Dalla Cina col furore poetico di Yang Lian

Yang Lian lestroverso


«La poesia è la nostra madrelingua. Racchiude il significato della nostra vita e rifiuta attivamente ogni forma di controllo». Parole del poeta cinese Yang Lian che, giunto in Sicilia, sarà protagonista di due incontri: il primo, martedì 5 aprile, alle ore 19.30, a cura del Centro di Poesia Contemporanea di Catania diretto da Pietro Cagni (al Camplus D’Aragona, via Ventimiglia, 184); il secondo, giovedì 7 aprile, ore 19, a cura di IsolaPoesia 2016, Festival ideato e diretto da Paolo Lisi e Giuseppe Condorelli (allo Stabilimento di Monaco, Saletta Bianca, Misterbianco). Per l’occasione, con l’architetto Marco Nereo Rotelli (colui che da tempo persegue una ricerca sulla luce e sulla dimensione poetica definita da Harald Szeemann come “un ampliamento del contesto artistico”) e una ricca selezione di poeti siciliani che animeranno un reading corale, interverranno: Loretto Rafanelli (“La poesia dell’America Latina”, edizioni Algra), Alberta Dionisi (“La terra impareggiabile”, omaggio a Quasimodo) e Josè Marano (suoni). Lian, classe 1955, ha vissuto a Beijing fino al 1989, anno in cui è stato costretto all’esilio per aver difeso gli studenti di piazza Tienanmen. I suoi testi sono tradotti in numerose lingue. Ha vinto i Premi “Flaiano” (1999), “Nonino” (2012) e “Capri” (2014). Per l’occasione, riproponiamo di seguito la nota di Gabriella Bertizzolo pubblicata su l’EstroVerso Numero 2 – Anno VI / Marzo-Aprile 2012. (gc)

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“Scrivere poesia in cinese per me significa scrivere di una situazione che non ha tempo, e per mia fortuna posso scrivere in una lingua che non ha tempo”. Il poeta cinese Yang Lian, candidato al Nobel nel 2002, è un poeta dell’esilio come l’amico Titos Patrikios che a Vicenza, a Palazzo Leoni Montanari, alcuni anni fa ha impreziosito l’incontro nella giornata mondiale della poesia. Incontro cui la sottoscritta, che ama la poesia, aveva puntualmente partecipato. Nato nel 1955 a Berna (dove i genitori erano funzionari di ambasciata) ma subito ritornato a Pechino, Lian inizia a scrivere nel 1976. Dal 1979 i suoi testi escono sulla rivista “Jintian” (Oggi), portavoce di un gruppo di autori definiti “menglong”, cioè “oscuri”, perché le loro poesie non obbedivano più alle leggi del socialismo reale imposte dai funzionari del Partito comunista. Dopo la realizzazione di molte altre opere, alcune delle quali ostacolate nella pubblicazione in Cina per più di un decennio, nel 1986 fonda il gruppo poetico “Xincunzhe” (I sopravvissuti). Nel 1989, mentre si trova in Nuova Zelanda, condanna pubblicamente gli avvenimenti di Piazza Tienanmen e per questo è costretto ad un lungo esilio in varie città: Berlino, New York, Sidney, Londra, dove tuttora vive. “Eppure l’esilio può diventare una fase attiva, creativa perché l’io dialoga sempre con l’esistenza” ci dice questo ragazzo cinquantacinquenne dai lunghi capelli corvini che incorniciano un volto franco e luminoso rischiarato da due pupille mobili per bocca di Marta Nori, pregevole interprete del pensiero di Lian il quale peraltro già aveva affermato che “sempre e dovunque la buona poesia è refrattaria alla traduzione e all’interpretazione, il che attesta il suo carattere necessario”.

Suddivise per significative tappe storiche ascoltiamo le letture fondamentali concluse da scroscianti applausi: “Violenza nella foresta” (“Non solo la violenza delle guerre, ma anche quella silenziosa e infida di ogni giorno, collegata alla realtà del rifiuto..”); “Il vetraio” (“l’amore del vetro rende il mare incapace di rovesciarsi / ciò che non teme la corruzione / stringe gli occhi / nella luce solare”); “Farfalla vendicatrice”, conclusa con questi rappresi e pregnanti versi: “più vorresti dimenticare e più ti è chiaro / che la farfalla si sta vendicando”. Segue la rituale lettura dell’inedito “La tomba dei saggi” scritto per DirePoesia e stampato dall’operoso torchio dell’Officina in esemplari limitati, letteralmente andati a ruba (la sottoscritta deve la copia numero 168 alla cortesia di Strazzabosco). “Non possono far altro che discutere di capre / lentamente sorseggiano un the – si addensa il crepuscolo / persino su uno strato di aghi di pino oscilla la luna / l’albero che profuma di pino solido si sostiene / l’ombra dei monti circostanti – diffonde il cinguettio del giorno / una panca di pietra verde rinchiude il viaggiatore / nell’ascolto attento – a loro viene tolto l’accento / una tazza di porcellana raddensa la lontananza come giada / quando leggera si appoggia è ancora tiepida e trasparente”. Il discorso fatto da Lian è di tipo filosofico: “la lingua ha a che fare con le nostre origini… Io mi chiamo in tre modi. C’è un Yang Lian poeta della Cina, un Yang Lian che scrive in cinese, e un Yang Lian che versifica in inglese… Non solo il poeta appartiene alla lingua madre ma anche la lingua appartiene al poeta”. Interessanti le precisazioni offerte da Marta Nori su alcune peculiarità linguistiche e grammaticali (la mancanza di tempi verbali) della lingua cinese prima e dopo l’intervista che funge da spartiacque fra i due momenti di lettura durante i quali il poeta sta in piedi in uno stupefacente funambolismo tra un cinese musicalissimo e un inglese frutto dei tanti anni in cui vive a Londra. “Sapete cosa fanno i politici del mondo quando arrivano in Cina? Prima parlano di diritti umanitari, di democrazia e poi si siedono e parlano di contratti di lavoro”. Qual è la distanza fra presente e passato? Si ha la sensazione che la lingua cinese afferri il concreto e poi torni indietro. “Dopo la rivoluzione industriale – continua Yang Lian – tutti urlavano slogans, poi tutto è finito… dopo i noti avvenimenti del 1989 di Tienanmen tutti erano disperati per il massacro, dopo il silenzio; ma, mi chiedo, dov’è la memoria per i morti prima del 1989?”. Qui è avvertibile la profonda consonanza con l’altro esule, Titos Patrikios che si esprimeva sulla stessa lun-ghezza d’onda. La lingua si incarna nel viaggio fino al punto che “tutto il mio girovagare ha un unico significato: quello di rendere più profonda l’esperienza”. Maestro, come considera la sua produzione poetica, più legata a quella classica o più moderna? “Amo la poesia classica, ma non c’è modo di copiarla, io mi pongo sempre delle domande, da un punto di vista filosofico direi che la mia poesia serve ad esprimere la situazione dell’uomo… Anche se scrivo testi moderni, la lezione degli antichi poeti come Li Po (il termine “lezione” rievoca nella mia mente l’unica poesia di Li Po presente nell’antologia della scuola media che forse una volta ho proposto ai mie allievi!) sono sempre dentro di me. La seconda parte dell’incontro è dedicata alla lettura di alcuni testi della raccolta “Dove si ferma il mare”, uscita nel 2004 per i tipi di Libri Schewiller, elegante testo trilingue (cinese, inglese e italiano) frutto di un lavoro complesso realizzato da Claudia Pozzana. Sono poesie dell’esilio scritte tra il 1992 e il 1993, in un periodo che egli stesso definisce “particolarmente tenebroso”, un’opera solcata da un reticolo di sentieri (ma tuttavia unitaria) che portano verso la luce. Il luogo dove la barca che affonda appena vicino a Sidney è la metafora della vita e della morte nel mezzo di una situazione senza tempo, “solo in cento anni si capisce il vero significato dell’orologio… L’età paralizzata / l’età della barca affondata / spalanca la pelle / e infine viene toccata dall’Oceano… le maree raschiano incessanti uteri / prima che lo sguardo sia infuriato dal sangue”.

 

 

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