Anteprima da Viola Fòscari
Da tempo pensavo al corpo delle donne: mi sarebbe piaciuto scrivere una storia in cui il sentimento non restasse confinato nell’intimità del cuore ma rendesse la carne partecipe del suo disordine. Volevo che l’amore invadesse il corpo, pazziasse, sconvolgesse, facesse conflagrare un’esistenza fino a quel momento incasellata nella griglia delle convenzioni. Ogni tanto annotavo qualcosa. Ogni tanto abbozzavo un personaggio. Ma i personaggi s’offendono quando li destini a una vita diversa da quella che sentono come propria: ti salutano e se ne vanno, e se vuoi farli abitare dentro il tuo sogno, devi essere tu a piegarti, a prendere la strada che ti impongono. A quel tempo – era il 2008 – le donne nate dalla mia penna vivevano solo in parte il fascino scomposto della passione; erano protagoniste di vicende in cui la rabbia s’agghiacciava nel silenzio, e l’orgoglio impediva confronti verbali che avrebbero reso meno dolenti certi rapporti tra coniugi. Nulla a che vedere con la follia amorosa. Poi è arrivata Viola. “Bella, ma vecchia” nel racconto di una signora che all’epoca dei fatti – il 1957 – aveva diciotto anni e considerava appunto vecchie le cinquantenni. E Viola mi ha preso la mano, mi ha costretto a seguirla, a rincorrerla, aspettandomi quando inciampavo, quando perdevo il ritmo del suo andare frenetico su per le strade torte e spinose di un sentire bastardo, dove l’amore è assoluto piacere e trasgredire significa assaporare per la prima volta una felicità mai neppure immaginata. Può durare un amore così? Si può vivere una vita doppia: da un lato irreprensibile madre di famiglia, dall’altro amante ardente? È la vita che decide. È la storia che devia verso il sangue o verso un legame coniugale più forte di qualsiasi piacere. E sono i personaggi che stabiliscono quale strada prendere. Qual è la peculiarità della narrazione? Procedere come in un cunto. Con le pause e le sospensioni e il cambio di tono che è tipico dei cantastorie. Perché è un cunto, anzi, una fiaba, questa di Viola Fòscari; una vicenda coi frutti canditi e il fiele, l’agro di giornate dolentissime, il veleno di amici che all’improvviso ti voltano le spalle e ti accoltellano (metaforicamente parlando). Ci sono persino le fate, e i pupi, i fatti scritti su canovacci d’occasione e messi in scena da uomini e donne che mai s’immaginerebbero su un palcoscenico. Quale messaggio vorrei lasciare ai miei lettori? L’amore può distruggere, l’amore può replicare in terra il paradiso. A ciascuno il suo. E comu veni si cunta.
Uno stralcio in anteprima dal libro Viola Fòscari (Mondadori, 2014)
Nella stanza è tornato il silenzio. Il ragazzo dorme.
Viola torna ad accucciarsi nella poltrona. Dentro di lei un senso di devastazione, di vita che all’improvviso si fa insopportabile: un figlio che la detesta, un figlio che sta per andarsene, un marito che non c’è, mai c’è: sempre in campagna, sempre a occuparsi d’affari lasciando sopra di lei il peso della casa, dei figli: Fuscelli, in confronto ai ceppi che io mi carico sulle spalle: così le ha detto una volta, e nel dirlo, però, la guardava amorosamente e lei ha dovuto inghiottirsi le parole aspre con cui avrebbe voluto replicare: Fuscello l’ingovernabilità di Giuliano? Il tormento che Fausto si diverte a darmi? Un tormento intermittente: giorni in apparenza sereni e giorni in cui è intrattabile: muto, chiuso, impossibile da avvicinare.
“È solo un bambino” la voce del ragazzo si alza rauca, la coglie di sorpresa.
Cerca di ricomporsi: “Non dormi?”.
“Venga qui” mormora.
“Hai sete?”.
“No”.
“Un’altra coperta?”.
“Mi venga accanto”.
Lo raggiunge, gli tasta la fronte per sentire se ha la febbre.
Ha gli occhi lucidi, la bocca bianchissima: “Mi prenderebbe in braccio?” domanda in un bisbiglio: “Come prima?”.
Le lacrime le offuscano lo sguardo: “È che Fausto” cerca di giustificarlo.
“È geloso” dice “e non sa che vuol dire essere orfano”.
Chiude gli occhi. Pensa a sua madre, al suo vestito colore di pesca, ai trilli e ai cinguettii. Pensa che c’è un tempo in cui hai tutto, e uno in cui quel tutto si riduce a niente, e il vuoto è così insopportabile che a ogni passo vacilli, e stare in piedi è un’impresa e stare dritto è un’impresa, persino respirare è un’impresa. E allora pensi che sarebbe più facile morire. Ma a morire fuori tempo non tutti siamo bravi. “Ci vuole arte, a morire” disse una volta un prete. Nella fucilata di Fausto di artistico non c’è stato niente. Solo un gesto maldestro. Che forse, appunto per questo, è stato incapace di ucciderlo. E ora c’è Viola Fòscari che sta tremando per lui.
“Mi puoi prendere in braccio, per favore?” torna a domandarle con un filo di voce. “Fai finta che sia Fausto”.
Il tu è sgorgato d’istinto, e nessuno dei due se ne sorprende. Ma Viola non ha bisogno di fingere che le sia figlio per sentire un gran bisogno di ripoggiarselo sul petto. Con un braccio gli solleva la testa, se lo adagia sulle gambe, la guancia di lui all’altezza del suo cuore, il corpo magro, seminudo sotto la coperta.
“Tienimi stretto” mormora “fammi passare la paura”.
Lo accosta a sé, lo stringe con cautela.
E restano così: lei che ogni tanto gli carezza con le labbra la fronte, ogni tanto lo culla come fosse un bambino. Lui che forse sogna: il mare, giochi di ragazzi se ogni tanto gli s’increspa la bocca in un sorriso.
Il tempo scorre. Ma leggero, come la pioggia.
Cusuzza è venuta ad accoccolarsi ai piedi della padrona, il muso tra le zampe, gli occhi alle braci che palpitano incandescenti. Dal resto della casa non vengono rumori.
Fausto resterà barricato nella sua camera almeno fino a domani, non aprirà la porta neppure quando, più tardi, lei andrà a bussare portandogli un piatto di minestra e un bicchiere di vino.
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