Milton Avery, Summer Reader FRANZ
Milton Avery, Letture Estive

In genere saluti. Per cui, volgersi altrove.

L’anno scorso a Parigi: solito caffè. Quella s’accosta come niente fosse. Entra.
Jean Pier, da solito pacchiano polifonico mi fa: hai visto?
Distratto dal cucchiaino nella tazza, replico (tanto per contraddire): cosa?
(Sgrana gli occhi): oh be’!
Quindi propongo di assumere la gestione del locale, in modo da non perdersi altre apparizioni e comunque fare qualche cosa.
(Stupito): allora hai visto!

Costa a vista: invertire la rotta.
Vela dispiega lugubri lamenti tesa da vento assiduo in quota alterna. Qui e là: increspature.
Sbatacchiava convinta: onda di prua ed altri forsennati filamenti di non so bene cosa (probabilmente, stratosferiche creature d’oltre mare avvinghiate alla chiglia).
Di sotto: rumorini. Inutile affacciarsi. Notte s’appressa e dunque: soliti incubi.

Mastodontico e cangiante divampava d’azzurro (piuttosto imperterrito: sole). Inquieto: mai una posizione precisa. D’altra parte le stelle: non diverso.
Orientamento inabile. Mai orientato davvero.
Notte sorpassa notte e la giornata s’affaccia al traballante incerto volo. Vento alto s’abbassa (però la vela tiene).
Avessi una seghetta di precisione frazionerei l’incerto orizzonte già velato per farne più sezioni. A volte riconoscere è utile, specialmente se s’appressa una tempesta.
Non ce l’ho. Dunque legarsi all’albero e preparare variabili per la sera.

Eh sì! Occorre inventarne di cose per sopravvivere sospeso sull’abisso (qui sotto saranno almeno cinquemila metri). La Fossa delle Marianne: il doppio, ma ancora non ci sono arrivato. Meno male che ho riempito la stiva di libri. Anche questa potrebbe essere una variabile. I libri potrebbero infatti servire a colmare i cinquemila metri, assicurando una caduta morbida o a riempire l’incolmabile inutile del tempo. Detto per inciso, entrambe operazioni impossibili.

Quando esce, il polifonico Jean Pier non si trattiene = prolungato irriferibile fischio.
Quella si gira e sorride. In breve al tavolo con noi. Chiacchiere, biscottini, caffè. Quindi la invola, mano sui fianchi ed altro.
Quanto a me: contare bricioline sul selciato.

Non leggevo Salgari; meglio “I ragazzi della Via Pal”. Dovrei averne una copia qui sotto, in caso di bisogno. Tuttavia, oggi mi sento più simile a Franz Tunda, quello di Roth (specifico: Joseph) che nella capitale del mondo risultava del tutto superfluo. Si si: mi sembra adatto.
Intanto s’appiattiva il circostante sempre mellifluo: mare. Vento alla fonda indugia in altri luoghi e le sirene hanno altro da fare che spingere il sottoscritto. Dunque, piuttosto statico.
Mi viene in mente stitico. Perché no, con la dieta risicata che seguo…

Anche da bambino. Cioè, estenuanti sedute sul vasetto. Resistevo eroico.
Mai superata davvero la mia infanzia. E il corridoio buio: una paura da matti. Non ci fosse stato mio nonno a percorrerlo con infinita pazienza, sera dopo sera, ed i suoi passi rassicuranti, non avrei chiuso occhio. (Il panico ha un colore verde blu, con striature giaòe fondo nero, tipo certi insetti sgraditi).

A Marrakech c’erano troppo lune. Inoltre, di diseguali variabili colori. Io m’avvinghiavo all’aria roteando la corda ancora tesa come una variabile incostante. Quella guizzava, sbattendomi ogni dove, ma io niente: testardamente appeso. Molti applausi intorno.
Quindi a cena, nei vicoletti spenti del mercato: tracannare. Spiedini anche.
Qui si potrebbe inventare una canzone. O una storia non spesa. Malinconico alquanto, pizzicavo le mie corde slegate da una chitarra viola (l’avevo chiesta al cameriere poco prima).
Dunque inventare storie, al suono bandolero di un addio. Piacciono soprattutto quelle di mare.
Che sciacquola, straborda, sdilinguisce le mie penne annodate. (Doccia assicurata ad ogni onda). Nessun gabbiano in vista.

Ogni tanto si univa a noi un russo (i russi sono degli asiatici francesi) pieno di tracotanza e nostalgie.
Sedeva deciso tra me e Jean Pier, trangugiando liquori e sigari, e intavolava conversazioni accese; tema: letteratura e poesia.
Non molto propenso al compromesso, asseriva la grandezza degli scrittori e poeti russi sovra qualsiasi altro sciagurato che avesse tentato di misurarsi (forse, non senza grandi torti). Jean Pier, imbevuto com’era di Parigi, opponeva Apollinaire e il suo Ponte sul tempo.
Quanto a me, incline al Sud America.

Dove potrei dirigere ora. Senza gettare l’ancora.
Comunque soffia: raddrizzare alla meglio.
E notte passa, con quello che comporta.
Quando s’aggiusta: perché non mi sono lasciato andare?

Qualche volta su un treno. Sali, scendi, sali di nuovo, poi riscendi: si arriva sempre a un binario morto.
Allora a piedi: nello spazio d’immenso. Stelle a cataste coprono la notte; infinita la tua desolazione.
Dannatamente piccolo: come i piedi che vanno. E gli occhi colmi di stupore antico: qualche villaggio a sosta.
Tu dirompevi da pupille enormi, fonde come qualcosa che non c’è. E mani che sanno della vita. Che ignoro: non potevo restare
Zero diviso zero uguale zero. E tuttavia, un risultato lo dà.

Per la pittura non c’era alternativa: Chagall! Ovviamente Jean Pier sosteneva la causa degli Impressionisti. E Turner?
Ricordo anche, in giornate svagate, le discussioni su Stravinskij e Ravel. Sulle donne però andavamo d’accordo: come liuti slanciati.

Be’, non dovevi farlo: andarsene è cosa complessa. Occorre preparazione, discuterne, almeno. Magari qualche lettera, sai quelle cose che vanno imbucate nella cassetta al portone e aspettano. O anche un’istanza di preavviso, una notifica, una sera speciale. Ma così…
Lo so, quando la morte arriva non fa segni; quelli li vedi dopo.
Andarsene allora, magari per mare, allertando conchiglie e cianfrusaglie.
A volte ininterrotta: la notte.

Ci tornavo ogni giorno a quel caffè. Anche Jean Pier (la bella l’aveva mollato a primavera, quando le ali delle rondini spiazzano l’aria e i nostri lineamenti).
Che guardavamo pigri, ridendo sotto i baffi, come per dire: illuso, ognuno riferendosi alle illusioni dell’altro, spettralmente ignaro delle proprie.
Si discorreva a lungo del non essere vago della vita, tanto per darsi un tono alla Jean Paul. Qualche volta era come se aspettassimo il passaggio di un reggimento, per dimostrare la ciclicità del tempo, di modo che uno di noi potesse andare ad arruolarsi come quel personaggio di Céline che si ritrova senza volontà a fronteggiare la morte, lasciando l’amico al bar e al sicuro. Nietzsche sarebbe stato contento. Anche Vico. Eraclito no: per lui tutto fluisce e non ritorna. Credo abbia ragione. Tuttavia, noi tornavamo sempre. Fino a quando si può. Poi non resta che il mare. E una ciabatta al posto delle scarpe. Dimenticavo: finiva sempre con un sorso di anisetta: come una goccia verso l’incontrario.

Dove diavolo sei!?
Lo so, tradimenti, inganni, incostanze, sbandamenti, sogni, menzogne, voluttà di strada, cazzate a colazione, notti insonni: tutto il repertorio. Ma tu, dove diavolo sei?
Da lontano una vita.

Declinava indeciso. E le falene senza alcuna luce. Dunque, dicevo: notte.
Come un insetto cieco vi cercavo tra le cangianti divergenti sempre = nubi ad oltranza ad est.
Senza attendere molto. Che le prime già tracciano le rotte. Vengono a morire qui.
M’arrampicavo inquieto albero come fonte di visione. E le mani protese.

Potessi afferrarne una! Di voi, cadenti stelle, troppo deluse per volare ancora.
Ne cambierei la sorte, spingendola verso l’abisso nero senza fondo accertato firmamento ed avvinghiato alla sua poca polvere mi farei trascinare nell’assurdo troppo inviolato per essere davvero quel che appare. E rilanciare: forse troppo lontano.

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