Non vedo, all’orizzonte, strade facili.
Sembrano non essercene, almeno, tra quelle che partono dall’inizio.
Un’estrema facilità, per altri versi, potrebbe condurre alla dichiarazione di poetica, ma con essa arriva, inevitabilmente, anche la tentazione di legittimare la propria scrittura poetica sotto un profilo esclusivamente teorico: più che la scelta autoreferenziale, è la capacità autoconclusiva, di profezia che si auto-avvera, che non sembra in grado di reggere, in una prospettiva adeguatamente storica (più che “storicizzata”, come lo può essere sempre, e sempre provvisoriamente, per effetto dell’intervento di questo o quell’amico critico, di questo o quell’amico accademico, etc.).
La dichiarazione di poetica spesso non è altro che una ‘posa intellettuale’, la cui esigenza sembra derivare da una certa tradizione novecentesca dell’autore di poesia come immediatamente assorbito nella classe, o nella posizionalità, intellettuale (tradizione che trova certamente nella diade Fortini-Pasolini l’esempio più noto e ancora moltissimo citato) – invece:
smettendo gli occhiali e la posa intellettuale:
non era una caverna ma più ancora, al fondo
né arena né chiesa né un libro di poesia
a dire il vero: rinascendo prete tennista
torero scendendo al mare dove non c’è nulla
da dire se non fosse per quel genere, detto
implacabilmente, di sconfitta: in ginocchio
– in ginocchio! – allo scopo di evitare in tutto
e per tutto la mistica: lallà, dice, poi lallà
(da: Querencia, 2019)
Davanti al mare, al suo ‘genere, detto / implacabilmente, di sconfitta’ (è uno dei testi intenzionalmente più oscuri del libro, come mi ha fatto notare, tra gli altri, Luciano Mazziotta: il tipo di sconfitta, e in più generale, di tragedia che si consuma, da decenni, in quel mare non è nominato, restando, così, difficilmente esplicitabile), la prosopopea intellettuale ridiventa, e resta, lallazione. Succede con tutte le esperienze traumatiche, le tragedie collettive, anche molto recenti, cui resta molto difficile restituire parola impegnando la ‘propria’ (?) voce.
Detto questo, le aporie legate a una dichiarazione di poetica non sono, tuttavia, condizione necessaria e sufficiente per escludere la possibilità che si possano ripercorrere i propri passi – posto che quelle siano le proprie tracce, le proprie impronte, e non le orme di altr* – fino all’inizio: cancellare i passi già fatti, confondere le piste, non trovare nulla e quindi sceglierlo ex novo, l’inizio.
Nel mio caso potrebbe essere, ad esempio, quell’«arte dello scarabocchio fatto con gomma e matita, la poesia che si può fare e rifare» della quale scrivevo una decina d’anni prima, in Minuta di silenzio. Come mi è stato fatto notare, all’epoca, da un lettore attento come Giacomo Cerrai, rimasto vicino anche alle mie successive pubblicazioni, in Minuta di silenzio non facevo affatto seguito in modo coerente, dal punto di vista formale, a quella «curiosa dichiarazione di poetica, che presupporrebbe altre prese di posizione, molto più radicali di quanto appaia dalla lettura d[el] libro». Seguivo, più che altro, una sorta di pungolo etico, lo stesso che, nello stesso libro, mi ha portato a mettere nero su bianco queste parole: «per assumere responsabilità e firmare con la x bisogna qui fermarsi un attimo, prendere fiato e attraversare una minuta di silenzio».
Anche in quell’occasione, si trattava non tanto di definire un inizio e un percorso ben conchiuso, bensì di prendere fiato per poi ripartire, all’interno di un nuovo cammino non tanto originato dal confronto della parola poetica con il silenzio, quanto indirizzato verso l’orizzonte, o comunque verso la scena futura, di tale confronto (cercando di evitare i patemi hollywoodiani dello scontro finale). Il tentativo era, innanzitutto, quello di non dare il silenzio che è, di fatto, costitutivo della parola poetica per scontato, acquisito e facilmente commerciabile con i possibili lettori. Il nuovo cammino porta, ancora una volta, in riva al mare:
Di tanti posti, in riva al mare
è dove conta meno il minuto
di silenzio, stretto tra onda
e risacca, accanto alla figura
fetale, a ossa rotte, dell’uomo
che cadeva. Scrivere sulla sabbia
è gesto romantico, meglio le glosse:
tatuate dal sole con certezza,
e più direttamente, sulla minuta
di silenzio (gioco di biglie
che sposta le lettere), sulla pelle
più profonda, sulla lingua riscossa
e bruciata – se è arrivata
sino a questo santuario di fuoco e acqua
in forma di risma bianca
ora lo lascia
con qualche grido,
con qualche piegolina
(da: Minuta di silenzio, 2010)
L’esperienza del silenzio, come quella della morte, può essere devastante, o anche annichilente. Non instaura – non direttamente, almeno – quella diffidenza tout court verso la parola che, comunque molto correttamente, ha individuato, di recente, Isabella Bignozzi nella mia scrittura. È un’esperienza che sancisce la possibilità di un rischio, e in funzione di questo rischio, soltanto in funzione di questo – non per l’etica, stavolta, ma per un’eventualità in tutto e per tutto materiale, di una materialità in primo luogo linguistica – non dovrebbe essere facile, almeno, usare la parola ‘silenzio’.
Lo stesso per la parola ‘morte’ (di cui pure ho usato e abusato).
Lo stesso per la parola ‘fame’ e, di conseguenza, per la parola ‘corpo’:
Non restano che le spoglie
di chi salì alla linea gotica cantando,
birre moretti nella sacca, fingendo
nuove resistenze. Il punto è mancato
alla linea, alla storia, giocando
di singolare luce, come una delle poche lucciole
che qui ancora si contano, come sulle Langhe,
e ormai cosa dare in luogo della carne
della memoria – neanche il merito
dell’osceno può restare oggi
alla carne dei mezzi padri,
già nera perché già scura:
non è più esposta
non è ancora ritirata –
sono ladri di ricotta e di quaglie:
è carne ormai sicura.
(da: Nel debito di affiliazione, 2013)
Se si usano queste parole, lo si fa, come spesso accade, da una posizione irriducibilmente connotata (nel migliore dei casi, ‘piccolo-borghese’, come si diceva una volta), e si dovrebbe avere il ‘buon gusto del cattivo gusto’, una certa propensione verso la perversione. (Che, del resto, è un altro modo per portare il verso non tanto verso l’inizio, quanto verso un altro luogo.) Per questo, parlando dell’Ornitorinco in cinque passi, ho parlato di una mia personale inclinazione verso la zoofilia, allo scopo, più che altro, di dare conto anche in quella direzione dell’intreccio eterodosso tra ‘papera’ e ‘coniglio’ che, nel libro, dà vita all’ornitorinco:
Ornitorinco, svìtati.
Ritorna papera o coniglio,
che poi nella ramaglia
corri a vedere ciò che non puoi
in ogni tratto, in ogni sbaglio:
immagine-immagine / immagine-parola / parola-parola
scorgi, ovvero discerni
[dormi]
(da: Ornitorinco in cinque passi, 2016)
A questo punto, preferisco tornare ad almeno due parole, delle quali ho sicuramente fatto uso e abuso, nominandole direttamente nei testi, ma che mostrano in modo forse più efficace i limiti e le aporie di una – probabilmente, di una qualsiasi – dichiarazione di poetica. Sono ‘dialettica’:
quando invece: un milligrammo in più consente
di dare ampio adito a una scritta che seminando
il silenzio, una volta convenuti i tempi,
scatta verso la luce rinnovandosi tutta
almeno per un attimo poi retrocede, nelle
frasche: finisce l’emivita, però la crisi
continua, e per sicurezza di nuovo chiamano
amore a dar man forte e chiamano il dolore
a dar man forte (continua la crisi, crescente)
e chiamano l’attacco: epilettico, quando
invece è solo spostato: dialettico, contro
(da: Querencia)
e ‘mistica’:
Si infilano nello spazio cunicolare,
dov’è nulla, senza che voi confortiate.
Parlano di tunnel: si riferiscono,
in fondo, a una certa forma di denaro.
Che io mi sia costruito
una cella, quattro mura,
un nido di altri topi, più scuri,
che io guardi alla preda nel cielo
e più la penso, più si riducono
le distanze, a questo serve che si infilino
nei luoghi inframondani,
per questo alzano inferriate.
Eseguo, come càpitano,
gli ordini: ascolto il mio corpo,
mi faccio tutto ipocondriaco
fino al rantolo, fino al broncospasmo –
non rifletto nulla dall’esterno,
poi mi tuffo. Qui dentro è la storia,
dicono, se fuori nevica:
è sotto la coltre – in albo vitro –
che lottano le classi (oppure, poco oltre,
nell’angolo cieco, che proprio non vedi).
(da: Ornitorinco in cinque passi)
Resistendo alla tentazione del riferimento dotto[1], si tratta di due modi per l’emersione della contraddizione (l’uno, nel tentativo del superamento sintetico; l’altro, nel tentativo di conciliazione degli opposti) che, oltre a restare un’esperienza fondante per la scrittura poetica, resta utile grimaldello per continuare a riaprire la possibile dichiarazione di poetica: verso nuove partenze, verso nuovi inizi.
[1] In nota, tuttavia, si può cedere – almeno un po’… ‘Dialettica’ e ‘mistica’ si trovano fianco a fianco in una delle pagine fondamentali di Pour Marx (1974) di Louis Althusser: «Dopo L’ideologia tedesca, sappiamo che questo tentativo non ha senso: chi pretende puramente e semplicemente di rovesciare la filosofia speculativa (per ricavarne ad esempio il materialismo) non sarà mai che il Proudhon della filosofia, il suo inconscio prigioniero, come Proudhon lo era dell’economia borghese. Adesso si tratta della dialettica, e soltanto della dialettica. Quando però Marx scrive che bisogna “scoprire il nocciolo razionale dentro il guscio mistico” si potrebbe credere che il “nocciolo razionale” sia la dialettica e il guscio mistico la filosofia speculativa. È d’altronde quel che dirà Engels, in termini ormai consacrati dalla tradizione, quando distinguerà il metodo dal sistema. Noi dovremmo quindi gettare alle ortiche il guscio, l’involucro mistico (la filosofia speculativa) per conservare il prezioso nocciolo: la dialettica. Tuttavia Marx dice nella stessa frase che estrazione del nocciolo e rovesciamento della dialettica sono tutt’uno. Ma come può questa estrazione essere un rovesciamento? In altre parole che cosa, in questa estrazione, viene “rovesciato”?». Parte da qui il percorso tra Contraddizione e surdeterminazione di Louis Althusser che avrà un esito, infine, chiaramente a-dialettico (per alcuni: a-dialettico) e, a quasi cinquant’anni di distanza, sembra anche questo un inizio utile per poter ripartire. Magari tornando indietro un attimo, ecco – precisiamo meglio, almeno in nota – e poter prendere la rincorsa.
nota bio-bibliografica
Lorenzo Mari vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali Ornitorinco in cinque passi (Prufrock Spa, 2016), Querencia (Oèdipus, 2019) e la plaquette Tarsia/Coro (Zacinto, 2021). In prosa, ha pubblicato Via Mascarella alta e bassa (Modo Infoshop, 2019) e, con il racconto Un percorso sicuro, ha vinto il Premio Teramo 2019 – Under 35. Ha pubblicato alcuni saggi, tra i quali Il taccuino dell’intellettuale. Disegno e narrazione nell’opera di John Berger (Mimesis, 2020). Traduce dallo spagnolo e dall’inglese. Dopo aver curato l’edizione di Zurita. Quattro poemi di Raúl Zurita nella traduzione di Alberto Masala (Valigie Rosse, 2019) e aver tradotto #Misantropocene. 24 tesi (Modo Infoshop, 2020), attualmente sta lavorando a una traduzione italiana di Trilce di César Vallejo. Collabora con le riviste online PULP Libri, Argo e Fata Morgana Web.