Davide Racca, “V come Vincent”, lettura e visione in osmosi continua di percezioni.

V come Vincent (Coup d’idée, 2018) di Davide Racca è un libro concepito, nel segno della fusione di arte e scrittura, intorno all’uomo e all’artista Van Gogh. Lettura e visione procedono in osmosi continua di percezioni, da un primo volo radente sulle parole e sulle immagini (i raffinati disegni dello stesso Racca contenuti nel volume), fino all’ultima rifrazione di senso a poco a poco ceduto dai globi di poesia/prosa. L’incanto si dispiega quando i nostri occhi non sanno più distinguere sulle arcate dell’immaginario l’effetto dell’una o dell’altra, quando sfumano i confini tra l’umanità di Van Gogh evocata e resa viva nei testi e il suo sembiante (con gli alberi e i girasoli) delineato dalla matita di Racca, una sorta di metapoetica proiezione d’ombre, “bisogna prendere le tele, spremere i tubetti, campire a rilievo, con istinto. ancora tele tubetti istinto. nella luce, la più solare, lasci sempre la tua ombra”.
Vincent è il nome-emblema che si replica in ogni scheggia di specchio da cui muove il pensiero a indagare il gesto, il senso della creazione, vessillo dell’arte che Vince sulla vita. C’è un filo che unisce Van Gogh a ogni artista il cui talento sembra spingere l’esistere al limite estremo – come pure avviene in Caravaggio –, una necessità d’espressione divorante, una coscienza vigile eppure in balia di forze abissali, l’azzardo di contenere un fuoco che nutre e scarnifica, blandisce e distrugge al contempo. L’esuberanza dei colori nell’uno può equipararsi all’incombenza del nero nell’altro, le parole/visioni del poeta valgano per entrambi: “ogni tentativo di evasione rinserra la cella di rigore. ogni giorno che passa, promessa e minaccia, un quadro, un conto alla rovescia”.
Lo sguardo di Davide Racca ha frugato ovunque, tra le tele e i pennelli di Vincent, negli angoli delle stanze e gli oggetti, tra lettere e appunti, lo ha seguito per le vie e nelle notti insonni dei caffè. Ne ha interrogato pose e ossessioni, riflettendosi nell’ardore dei suoi autoritratti. Fino a scovare l’ombra nascosta dei colori. Fino a farne scrittura, “perché le visioni oscure hanno bisogno di parole chiare”.

*
brandire il pennello. picchiare la tela come la
pelle. impaziente tagli le visioni dalle cose e
qualcuno ti provoca senza farsi notare. la na-
tura, perfetta, tenta la tua rabbia

*
niente di ciò che appare è solido. niente si
regge veramente

*
arrampicandoti ti accorgi che la discesa è la
faccia inquieta della salita. e sali con le unghie
del nero. graffi i contorni dei rilievi montuosi.
tenti le unghie su crinali ubriachi fino al tac
che insanguina le mani. strappi ali di papaveri
tra le forre insidiose di pietre. dai ciuffi di cap-
pero delle rocce scivoli nei nidi dei ragni e
delle serpi. tratteggi il percorso con segni pre-
cisi come qualcosa da non dimenticare: salire
salire… tra poco sarà finita e avrai dimenti-
cato. il cielo, patria di ogni partenza, nessuno
te lo tocca: sta lì in vetta


*
la vita scritta nelle lettere non è quella taciuta
vivendola. non scrivi solo per esperienza o ra-
gione. scrivi perché sei in una stanza angusta
e perché le visioni oscure hanno bisogno di
parole chiare. per chiedere dei soldi e perché è
più facile pulirsi l’anima scrivendo. e scrivi per
non restare solo, pericolosamente solo, con la
tua figura in piedi davanti al tuo letto

*
ti avvicini allo specchio e fissi gli occhi negli occhi
dell’altro leggermente spostato. il tuo doppio si gira in
semiprofilo con lo stesso movimento e dalla parte opposta.
comincia il ritratto: un panorama di presagi dal grano del
mento al golgota della calotta

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