Dario Talarico, “la grande emancipazione della poesia richiede, come ogni libertà, di esserne anzitutto responsabili”

Dario Talarico (nella foto di Selene Chiozzi) è nato a Roma nel 1990. Suoi testi sono apparsi su «la Repubblica», «Studi Cattolici», riviste di settore e antologie. È redattore di «Laboratori Poesia»; suoi contributi critici sono inoltre apparsi su «Laboratori Critici», «Il sarto di Ulm», «Metaphorica» e sui lit-blog «La poesia e lo spirito», «l’EstroVerso», «Poetarum Silva», «Almanacco Punto» e «Monolith». Per la poesia ha pubblicato La farfalla di piombo (LietoColle, 2013), Il coraggio di non lasciare il segno (puntoacapo, 2019, European Poetry Prize Adam Mickiewicz, 2021) e Autopsia (reiterata). Poema logico-filosofico (puntoacapo, 2022, finalista Montano, 2022), dal quale un estratto è stato tradotto in Russia col titolo Простор для невысказанного / Spazio per il non detto (Free Poetry, 2021). È condirettore in puntoacapo per la collana di opere prime Controcorrente. 

“Non sognare oltre l’orlo/ della tua pelle. – Tanto più è esatta/ una parola, tanto più spazio lascia/ a ciò che non dice.”, versi scelti da Autopsia (reiterata). Poema logico-filosofico (puntoacapo, 2022) per introdurre la nostra intervista.

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Autopsia (Reiterata)”?

Mi viene da sorridere all’idea della scintilla, pensando ad Autopsia (reiterata). Ha avuto una gestazione di sette anni, dai suoi albori alla pubblicazione. Penso di poter dire che, se di scintilla si è trattato, non ho mai corso il rischio di un incendio.

“È vergognoso parlare di ciò che si ignora./ È inutile parlare – di ciò che si sa”. Con la saggezza dei tuoi versi per chiederti: dove sei stato condotto dalla poesia?

Da nessuna parte in cui non fossi già pronto ad arrivare, in nessun posto in cui in realtà non ero già. La poesia in sé può condurre solo all’ammutolimento, che non è silenzio, ma assenza di contenuto. Perché, nonostante l’etimo, da sola non conduce né produce, non è causa. C’è la vita e basta, coi suoi sentieri e i suoi tempi, e la poesia, quando è buona, riesce a tradurla nella propria lingua iper-soggettiva e impersonale al contempo. Il suo, però, è uno sguardo che non può che essere sempre in ritardo rispetto al vissuto. Se a distanza di anni, come a volte accade, si ritrova in un testo qualcosa che in seguito è accaduto, vuol dire probabilmente che era già allora lì il suo primo abbozzo, anche se noi stessi non l’abbiamo riconosciuto. Al di là dei romanticismi, non credo nella veggenza poetica, credo piuttosto nella nostra disattenzione, nella nostra incapacità di tradurre e possedere a pieno tutti i segni che riceviamo e addirittura utilizziamo.

E, ancora, cosa credi possa la poesia per colmare il “nulla”?

Non penso che il nulla sia qualcosa da combattere o colmare. Fino a controprova, il nulla è quanto di più strettamente poietico esista: che sia in chiave religiosa o scientifica, c’è un punto zero dal quale tutto viene generato e al quale tutto tornerà. Non a caso il nulla nella mistica collima spesso col divino, o con quella condizione atta a percepirlo, e nelle scienze sopravvive ancora la domanda di cosa sia successo un istante prima del Big-Bang. Siamo abituati a coltivare relazioni di polarità con ciò che ci circonda, ma se nei confronti del nulla si riuscisse ad avere uno sguardo né oppositivo, né divisivo, né negazionista, né elogiativo si potrebbe approdare a uno sguardo disumano forse, ma più ampio, comparativo e finalmente pacificato, nel quale tutte le cose si muovono nella correlazione e scompaiono e si trasformano, compresi noi. Una poesia riuscita può unire questi opposti solo apparenti, perché lo sono unicamente da un punto di vista relativo. Per fortuna o nostro malgrado, siamo minuscole comparse di un pianeta che a sua volta è una minuscola comparsa di un sistema, e così via. Una poesia non può colmare il nulla, ma può aiutarci a comprendere, accettare e arricchire il vuoto di noi e dentro di noi, che percepiamo come appartenente al nulla, ma che su di esso invece proiettiamo.

In che modo la vita diventa linguaggio?

In ogni modo, credo. La vita è linguaggio ben prima della lingua, e si rivela per esperienze, che vanno a modificare la struttura della nostra voce, che a sua volta incide sul nostro modo di pensare e viceversa. Il corpo stesso è linguaggio. Ho ricordi lontani di percentuali che si aggirano intorno al 7% per la comunicazione verbale, nello specifico per quanto concerne l’emotività. La maggior parte del volume di informazioni che veicoliamo, viene esternata attraverso il linguaggio non-verbale e para-verbale. Stando così le cose, e riportando il discorso al nostro ambito, la poesia può veramente poco: le resta pochissimo da poter dire, e a pochi, ma è esattamente questo poco del poco ciò che può fare inutilmente e meravigliosamente bene.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

Molto prosaicamente forse, credo che la poesia venga dall’uomo, e che non scenda dall’empireo. Se la sua voce è anche lingua dell’invalicabile, è per quanto di invalicabile, di irrisolto e irrisolvibile c’è nell’uomo nel mondo. Quanto ha di intraducibile però non è una posa o un atteggiamento: è esattamente l’aderenza, la mimesi, la fusione ai nodi più profondi dell’essere umano e del circostante. La sua invalicabilità linguistica, quando è autentica, è l’invalicabilità dunque del suo oggetto e non della sua lingua.

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?

È una domanda importante, che richiede un distinguo. Da un punto di vista filosofico non può incidere: ciò che è vero è vero, e ciò che non lo è non può esserlo. Dalla prospettiva poetica, invece, la questione si complica o si arricchisce, perché ciò che non è vero, può diventarlo. Nella poesia, come nell’arte in genere, la forma, la struttura e la sua capacità di fedeltà al proprio contenuto sono fondamentali, e il piano prettamente estetico se non è preponderante, è comunque sempre di grande valore. Ciò si traduce in un rischio nel quale spesso ci si può imbattere: che ciò che è bello, che “suona” bene, che è ben artefatto e godibile possa essere non solo confuso con ciò che è vero, ma imporsi alla nostra percezione come tale. Questo non è necessariamente un male, giacché anzitutto, con spirito critico, può ampliare la nostra capacità di visione e di concepire varianti e complessità. In fin dei conti, è una faccenda che riguarda la deontologia di ogni autore: la grande emancipazione della poesia richiede, come ogni libertà, di esserne anzitutto responsabili.

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

“Istruzioni” è termine che, per fortuna, mal si addice alla poesia. Posso dire però alcune cose che hanno aiutato me. Ricollegandomi alla domanda numero due, direi anzitutto l’importanza di vivere vivendo; assimilando la vita che ci attraversa e attraversiamo, e lasciandola decantare sotto la lente del tempo e della consapevolezza. Senza passività, ma senza neppure la presunzione di poterne essere gli indefettibili orchestratori. Se ogni vita fosse unica, non si dovrebbe nemmeno poter porre la questione della riconoscibilità poetica, perché ogni scrittura diverrebbe di conseguenza unica, come eco di una vita eccezionale e unicamente vissuta. Lo studio seguirà e accompagnerà, certo, ma prima di preoccuparsi della unicità della propria poesia, occorrerebbe forse preoccuparsi della qualità della vita a cui la facciamo assistere e attingere. Mi ricorderei poi spesso di non idealizzarla, la poesia. Nessun fine salvifico o escatologico le spetta. Apprezzare la poesia per quello che è, e soprattutto per quello che non è, credo sia un doveroso punto di partenza, come lettori e come autori. Volendo lanciare un parallelismo forse più provocatorio di quanto vorrei, si potrebbe dire che in una relazione è più facile credere nel Principe Azzurro, piuttosto che nella quotidianità; e tuttavia questo non restituirebbe certo più materialità al suddetto principe, né renderebbe onore all’amore. Credere nel miracolo poetico significa svalutare la poesia per ciò che davvero è, con tutti i suoi limiti che, a ben vedere, costituiscono la potenza espressiva della sua grandiosa fragilità.

Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?

Forse la sua onestà contraddittoria. In genere una poesia mira a raggiungere il grado massimo di credibilità o veridicità, pur essendo, in quanto arte, un artificio. E lo trovo già di per sé molto stimolante, perché significa che per rasentare il livello maggiore possibile di verità, occorre conquistare il livello massimo di falsificazione. Eppure, una poesia può mentire a chiunque tranne al suo autore: in ogni istante rivela a chi l’ha scritta o la sta scrivendo i suoi limiti, il punto esatto in cui si trova nel proprio percorso di crescita personale, umano ancor prima che letterario. La poesia quindi ci consente di fare chiarezza, ed è un dono tanto impietoso quanto raro.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “Autopsia (Reiterata)” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Sono stati anni preziosi: di silenzio e scoperte, di malattie e morte. L’Autopsia (reiterata) è nata nel 2015, quando non doveva. Era la sintesi che cercavo da anni, ma non ero pronto: mi ero da poco trasferito in una baracchetta in un bosco, e non volevo più saperne della scrittura e del suo mondo. Dopo circa quattro anni, quando stavo per andare via di lì, mia madre si ammalò. Così, per farle una sorpresa a cose fatte, decisi di pubblicare di nuovo, inserendo quella primissima breve stesura, scritta quasi controvoglia, come sottosezione all’interno di un altro progetto restato inedito, che risaliva indietro nel tempo, fino al 2012. Questo progetto divenne poi Il coraggio di non lasciare il segno (puntoacapo, 2019), e caso volle che giunse nelle mie mani con un giorno esatto di troppo. Ma non era quello il suo posto o, col senno di poi, non era solo quello. Mi misi così a lavorarci ossessivamente per altri anni, fino alla pubblicazione definitiva nel gennaio 2022.

 

cxviii.

Canta chi non sa farlo, perché il minuscolo
deve mostrarsi grande, mentre il gigante
si rintana cauto. È sera, ascolta: solo la notte
stellata — sa che la grandezza è una questione
privata.

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