Saragei Antonini “a virìna” poesia che abita con il silenzio e l’ascolto.

tre domande, tre poesie

Saragei Antonini (nella foto di Chiara Lombardo) è nata il 28 Aprile del 1973 a Catania, città dove vive e lavora. Ha pubblicato i libri di poesia Il cerino soggetto (La Vita Felice, 2000), L’inverno apre un ombrello in casa (Prova d’Autore, 2004), Sotto i capelli una nave (Forme Libere, 2010), Egregio signor Tanto (CFR, 2013), La passione secondo (Forme Libere, 2017), a virìna (Edizioni Salarchi Immagini, 2019). Ha ottenuto riconoscimenti, per l’edito e l’inedito in italiano e in dialetto, in diversi premi letterari, tra i quali: Edda Squassabia, Città di Marineo, Angelo Majorana, Pietro Mignosi, Bologna in Lettere – Dislivelli, Premio Umbertide, Premio Don Luigi Di Liegro, Premio Poesia Onesta, Premio Nazionale Giuseppe Malattia della Vallata, Premio Alda Merini, Premio Guido Gozzano, Premio Montano, Premio Pascoli. Sue poesie sono presenti in antologie e riviste in Italia e all’estero.

Qual è o quale dovrebbe essere (dal tuo punto di vista) la lingua ideale della poesia, la forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica?

Non lo so. Non so quale sia la lingua ideale della poesia né se esiste – ma credo che la poesia abiti con il silenzio e l’ascolto – con l’essere accolti e l’accogliere – se la poesia ti viene a trovare allora sei pure baciato.
La forma per me è una specie di fortuna o magia che si crea dall’unione di parole che si radunano, come chiamate da… – non la distinguo dal contenuto: ho davanti un corpo e l’essenzialità sta nella vita delle parole – esse nominano e ci nominano – bisognerebbe averne cura. Tuttavia quando scrivo non posso dire di sceglierle, piuttosto, che scrivo per conto di.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti, rivelandoci cosa “muove” la tua “preferenza”?

La letteratura eterna – storie, miti, leggende – ha fatto la sua comparsa sulla terra insieme ai primi uomini. Ha permesso loro di abitare la terra senza morire di freddo. Il fuoco e la voce che racconta sono stati inventati nello stesso momento, per dare lo stesso calore e tenere lontani gli animali selvaggi. La letteratura eterna dev’essere nata così: qualcuno si china su un altro che soffre, comincia a raccontare la grande leggenda dei primi albori, il turbine dei crepuscoli, il carnevale degli dei, e attraverso questa voce che inventa arriva un po’ di luce nel buio. La letteratura eterna era già qui, per intero, al tempo in cui gli uomini illuminavano le caverne con i fantasmi colorati di cavalli. È arrivata nel momento stesso in cui la paura è entrata per la prima volta in un’anima, attraverso una ferita della carne – un cacciatore morso al tallone da un serpente, un bambino dagli occhi lucidi di febbre, una donna che perde sangue, stesa vicino alle ceneri, un pittore di bisonti divenuto cieco, un vecchio con le gambe congelate dal freddo. La letteratura eterna è la più antica medicina del mondo. È anteriore alla scrittura. Prima di depositarsi su tavolette di argilla, ha purificato delle voci, ha placato delle anime. Essa continua a farlo ogni volta che una madre si china sul suo bambino intorpidito dalla stanchezza, e racconta una storia, canta una canzone. Non c’è mai stata una reale distinzione tra parola e scrittura. La scrittura è la sorella minore della parola. La scrittura è la sorella tardiva della parola con la quale un individuo, viaggiando dalla sua solitudine alla solitudine dell’altro, popola lo spazio tra le due solitudini con una Via lattea di parole. Ciò che ci parla è ciò che ci ama. Una parola priva d’amore è una cosa sorda, senza conseguenza. «Non so parlarti, allora ti uccido»: l’amore è uno sforzo per uscire da questo omicidio naturale di ciascuno per mano di ciascuno. L’amore è questa benevolenza elementare a partire dalla quale una solitudine può parlare a un’altra solitudine e, all’occorrenza, accompagnarla nel buio. Non voglio che tu soffra. Non voglio che il tuo sguardo scompaia dietro un sipario carico di sangue. Ascolta. Ascoltami. Ascolta attentamente ogni storia, ogni nome di personaggio. Non voglio che tu muoia e srotolo per te le bende della letteratura eterna – storie, miti, leggende, romanzi, racconti, poesie, preghiere. Venere, Eva, Ifigenia, Beatrice, Fedra, Anna Karenina… – innumerevoli le infermiere che escono dalla letteratura eterna, fin dal primo appello. La letteratura eterna è caritatevole, con questa mania che ha di parlarci a bassa voce, con un brusio di fonte. Meravigliosa la credenza secondo cui essa secerne le sue storie come l’edera intorno al suo albero: finché qualcuno ci parla, morire è impossibile.” Christian Bobin da “Autoritratto al radiatore” AnimaMundi Edizioni.
Torno spesso a questo testo perché c’è tutta la vita, la poesia per me.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo bellissimo “a virìna” (perché questo titolo?); di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Iènnu a pigghiari me fìgghia
visti u fàru
appòi u màri
ddu màri ca mi pigghia e mi lassa –
’nta stràta cuntai i lùci
frìdda
giàlla
vìddi
mi lassa.

Andando a prendere mia figlia / ho visto il faro / poi il mare / quel mare
che mi prende e mi lascia – / lungo la strada ho contato le luci / fredda /
gialla /verde / mi lascia.

*

A nòtti fa buddèllu
acchiana
parra
scinni
iù màncu m’addummìsciu
mi pàri iònnu
mi pàri u stìssu
cància u salùtu
cànciunu i ròbbi
cància ca stài additta
intra i sogni
e macàri ca c’è ’na sèggia lìbbira
nun t’assetti picchì ti pàri màli
ti pàri iònnu
ti pàri ca ti virunu
ca nun t’ntirissa ri nènti
ca putìssi stàri mùta e taliàri ra nàutra bànna
nàutru sognu
ma a nòtti è nòtti
e a virità nà sapi nùddu
fa buddèllu
iù talìu ra nàutra bànna
e ddabbànna è sèmpri cca.

La notte fa baccano / sale / parla / scende / io nemmeno mi addormento
/ mi sembra giorno / mi sembra lo stesso / cambia il saluto / cambiano i
vestiti / cambia che stai all’impiedi / dentro i sogni / e anche se c’è una
sedia libera / non ti siedi perché ti sembra male / ti sembra giorno / ti
sembra che ti vedono / che non ti interessa di niente / che potresti stare
muta e guardare da un’altra parte / un altro sogno / ma la notte è notte /
e la verità non la sa nessuno / fa baccano / io guardo da un’altra parte / e
di là è sempre qua.

*

’Stu sùli ’nta fàcci
è ’na tùmbulata
ca mi sposta –
u sangu ’nvèci ri nèsciri
tràsi.

Questo sole in viso / è uno schiaffo / che mi sposta – / il sangue invece di
uscire / entra.

La scelta del titolo “a virìna” nasce dal fatto che la parola virìna (mammella) è un suono della mia infanzia (tra i più ancestrali) – un termine udito tante volte che porta in sé l’aria e la storia familiare – la mia curiosità bambina di cosa fosse e di quanto, questa parola, fosse dentro femminile – come mi ha accompagnata il ricordo (direi sempre vivo) di quanto fosse dura da masticare e di come in famiglia ne ridevamo grottescamente – per mia nonna era una festa trovarla e portarla a casa – per noi era anche altro… per me credo una parte chiara tra la vita e la morte (la virìna è di colore chiaro).

“A notti fa buddèllu…” è stato uno dei primi testi scritti in dialetto – scelsi la parola ddabbànna come titolo alla mia prima silloge in una lingua così nuova e familiare – improvvisa e allo stesso tempo limpida. Si è manifestata prima con voce interna, nominando ed esprimendo una gamma di colori impetuosi, poi scrivendo, dichiarando suoni, ricordi, immagini chiare.
Questo testo è il mio legame con la notte, con il sonno e la ricerca. È un colore di famiglia, una parte della mia vita in cui non era facile dormire – nel tempo forse è anche diventato qualcosa di dolce per me, qualcosa di materno e incomprensibile che cerca mentre gli altri dormono – che sta in piedi per “sistemare”, qualcosa per cui gli altri possano tranquillamente riposare. Scriverlo è stato per me tornare e non so da quale punto né verso dove – non è stato trovare le radici perché mi sono sempre sentita radicata… anche al cielo – piuttosto è stato toccare le ossa del mio linguaggio secondo una ricerca personale tra vivere e scrivere – stare – e non credo sia un caso oggi che tra il mio scrivere in dialetto e in italiano ci sia un dialogo che nutre entrambi: vivace, divertito, libero… – in fondo credo di essermi tradotta e capovolta per poi tornare senza sapere se è il dritto o il rovescio – o entrambi nello stesso momento. Potrei dire del dialetto “me ne frego” e dell’italiano “vai alleggiu ca aiu primura” (vai piano che ho fretta).

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