Mettere in risalto il cuore pulsante dell’esistenza, la solitudine, scegliendo l’allegoria della coesistenza. E del resto, sovviene Pavese, tutto il problema della vita, l’ostacolo, la crosta da rompere rimane la solitudine dell’uomo (di noi e degli altri). Riflessioni che affiorano leggendo “Il condominio S.I.M.” di Alessandro Canzian (pubblicato da “Stampa 2009” di Marco Borroni, ne “La collana” a cura di Maurizio Cucchi), interessante lente d’ingrandimento i cui effetti collaterali non tardano a manifestarsi. Animano il farsi continuo della poesia: Olga (“La vita ritirata come un ragno.”), Carlo (“in attesa/ di qualcosa che non passa”), Anna (“non vuole essere toccata”), Giulia (“è tutta un’invenzione”), Silvio (“Non sapeva/ che ogni passo è una caduta”), Alberto (“La solitudine è una frattura,/ un arto fantasma.”), Alina (“Un conto con la vita/ da pagarsi con un’ernia.”), Aldo (“La solitudine non invecchia”). “Canzian – sottolinea Maurizio Cucchi nella prefazione, nell’interna articolazione poematica di questo Condominio, ce ne rappresenta l’insieme in veloci tratti o episodi, in formelle discrete e di limpida nettezza comunicativa. Così, la prosa del reale e della pagina acquista un suo lirico valore testimoniale”.
Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
Parrà banale, ma ho due ricordi al liceo legati alla poesia. E onestamente, avendo oggi 43 anni, non saprei dire se sia stato prima l’uno o l’altro. Uno era in relazione a un 4- preso in latino, parlava molto banalmente di un “lui” indefinito. Cose da ragazzi. Il secondo invece non era proprio poesia, più un racconto diaristico di un uomo che diventava vampiro ma combattendo contro la sua stessa natura, fallendo, osservando se stesso nella caduta. Ricordo in quel frangente molto probabilmente ripetevo le moltissime letture che facevo grazie anche alle edizioni Newton Mille Lire, che molti ancora ricordano. Pessime traduzioni, ma avevano reso la letteratura accessibile economicamente a molti ragazzi. In quel caso specifico avevo inserito quattro versi legati a dei colori, dove bianco e nero si mescolavano contestando la natura simbolica di entrambi. Lì un professore, a cui avevo fatto leggere il diario (veramente poche pagine), aveva sottolineato che di tutto erano particolarmente interessanti quei versi. Ho quindi cominciato a scrivere andando a capo. Non era ancora poesia e forse non lo è ancora. Ma ne aveva e ne ha l’intenzione.
Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
Vado alla rinfusa: Edgar Lee Masters, Edgar Allan Poe, Guy de Maupassant, Sesto Properzio, Francesco Petrarca, Gaio Valerio Catullo, Milan Kundera, Giovanni Pascoli, Giuseppe Ungaretti, Mario Luzi, Eugenio Montale, T. S. Eliot, Salvatore Quasimodo, Paul Eluard, Ferruccio Benzoni.
Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
Ognuno ha veramente i propri. E non è possibile generalizzare. Posso quindi parlare dei versi che hanno segnato la mia vita, letteraria in primis e poi personale.
Inverno in chiaroscuro
Resta una matita tra le pagine.
Inchiostri interrotti a un capoverso.
Non cambierà il paesaggio, o in peggio.
Forse è tempo di giungere al faro
struggere del suo baleno,
rientrare prima che la notte
revochi la certezza di vederti
sfilate le calze cercare
meno effimero un vuoto
nel vuoto tra le braccia.
Ferruccio Benzoni
Ferruccio Benzoni mi ha sempre colpito per il rigore, a tratti manieristico, decisamente ossessivo, di calibrare la forma. Uno stile spezzato, aspro eppure dolce. Un outsider, geniale, alcolizzato, piegato dalla sua stessa intelligenza. Un poeta spesso viene piegato dalla sua capacità di osservare il mondo. Perché ne vede le contraddizioni, attende l’ideale ma non riesce a trovarlo, e ne soffre. Questa poesia, come moltissime altre di Benzoni, ricorda che l’uomo è un qualcosa che va oltre il suo ruolo, il suo lavoro, il suo compito. Ricorda che alla fine, anche se non vogliamo, dobbiamo fare i conti con la vita stessa.
Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarti alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?
Sarà banale, ma non ho un momento particolare. Solitamente quando leggo altra poesia e vengo colpito da una parola. Su quella parola arriva una riflessione, che poi diventa un grumo grezzo di versi da lavorare.
Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Poesia è dire qualcosa a qualcuno. In maniera espansa, andando oltre i limiti stretti del linguaggio attingendo anche ad altri ambiti. Quello visivo, quello sensoriale, quello di una memoria comune e ampliando il significato attraverso l’appiglio con opere altrui. Ed è allo stesso tempo un modo di conoscere il mondo, di guardarlo. Scrivere poesia significa dire il mondo, e dire il mondo coincide con un tentativo di comprenderlo.
Quando una poesia può dirsi compiuta?
Una poesia non è mai veramente compiuta. Trova un equilibrio, un apice massimo, ma il suo editing potrebbe durare all’infinito. È necessario a un certo punto dargli un termine, una fine. Non sempre è facile. Ma è necessario.
Qual è (dal tuo punto di vista) la lingua ideale della poesia?
Non esiste una lingua ideale, ma una lingua scelta. C’è chi scrive in italiano, chi pur essendo italiano scrive in inglese, chi scrive in dialetto. Il poeta credo debba scegliere la propria lingua e all’interno di questa la propria declinazione. Perché deve poter viaggiare con abiti adatti, a lui comodi e consueti. Già la poesia è affrontare un qualcosa di aspro, spesso crudele, mai accogliente. Se non ci resta almeno una lingua che ci permetta di sentirci un poco a casa, allora si perde il senso dello scrivere e, spesso, del vivere.
Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
La poesia oggi deve testimoniare il mondo. E in un tempo come il nostro di illusione di conoscenza, di finzione, di propaganda portata all’eccesso, di individualismo, è necessario che il poeta vada contro corrente non adeguandosi al mondo. La poesia ha il compito di essere fastidiosa, odiata, non per posa ma perché demolisce la debole patina che ci siamo costruiti e che continuiamo a portare avanti nonostante le diverse crisi che abbiamo e stiamo passando.
Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?
Ho già citato Benzoni. Potrei fare riferimento al primo amatissimo Luzi, a Parola di Quasimodo, ma la verità (la mia almeno) continua ad essere dentro questo straordinario poeta.
Tenerezze terribili
Specie se da giorni e giorni piove
tanto da dimenticare
come irresistibilmente un vicolo lustra
in un piangente chiarore,
non t’abbigliare di un tremito.
Manchi il sole o no l’insensatezza
ha fatto di noi una tenerezza
postuma; una ciocca ritrovata.
Ferruccio Benzoni
Questa, come altre, mi ricorda che esiste la tenerezza, la bellezza, forse anche l’amore. In un mondo dove tutto è intercambiabile, dove i sentimenti sono sempre meno importanti e sempre più relativi, dove la solitudine non è essere soli ma sapere di non avere qualcuno che ti ascolta, ecco la tenerezza diventa importante. La tenerezza diventa un’attesa, una preghiera. Forse inutile.
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare una tua poesia dal libro, “Il Condominio S.I.M.” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Carlo ha fatto un viaggio.
A Londra, o a Parigi, ha
fotografato salumi e donne
abbracciate alle vetrine, perché
gli uomini amano l’effimero,
ciò che esiste e poi scompare.
Non siamo fatti per restare.
Questa è una delle poesie più rappresentative del “Condominio S.I.M.”. Nasce da un’esperienza vissuta direttamente e che mi ha ossessionato per anni. E che poi ho dovuto rivivere in maniera più traumatica. È la mancanza di unicità, di individualità. Che non sussiste solo a livello relazionale ma permea l’intera nostra cultura dove ci aggrappiamo a piccole inezie per sentirci qualcuno, per avere l’immagine d’essere qualcuno, ma alla fin fine siamo anonimi, sacrificabili, trascurabili. Il titolo dell’opera molto semplicemente si rifà al nome del condominio dove vivo, e dove ho immaginato i personaggi un poco rubandoli alla realtà. Per quanto riguarda la prima stesura devo ricordare che Olga era già uscita ne “Il colore dell’acqua”, il mio precedente edito dalla Samuele Editore con prefazione di Mario Fresa. Aveva una forma molto più narrativa e meno curata. Era il 2015. Da lì poi la scrittura degli altri personaggi, Carlo in primis, fino all’incontro con Maurizio Cucchi e al suo editing di quattro poesie in un bar a Milano. Editing che mi ha bloccato per quasi un anno fino alla ripresa dei versi. Editing che ha asciugato a più riprese lo stile, l’essenzialità. In ultimo la lettura di Gian Mario Villalta, che ha apprezzato l’opera tanto da volerla anche a pordenonelegge, con dei suggerimenti fondamentali che mi hanno spinto a scrivere ulteriori testi oggi presenti nell’opera. Il percorso insomma è stato quello di una scrittura per altra opera, poi di scrittura di diversi personaggi fino alla composizione dell’architettura dell’opera, che poi Maurizio ha voluto più asciutta e Gian Mario più composita. Fino alla redazione finale.
Alessandro Canzian è nato nel 1977, vive e lavora a Maniago. Nel 2008 ha fondato la Samuele Editore. Dirige il lit-blog Laboratori Poesia (www.laboratoripoesia.it) e con alcuni amici il ciclo triestino di poesia Una Scontrosa Grazia.
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 29.11.2020, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).