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Mi sono trovato alla 33a edizione del “Marché de la Poésie” di Place Saint Sulpice, a Parigi, per un omaggio a Bernard Heidsieck, ma nel 2015il programma, come sempre nutrito ed interessante, concentrava l’attenzione su “La Belgique invité d’honneur”. E nella schiera dei poeti belgi era presente William Cliff, che non avevo mai incontrato prima.

Si era appena aggiudicato il premio Goncourt per la poesia, ora associato al nome di Robert Sabatier, scomparso nel 2012, che di Cliff si occupò nella prestigiosa “Histoire de la poésie française”. [1] Nel terzo dei tre volumi dedicati al XX secolo, pubblicato nel 1988, Sabatier, passando in rassegna poetiche, tendenze, gruppi e laboratori, attraverso una vera e propria galleria di ritratti raccordati da un filo sotterraneo tra cronaca e storia,  sostiene il valore della diversità e traccia un bilancio provvisorio dei lavori in corso. Sabatier raccoglie i “Matériaux pour un futur itinéraire “preconizzando segni di rinnovamento e interessanti sviluppi. Nell’ultimo capitolo, intitolato, appunto, Renouvellements, include Cliff. E Cliff, dall’88 a oggi, ne ha fatta di strada e si è guadagnato una posizione di riguardo. Al secolo André Imberechts, nato a Gembloux da padre flamand e madre wallone, si forma nella sfera culturale vallona e vive i disagi del contrasto con gli ambienti  fiamminghi; orgoglioso di essere belga, non molto noto in Italia, ha un gran successo in area francofona soprattutto per aver pubblicato i suoi libri con Gallimard (indubbiamente il più prestigioso editore di Francia) con gli auspici di Raymond Queneau. Un ottimo biglietto da visita, questo, perennemente richiamato in ogni cenno di biografia. Quando Queneau caldeggiò il giovane poeta all’editore parigino si era nei primi anni Settanta. Da quel gesto scaturì l’edizione di Homo sum (1973). A rileggere oggi quei versi, pur decisamente non convenzionali, c’è da chiedersi quale sia stata la ragione che ha spinto Queneau a sostenere il poeta, tanto lontano dalle atmosfere ipersperimentali di Cent Mille Milliards de Poème so dai meccanismi compositivi di Exercises de style, dove i novantanove “texticules” dimostravano come il potenziale della scrittura fosse in grado di sostenere il senso dell’opera, nel caso specifico con effetti esilaranti, al di là del mero contenuto. La scrittura di Cliff appariva diametralmente opposta alle ironiche costruzioni dell’Oulipo, sempre concepite sulla base di rigorose geometrie, addirittura su funambolici espedienti di taglio matematico. Mi chiedo oggi se l’interesse di Queneau non fosse stato suscitato dal travestimento del verso della tradizione, che da una parte metteva in crisi (talora anche in ridicolo) le forme accademiche, dall’altra indugiava sul gioco degli scarti prosodici che ben si sposavano alla provocazione, sia pure di tipo molto diverso rispetto a quella essenzialmente intellettualistica dell’Oulipo.

In ogni modo la cifra distintiva di Cliff, allora come oggi, è senza dubbio la sua lingua dura, intransigente, provocatoria, aspra, talora blasfema, ma mai bassa, talora preziosa, intessuta rifuggendo strutture libere, quasi evocando un lirismo dell’antilirismo, come avrebbe voluto dire Sabatier.

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Per le edizioni Fermenti, con il contributo della Fondazione Piazzolla, appare nel mese di giugno dello scorso anno il volume “Poesie scelte”, a cura di Fabrizio Bajec, studioso di Cliff e responsabile dell’edizione italiana de Il pane quotidiano (Ed. Marco Valerio, 2007). Bajec ci offre una selezione da Homo sum (1973), Écrasez-le (1976), Marcher au charbon (1978), America (1983), En Orient (1986), Fête nationale(1992) e Immense existence (2007) in traduzioni molto aderenti al testo originale, pubblicato a fronte, e piuttosto rispettose della struttura ritmica, sia pure glissando gioco forza sulle rime ricorrenti. La scelta offre un quadro sintetico cha abbraccia i temi fondamentali della scrittura di Cliff, soprattutto l’erotismo e il viaggio, sempre vissuti in prima persona in un clima di marginalità nomade, ma anche la (auto)condanna alla solitudine così consacrata in un sonetto della primissima ora: “Devant le feu rouge et brûlant de ma petite chambre, / courbé sur mon sexe exigeant, dévoré par l’ennui, / je disperse ma semence inutilement et puis/ je referme tristement mes linges sur mon maigre ventre”.

La poesia di Cliff è fondamentalmente autobiografica e l’omosessualità ne innerva il tessuto. Il poeta fa di questa condizione una sorta di specchio dell’anima, tormento ed estasi necessari, ma anche deciso motivo di lotta,come nella Ballade des homosexuels, contro l’etica di una borghesia che negli anni delle sue prime opere, nonostante la rivoluzione sessuale avviata negli anni Sessanta, è ancora particolarmente ostile alle provocazioni sul piano della sessualità. La traduzione di Bajec annuncia: “Avanziamo, avanziamo nella notte nera”; avverte: “Siamo noi il letame della società / noi che complottiamo in losche caverne”; recita con aria di sfida: “Grazie del vostro disprezzo voi la folla / dei virtuosi, dei noiosi gelosi”; ammonisce: “ Borghesi, allerta, Borghesi, attente / all’eco sinistra della nostra disfatta”; minaccia con il verso ricorrente: “Voi marcirete in terra come noi”. E qui non si può fare a meno di citare l’invettiva dissacrante di un altro belga, Jacques Brel, che, sia pure con altre intenzioni e con altri toni, cantava nell’ormai lontano ‘61: “Les bourgeois c’est comme les cochons / Plus ça devient vieux plus ça devient bête / Les bourgeois c’est comme les cochons / Plus ça devient vieux plus ça devient… ”.

Ma l’Occidente non si indigna più come trenta o quarant’anni fa. Del resto la borghesia nell’accezione diffusa nel secondo Novecento è ormai tramontata, per lasciare spazio ad un osservatorio di altro stampo, visto che il perbenismo mal si inquadra al di fuori delle ideologie del secolo scorso. L’eredità della Beat Generation, l’esempio pasoliniano, la testimonianza creativa di tantissimi autori, anche in ambito sperimentale, basti pensare al successo di John Giorno, hanno contribuito a stemperare il clima scandalistico di una volta, che se da una parte provocava l’ostracismo istituzionale, dall’altra contribuiva ad alimentare la curiosità del mercato, che mescolava in un unico calderone l’interesse socio-culturale e la morbosità voyeristica, l’attenzione verso scritture non convenzionali e le mode. Attualmente la riduzione del mercato della poesia si è dimostrata, in un certo senso, organica all’interesse per la scrittura in sé; ma anche se tale considerazione non sembra proprio direttamente proporzionale ai livelli di competenza, nell’ambito degli addetti ai lavori, si registra, nel bene e nel male, un’evidente spostamento dalla concentrazione sui temi trattati alla qualità della scrittura.

Cliff preferisce i toni realistici e apre alla narrazione, principalmente pervasa dalle ombre e dalle luci degli amori occasionali, delle attenzioni al proprio corpo, dagli sguardi proibiti che si materializzano addirittura nelle attrazioni pedofile di Ore 17.30 in Schiacciatelo. Nonostante le diversioni, si ha l’impressione che il sesso costituisca per Cliff un soggetto addirittura ossessivo. Spesso la scrittura si configura come estremo appiglio alla vita: aggrapparsi alla necessità del testo per riconoscersi vivo. Ma non è assente il compiacimento dell’immagine provocatoria, sia pur quando il dolore di esserci naufraga nel piacere di perdersi. L’atteggiamento è talora cinico ed esacerbato, ma anche amaro e dolente.

Insomma: niente allegorie, né oscurità, né ambiguità, nessuna struttura testuale particolarmente complessa, nessun radicalismo formale nelle scelte linguistiche, nessuno sguardo rivolto ai giochi acrobatici delle avanguardie novecentesche, ma piuttosto una riflessione continua su modelli poetici che per trasporto empatico si riflettono con insistenza nella costruzione del verso: da Villon, a Verlaine e Rimbaud, di cui sposa i toni “maudit”, ma soprattutto Baudelaire che egli considera come nume tutelare. Il testo sceglie percorsi lineari, nella sintassi e nel lessico; rifiuta costruzioni sperimentali concentrandosi sulla concretezza dei fatti piuttosto che sulla materialità del linguaggio. Se Cliff è contro gli intellettualismi, la trasparenza del suo linguaggio (legato secondo lui ad una inequivocabile vocazione di chiarezza della lingua Francese, ma in realtà sviluppato pienamente sulla nitidezza del vissuto) forza le coincidenze dell’esperienza poetica con quella di vita, aprendo una serie di interrogativi sulle ragioni e i rendiconti creativi. Una cosa è certa, però: la sua scrittura sarebbe piaciuta molto a Jean Genet.

[1]“Histoire de la poésie française”, pubblicata nel 1988. La poésie du vingtième siècle. 3-Métamorphoses et Modernité, éditions Albin Michel, 1988

 

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