Eleonora Rimolo è nata a Salerno nel 1991 e vive a Nocera Inferiore. Laureata con lode in Lettere Classiche e in Filologia Moderna, è ora dottoranda in “Studi Letterari” all’Università degli Studi di Salerno. Collabora con alcune riviste di Italianistica quali Sinestesie, Misure Critiche, Rassegna Italiana. Ha pubblicato un romanzo (Amare le parole, Litedition 2013), e tre raccolte di poesie: “Dell’assenza e della presenza” (Matisklo 2013), “La resa dei giorni” (AlterEgo 2015, Primo Premio “Poesia Giovani Europa in versi 2016”, organizzato dalla Casa della Poesia di Como). È vincitrice del Primo Premio “Ossi di Seppia” 2017 (Arma di Taggia) con alcuni testi inediti. È finalista di numerosi premi nazionali e internazionali. Alcune sue poesie sono state tradotte in spagnolo dal Centro Cultural Tina Modotti. È redattore per la sezione online della rivista letteraria di poesie «Atelier». “Temeraria gioia” (Giuliano Ladolfi Editore 2017, prefazione di Gabriella Sica, Premio “Napoli Cultural Classic”, “Premio Vitruvio”, finalista Premio Aoros) è il suo nuovo libro del quale, per introdurvi all’intervista, riportiamo uno stralcio eloquente dalla prefazione: “Smisurata Eleonora, avvinghiata al fuso che è per lei la poesia, impazzita d’estremo, Eleonora-Aurora «dalle dita di prosa» squaderna «ardite acrobazie», osa «sillabe di vaticinio», maneggia con notevole maestria «questa lingua che vaga / pronunciando il suo infinito» sotto un cielo torvo, «sciame malato di sussurri» nello spazio pagano puntellato di perdite e rovine”.
Qual è il ricordo legato alla tua prima poesia?
È un ricordo legato all’apprendimento dell’alfabeto e alla scrittura delle prime parole: quando mio padre mi regalò un abbecedario a cinque anni e mi insegnò i fondamenti della lingua italiana, le prime cose che scrissi furono una decina di poesie da bambina, e non saprei spiegare il perché: semplicemente mi è sembrato da sempre naturale farlo.
Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
Per la mia formazione sono stati fondamentali diversi poeti e narratori: per i primi cito Montale, i crepuscolari, alcuni degli ermetici (Quasimodo su tutti), Saba, Campana, Sbarbaro, Luzi, Gatto, Sereni, il Pavese di Lavorare stanca, Giudici, Pagliarani, Caproni, De Angelis, Fiori, Carifi, Sicari. Per quanto riguarda la poesia straniera, invece, l’area portoghese e lusofona su tutte (da Pessoa a Machado a De Andrade passando per Borges e de Moraes). Per la narrativa cito gli autori che più di tutti hanno inciso sulla mia vita e sul mio pensiero: Saramago, Huysmans, Musil, Tabucchi, Amado, Starnone, Piccolo (per La separazione del maschio), Sartre, Houellebecq, Murakami, Vassalli, Márquez. Un discorso a parte vale per i classici: L’Iliade, i lirici greci, Orazio, l’Eneide, Properzio e il Satyricon di Petronio sono i caposaldi della mia formazione spirituale oltre che accademica.
Qual è – nell’arco della giornata – il momento ideale per dedicarsi alla poesia?
Non esiste un momento ideale per dedicarsi alla poesia: ho un’idea pagana dell’ispirazione. È qualcosa di Altro che “respira su” di me, e per questo non è soggetta a nessuna dimensione spazio-temporale. È un respiro che viene allo stesso tempo da una divinità esteriore e da un’eco tutta interiore: potrebbe apparire una contraddizione, ma questa è la mia personale maniera di conciliare le teorie omeriche ed esiodee con quelle romantiche.
Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
La poesia è l’urgenza di perderci nel labirinto, la necessità di tradurre in versi le nostre mostruosità interiori ed esteriori: un tentativo di conversione dell’oscuro in bellezza, un trascinare fuori dalle tenebre infernali quel cono di luce che fin dal principio permette di osservare il mondo e il canto eterno che esso custodisce.
In che misura una poesia ‘somiglia’ al poeta che l’ha scritta?
La poesia è un figlio, come potrebbe non somigliarci e allo stesso tempo non essere noi? L’arte è il nostro modo di organizzare il vuoto, direbbe Lacan: questo, però, non vuol dire banalmente che la poesia esiste solo in rapporto con i fantasmi di chi la scrive (cioè che il verso sia solo la strutturazione in linguaggio del nostro inconscio), ma che proprio a partire da questa traduzione in significante della nostra interiorità si aprano spazi vuoti e sterminati di significato da riempire con tutte le possibili alterità che ci circondano, e che sono universalmente valide per tutti. Questo è lo scarto fondamentale che rende la poesia a mio giudizio valida, pronta per raggiungere le mete più lontane.
La forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica?
La forma è fondamentale, dal momento che non concepisco il mondo se non come fenomeno estetico: la forma poetica è lo strumento apollineo per dire l’essenziale, che è il dionisiaco, cioè l’assoluta presa di coscienza del terribile caos che costituisce il mondo e la tragedia dell’esistere, e che i poeti da secoli cantano.
Quando una poesia può dirsi compiuta?
Quando riesce a sublimare il reale, estraendo dall’oggetto il senso misterioso che esso nasconde, le infinite possibilità della sua forma, e quando sugella un patto emozionale con il lettore, che riconosce se stesso e contemporaneamente l’altro nel verso. La poesia si compie costruendo il suo dedalo dentro il quale smarrirsi diventa esperienza percettiva intensa e ambivalente.
La poesia può (e se può in che modo) restituire ‘purezza’ alla parola?
Può farlo quando restituisce alla parola quella sostanzialità che spesso viene dissimulata da ornamenti fini a se stessi. Ogni singola scelta in un verso va calibrata sul desiderio di bellezza e di verità che la poesia porta con sé, anche, e soprattutto, quando parla di distruzione e di ambiguità: la parola pura è la parola nuda.
Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Essere uno strumento solido di traduzione del sensibile, entrare nelle scuole e non essere solamente nozione ma azione: la poesia deve inquietare chi crede che la realtà sia quella che si vede, spingere il lettore a porsi delle domande, a sentire la presenza dell’invisibile nel visibile, del molteplice nell’uno, del trauma nel godimento.
Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo nel quale all’occorrenza trovi rifugio/conforto?
Di notte, lungo palazzi di nuvole
e un’ultima terrazza di chiaro di luna,
il sogno di viaggi proibiti,
un portone, sempre chiuso,
ora socchiuso, il pericolo di un’altra
vita, una poesia
di un’esistenza capovolta,
in cui la morte non ha falce:
è un’amante su zoccoli d’oro
che ti accarezza il seno
e srotola il tappeto di stelle
perché ti ci possa stendere sopra.
Luce ovunque, fino ai denti
della belva, fino alle unghie
dell’assassino e al pugnale lucente
che scrive l’ultima parola,
fuoco, poi con i tuoi occhi di nessuno
vedere senza mai una fine,
vedere chi eri.
(Cees Nooteboom, Notte)
Per concludere, ti invito a scegliere una tua poesia (dal libro “Temeraria gioia”) per salutare i nostri lettori.
Passino dal canale tutti quelli che devono
salvarsi, non importano le acque sanguigne
qui si naviga ancora ad oltranza
qui si revisionano i magnifici oblii, si pone
rimedio perfino alla stanchezza del piangere.