Mauro Curcuruto, “L’esatta vertigine” e “quell’alchimia di immagini e parole”.

Mauro Curcuruto, Taormina 1978. Designer con la passione per la parola e il mare. Lavora in giro per l’Italia, ma la sua casa è la Sicilia. Quando può va a pesca o legge cose d’altri ad alta voce. Suoi versi sono apparsi sulla rivista Colophon diretta da Carmelo Causale, sul sito Poetastri.com di Sergio Claudio Perroni nella rubrica Per il verso giusto – e sulla rivista Newl’ink di Luca Scandurra.

“Le cose da un lungo corso/ giungono e poi si disfanno,/ per l’amore d’un singolo affanno:/ l’ultimo fiato dell’uomo bambino”, versi scelti dalla raccolta – pubblicata da “A&B Editrice”, nella collana Under40, (a cura di Marinella Fiume e Fulvia Toscano, che NaxosLegge dedica a scritti di vario genere di Autori che non abbiano superato i quarant’anni), per introdurre la nostra intervista.

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?

La mia prima poesia… il (terribile) sonetto Delle cose, composto a diciassette anni e battuto a macchina su una Olivetti STUDIO 45, nonostante fossi già un nerd provetto. La feci leggere alla mia prof di italiano, Fulvia Toscano che, sorridendo, mi disse: continua.
C’è un aneddoto che riguarda gli albori del mio rapporto con la poesia. Ci sono di mezzo un sogno e un libro, La versificazione italiana dalle origini ai giorni nostri di T. Elwert. Questo libro mi venne consigliato dal mio primo maestro Carmelo Causale, segnai titolo e autore su un pezzo di carta e lo conservai. Cercai il libro per molto tempo senza riuscire a trovarlo.
Un giorno, da universitario, mentre mi trovavo a Messina, camminando per strada in compagnia di una persona cara, mi sovvenne il sogno fatto la notte prima e decisi di raccontarglielo intanto che raggiungevamo la stazione dei treni: avevo sognato di trovarmi in una delle pagode (dette “follie vittoriane”) della villa di Taormina, all’imbrunire. Mi aggiravo per questa costruzione quando da una delle nicchie sbuca un gatto bianco, sofficissimo e dagli occhi azzurri. Il felino tiene in bocca un pezzo di carta che raccolgo. A quel punto il gatto mi dice che ciò che stavo cercando era a un passo da me, e che lo avevo tasca… Proprio nel momento in cui finivo di raccontare il sogno, passavamo davanti a una libreria storica, Nunnari e Sfameni. Sobbalzai, tutto era inspiegabilmente chiaro. Aprì la tasca dello zaino e ne estrassi il pizzino ormai dimenticato con l’indicazione del libro! Entrai in libreria e chiesi.
L’anziano libraio occhialuto e vecchio stampo, simile a un bibliotecario di borgesiana memoria, con pigra perentorietà, a metà tra un messicano e uno sciamano che indichino la via (per ragioni diversissime, chiaramente), dice al figlio di guardare nell’ultimo scaffale in fondo al magazzino. Ne avevano ancora due copie! Ero (lo sono tutt’oggi) sbalordito. Comprai entrambe le reliquie. Non ringrazierò mai abbastanza quella soffice nuvola di pelo dagli occhi azzurri.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?

La mia formazione, dici. Sono un parvenu della poesia, la mia è una formazione stentata, lacunosa: io sento di essere un pastrocchio di Nomi, Cose, Città. Ma se devo tracciare la geografia di questo scarabocchio che vogliamo dire formazione, credo ci siano persone, destini, prima che libri. Questo per me è importante. Persone speciali che hanno contribuito a far sorgere e maturare l’interesse per la Poesia e per la Cultura in genere. Fulvia Toscano, Carmelo Causale, Sergio Claudio Perroni e Cettina Caliò: loro valgono pilastro, tanto quanto Ovidio, Catullo, Dante, Cavalcanti, il D’Annunzio del Notturno, Gozzano, Ragazzoni, Pessoa, Borges, Campana, Yeats, Pound, Cristina Campo, Snorri Sturluson. O il Rostand del Cyrano. Tutto. E nella traduzione di Mario Giobbe (o nella splendida lettura di Ruggero Ruggeri).
Sono fortunato ad aver incontrato Fulvia sulla mia strada. L’attività culturale intrapresa con la nostra associazione culturale Azenor, mi ha dato la possibilità di incontrare e conoscere molti grandi poeti e scrittori, e di imparare da ciascuno di loro. Anche di capire meglio cosa, di ciò che dicevano, in me facesse eco e cosa no. Il comune adorato poeta Giuseppe Conte l’ho conosciuto proprio grazie a Fulvia e alla donna cervo AzenorConfesso che non sono un grande lettore, e me ne dolgo. Non amo molto la prosa se non quella dei libri assoluti della grande letteratura, sono attratto da ciò che scandaglia l’uomo e la sua urgenza di verticalità, di avventura, di assoluto. La saggistica, una certa letteratura di matrice misterica, esoterica e spirituale e la letteratura dei miti di fondazione mi intrigano. Mi sono avvicinato ad autori quali: Melville, Pirandello, Nabokov, Borges, la Yourcenar delle Memorie di Adriano, Bruno Vespa (scusami, stempero)…
Sul fronte più spirituale: Junger, Zolla, Guénon, Evola, Consolato, Hillman, Heidegger… ma senza mai approfondire sul serio. Insomma, mi ritengo uno sgorbio, nel senso letterale del termine.

Quale poeta e relativi i versi (e per quali ragioni) non dovremmo mai dimenticare?

Di ogni Poeta che si è misurato con l’impossibilità dell’Assoluto, che ha ingaggiato la lotta impari contro il Nulla credo esistano versi indimenticabili. Ma se all’improvviso penso – senza pensare – a un verso, spontaneo affiora questo: “Chi mi difenderà dal tuo bel volto?”. Michelangelo Buonarroti ri-dice, una cosa che in mille modi è stata – e sarà per sempre – detta: che di fronte alla Bellezza e all’Amore si è sempre disarmati, vinti. Forze per eccellenza, paniche (e dunque terribili) che hanno in sé ogni cosa vivente e morente, ogni bene e ogni male, ogni inizio e ogni fine.

La poesia è tale se diventa portatrice di una visione; qual è la tua opinione in merito?

Che sono dannatissimamente d’accordo. E siccome non so se avrò altro spazio per ringraziarti lo faccio qui, sulla riga più breve: grazie, mille volte grazie a te e al tuo bellissimo l’EstroVerso.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?

Ci penso spesso, e non ho una risposta definitiva (per me, intendiamoci) sulla questione. E temo tanto la domanda quanto la risposta: ogni risposta. La poesia ha per certo una moltitudine di significati, ma un aspetto mi coinvolge e intriga: la poesia intesa come canto. Il canto inteso come gesto rituale del pensiero che nominando le cose le chiama a sé, inverandole. Penso a una frase tratta da In cammino verso il linguaggio di Martin Heidegger che cito (parafraso) per come si è depositata nella mia memoria: egli parlava di un divenire sensibile attraverso il cui vivente incanto traluce il soprasensibile. Forse non so neanche cosa bene significhi, ma mi pare mirabile. Spesso mi capita di pensare che forse la poesia non è la parola, il canto in sé, ma più quella forza capace di colmare la distanza tra il tuo punto di osservazione e l’Assoluto; poi viene il lavoro di traduzione (e riduzione) in parole, in canto, di quello slancio.

Quando una poesia può dirsi compiuta?

Quando significa, risuonando. Quando senti che quell’alchimia di immagini e parole si fa leggera, perde la zavorra del particolare (incluso il nome di chi la scrive) e s’innalza diventando patrimonio di chi legge. All’ingresso del Guggenheim di Venezia se non ricordo male c’è un’opera di Mario Merz che riprende una frase del poeta persiano Rumi e ne fa un neon blu: se la forma scompare, la sua radice è eterna.

Qual è (dal tuo punto di vista) la lingua ideale della poesia?

Che domanda wow! Non lo so… Se penso a una lingua ideale penso alla lingua degli uccelli, al vento, al gioco dorato che fa il sole sui bordi delle nuvole, alla voce grossa del mare e alla Gnosi delle fanfole di Fosco Maraini.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?

Vivificare il Mistero, dire l’Impossibile. Credo molto alla dimensione sacra del linguaggio e della poesia, alla verticalità del senso delle cose; per questo credo che la Poesia rappresenti una via per intuire l’altrove, per scorgere il dentro e il fuori delle cose. Questo, va da sé, non implica che io sia stato capace di farlo. Ma per fortuna c’è tanta Poesia da leggere e rileggere.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

Certo, è uno stralcio tratto dai Canti Orfici di Dino Campana: “[…] Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza?”.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare una tua poesia dal libro, “L’esatta vertigine” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

D’altro canto, l’undicesima delle trentotto poesie di cui è composta la silloge. Qui ci trovi tutte le risposte. La mia voglia di giocare col senso e col significato delle parole e dei numeri, e quindi con la vita, il dispiacere amaro della perdita che però fortifica, la mia sconfinata fede nel Caso, il doversi ricostruire con ciò che resta di sé… e via di questo spasso.

D’altro canto cosa puoi farci?
Sono cose che capitano,
ricapitano ed è naturale
evitare che succedano ancora.

Eppure ancora e ancora succede,
avendo in dote lo slaccio del cuore
questo continuo, incessante sfibrare.

D’altro canto è da sempre che affini
il rammarico, il broncio, l’errore;
sin da bambino mostri votato
il fiero lusso di questa maniera:
perdere spesso, sempre
saper perdere meglio degli altri.

Sei un vivere fuori dai giochi
un esistere in terza persona,
adiacente e pure diviso
da quei volti di bene estirpato.

D’altro canto non riesci a spiegarti
perché questi strappi di lacere cose
abbiano lo strano sapore di casa.

E ti tieni cari gli addii,
ti scolpisci bene le assenze
che pare non sappiano affatto
l’amaro che resta.

Seppure hai scerpato i migliori
pur non volendo, pur non potendo,
destinagli ora un canto,
un canto dove restare
a un tempo presenti e dissolti
in un sempre da incorniciare.

Ma io d’altro canto,
ora che so l’esatta vertigine
del continuo inciampare in frantumi
e di questa santa abitudine
ho fatto anticorpo.

Mi raccolgo i brani migliori
lacero così all’improvviso
vedovo di ogni bagliore
mi rimbocco la sorte e la vita.

Canto d’altro, invertendo l’errore,
perché ho ancora nel petto a pulsarmi
quel porco brio e un poco di slancio,
canto d’altro e per come so fare;
meglio di così non mi riesce la vita.

Il titolo del libro lo devo a due donne. A Ermira Shurdha perché leggendo in anteprima il libro, a un passo dall’imprimatur ha scoperto che il titolo D’altro canto era già stato usato per altre pubblicazioni, e a Cettina Caliò perché ne ha scovato uno di gran lunga migliore, capace di raccontare meglio il groviglio di cose che questi vent’anni di striminzita e zoppicante produzione in versi contiene. Ho cominciato a scrivere a sedici anni circa e non avevo intenzione di pubblicare. L’ho fatto tardi (troppo tardi) intorno ai quaranta. E non è detto abbia fatto bene. Più che un antefatto ti racconto perché decisi di pubblicare. Nel 2014 un’apparente scaramuccia con Sergio Claudio Perroni, mio maestro assoluto cui sempre e solo diedi del lei, si tradusse in un litigio definitivo. Qualche tempo dopo quel litigio gli scrissi una mail per dirgli che mi addolorava troppo l’aver perduto la sua stima, che lo amavo come si ama un padre. Mi rispose con queste testuali parole: Cose che capitano. Ricapitano. Ed è stato naturale evitare che capitassero ancora. Quasi ogni giorno ripenso, dolorando, a quelle parole così severe, lapidarie, che reputavo perfino giuste per l’assoluto ossequio che avevo nei suoi riguardi. Non voglio sembrare impertinente ma credo di poter dire che per moltissimo tempo il nostro fu un sodalizio di stima profondissima. Da quel giorno cambiarono molte cose, anzi tutte.
Anche la mia scrittura cambiò di passo. Sebbene poi le cose un poco si fossero appianate, il mio sogno era di pubblicare questo libro per portarglielo in dono, nella speranza che ciò potesse far tornare le cose esattamente per com’erano. Così non è stato, e mai più potrà essere.
Quando ripenso al mio Maestro capisco di essere stato doppiamente privilegiato. Oltre ad aver goduto della sua numinosa presenza e dei suoi insegnamenti (che spero non siano andati alle ortiche), quella cesura si è tramutata in una possibilità: quella di tentare di abituarmi alla sua assenza. Quasi un lutto ante litteram. Non è servito a molto, vorrei lo sapesse.
Ma gli sono grato per molte cose, anzi tutte.

da sinistra, Fulvia Toscano, Cettina Caliò, Mauro Curcuruto e Marinella Fiume durante la presentazione del libro L’esatta vertigine A&B editrice (foto di Francesco Stagno d’Alcontres)

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