Di Giuseppe Samperi “L’ora mora del giorno”, nella lettura di Antonio Di Silvestro.

«Ma ascolto volentieri le parole della vita / che non ho mai inteso, mi fermo / su lunghe ipotesi». Queste parole di Ho fiori e di notte invito i pioppi, l’ultima grande poesia di Quasimodo, offrono una suggestiva traccia di lettura di questo intenso, lucido e straziante libro di Giuseppe Samperi. Un libro che nasce come partita doppia con la vita, giocata sul crinale della parola e del silenzio, dell’attesa e della preghiera, sullo sfondo di un tempo declinante, quello appunto dell’ora «mora».

Lo sguardo sulle cose, anzi meglio sugli altri e sull’Altro, un Dio appellato con una minuscola che è segno e sintomo di un sofferto credere, si irradia dal corpo dello «sfregiato esule». Una sorta di sehnal per chi, di una orgogliosa ma mai ostentata insularità (che definirei quasi trascendentale), si è fatto al contempo custode e vittima, difensore e primo accusatore. Ogni rischio di identificazione è subito sventato, perché chi parla sfugge all’abusata topica di un’ormai improponibile isolitudine, serbando soltanto il calore, il colore, il suono di gesti, abitudini, piccole epifanie che nutrono l’ansia della ricerca, fuori da ogni tentazione oleografica, da ogni nostalgia regressiva, da ogni ritualità da consumato laudator temporis acti. Una ricerca, questa, che non manca della sofferenza di chi sente di non aver pareggiato il bilancio, che avverte la ferita aperta da un credito non riscosso (che sembra risuonare nel «mora» del titolo) e avverte al contempo che il suo “dare” è lungi dal considerarsi concluso.

Si respira in queste pagine come una sotterranea algebra dei sentimenti, tutta interna al mistero della vita, il «Rebus insolvente» cui il poeta vuole educare chi lo seguirà (p. 50). Tuttavia la risposta a questo mistero è proprio in rebus, nell’«istante che t’arriva / vivido al cuore», nella consapevolezza che alla fine si può celare il bluff (p. 36). Mi sembra tuttavia che lo strumento deputato a rispondere, la parola, sia investito in quest’ultimo libro di Samperi di uno scacco ancor più radicale che nei libri precedenti. Qui la parola è primariamente suono, voce del mondo, segno del visibile, traccia acustica di un dio silenzioso: «Dal sofà di casa, se un clic / avviene, come un’epifania / si ode lo sferragliare dei treni / e le parole, a mischiarsi le mie, / che deragliano. / […] Tutti i suoni del mondo, oh tenerezza, / sfidano il dio che non parla […]» (p. 15). Samperi arriva quasi a esibire (provocatoriamente) questo scollamento tra significante e significato, tra suono e senso. Si risente il tormento montaliano di Non chiederci la parola, quando l’autore esterna «l’ansia di trovare / la parola testimone», quella capace di “squadrare” l’animo informe dell’uomo, una parola tale da infilzarsi «nello stelo del mondo» (p. 37). E mi pare che quanto più queste parole siano scritte e pronunciate come parole della vita, tanto più il dettato dei versi diventi rigoroso, esito di una intensa ricerca formale, in un climax che approda, proprio nella serie di testi più sensibile ai sussulti del cuore e della penna (la sezione Noncuranza, dedicata alla madre), a una pronuncia asciutta, distillata, vibrante. E proprio qui, dove più accesi e brucianti riemergono i ricordi, la parola “scabra ed essenziale” riafferma la fedeltà alle ragioni della vita, abolendo ogni confine tra essa e la morte, proprio come avviene nella poesia di Quasimodo ricordata in apertura: «Certo non potrò sfuggire; / sarò fedele alla vita e alla morte / nel corpo e nello spirito / in ogni direzione prevista, visibile».

Un libro, questo di Samperi, che è testimonianza di fedeltà – silenziosa, sotterranea, mai esibita o provocatoria – alla poesia, nel duplice versante della lingua e del vernacolo, qui più volte intersecantisi (Samperi è autore di due intensi e raffinatissimi libri in dialetto siciliano: Sarmenti scattiati, Prova d’Autore, 1999 e Dialettututtu, Cofine, 2014), come a suggerire la possibilità di raccontare una medesima identità con due voci diverse, entrambe intrise di nostalgia, ironia, ansia di fuga, desiderio di ritorno.

Antonio Di Silvestro

 

 

 

Giuseppe Samperi, L’ora mora del giorno. Poesie, Mascalucia (CT), Edizioni Novecento, 2018.

Giuseppe Samperi è nato a Catania nel 1969. Vive tra Castel di Iudica (Catania) e Faenza (Ravenna). Ha pubblicato i libri di poesia Alice dell’Amore (Prova d’Autore, 2003) e Il miliardesimo maratoneta (Edizioni del Calatino, 2011). È anche autore dei libri di poesia siciliana Sarmenti scattiati (Prova d’Autore, 1999) e Dialettututtu (Cofine, 2014; Premio Città di Ischitella-Pietro Giannone). Ha pubblicato in e-book La bottega del non fare e altri racconti (Edizioni del Calatino, 2012). 

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