana sul campo
nessun uomo nessuna donna
non ci sono più i ragazzi
nemmeno schiamazzi né preti
l’idrante per sopire il polverone
solo nell’immaginazione e la palla
chiusa nello spogliatoio coi ricordi
in fondo al viale la biblioteca
penso a cinquanta anni volati
via come il vento che stormisce
a come ero a come eravamo
a come non saremo più
nel canto eterno delle cicale