Nel 2009 veniva pubblicata l’opera poetica di Mario Scotti (1930-2008), Professore ordinario di Letteratura italiana all’Università “La Sapienza” di Roma, oltre che rinomato studioso dell’opera di Foscolo (tra le altre cose fu curatore, per Mondadori, dell’edizione critica delle “Grazie”). L’impegno della figlia Aureliana e di Maria Pacella, curatrici dell’opera per l’editore Avagliano, ha permesso a chi aveva già apprezzato l’impegno dello studioso e del filologo di conoscere anche lo stile del poeta.
Il critico Renato Aymone, in Poesia e memoria. Saggi sulla cultura del Novecento (Salerno, Edisud, 1978), scriveva: «La poesia è figlia della memoria e la memoria dell’assenza. Ricorda soltanto chi non possiede». La poesia di Mario Scotti è, indubbiamente, poesia del ricordo. Tuttavia, egli nega la sentenza iniziale: possiede, e tanto, come ogni vero poeta e studioso. La sua raccolta di vita-versi ne è la più grande, silenziosa, seppur così “sonante”, testimonianza. In questa apparente antitesi già si rivela una delle figure costanti della sua poesia: l’inevitabile svolgersi ossimorico della realtà dei sensi, compresenza dei contrari, coincidentia oppositorum, uno indivisibile che contiene in sé la verità del tutto. Ogni parola, comunicata attraverso la dispendiosa via del silenzio, si rivela per la sua costante “mutezza”, in quanto assenza di suono e, contemporaneamente, “mito”, ossia lògos, parola, pensiero, fantasia e, ancora, “mutevole” cambiamento, il volgersi delle cose verso l’orizzonte del sempre, che è tempo indefinito, forza peristaltica del movimento.
Tutta la sua poesia si gioca su questa drammatica dialettica dei contrasti, tra passato e presente, dentro e fuori, paese e città, spento e acceso, silenzio e rumore, età adulta e infantile, folla e solitudine, uno e molteplice. La consapevolezza, terribile, che qualcosa è andato perduto. Allora il sorriso non può che essere «angosciato», la febbre «senza fuoco», la pioggia, nel suo cadenzato rincorrere l’asfalto e la natura dolente, come il grido, è «muta», la casa «deserta», la parola «spenta», la felicità è felicità di «scivolare sulle cose». Per questo, ha inizio una totale immersione nel passato, alla ricerca del nodo da sciogliere, del momento cruciale, il momento in cui qualcosa si è incrinato. Scotti lo percuote, ci rimbalza contro, talvolta lo perde, per poi recuperarlo, attraverso l’onda di sogni che gli riconsegna le chiavi del presente. Il passato riaffiora sotto le spoglie di «nebbia» e resta, inevitabilmente, «perduto». La continua battaglia contro il recupero dolente del tempo perduto, delle albe trascorse, lo porta alla mesta consapevolezza dell’impossibilità di riportarlo completamente in vita e che l’unica realtà possibile è l’inafferrabilità del tempo presente, dello spazio del «quieora». Anche il moto è illuso e le vicende, gli affetti, tutto ciò che concretamente compone e conforma la materia dei nostri giorni, è fenomenologia illusoria. La sola salvezza è, allora, tornare all’immobile essenza, alla saggezza, all’imperturbabilità.
Qui è davvero possibile avvertire la presenza del pensiero senecano, o più generalmente stoico, per cui la felicità è una non-ricerca, un’attesa senza illusioni e aspirazioni, un accadimento, un vivere sapiente nella potente infinità dell’istante ma, soprattutto, un’adesione consapevole al proprio destino, che è il flusso naturale delle cose, il naturale compiersi delle cose del mondo nell’unico modo possibile in cui esse possano mai accadere. È quest’attesa di felicità, che vince il suono grigio della rimembranza e la prigionia delle foglie morte, a costituire quell’ «oro del grano», quella luce che ogni verso, seppure nella sua apparente persuasione di sconfitta, porta irrimediabilmente con sé. Qualcosa, infatti, brilla ancora: il colore giallo – un po’ come la presenza “azzurra” montaliana – annuncia il profilarsi di un orizzonte dove non esistono più silenzi muti («Se rifiorisse il canto…»). Anche quando il poeta affida l’ultima disperata possibilità di verità e di conforto a chi ha già oltrepassato la linea dell’Acheronte («il vento sperde le parole» e «le labbra» sono «dei morti») è ai vivi che Scotti intona il suo splendido canto di speranza, nella convinzione che la felicità esiste ed ha a che fare con la luce, con gli inizi e con la perfezione delle albe, con la purezza.
Suggeriamo di seguito, dalla raccolta Poesie, una prosa poetica scritta in un momento di grazia.
Ritornare a guarda le cose del mondo
Ritornare a guardare le cose del mondo con lo stesso ingenuo abbandono dei diciassette anni, quando si sapeva parlare con i cieli svarianti e il mare multiforme infinito, e poi dileguare per sempre cullato dalla dolcezza di quello stupore. La bella cattedrale romanica, incomprensibile linguaggio dei secoli pieni di passione e di fede: il silenzio della strada nella luce velata di una mattina autunnale di maggio, con un presagio, con un presagio triste di consunzione allargatosi improvviso nel cuore della lieta stagione. Una ragazza bionda, dalle labbra sottili e pallide, dagli occhi chiari: un altro mistero, sfuggente, destinato a restare come simbolo dell’amore capriccioso e triste, ma simbolo non astratto, emblema di pensiero che ghirigora inutilmente ozioso, bensì presenza inquieta nel sangue, speranza di un bene irrealizzabile, delirio della fantasia e dei sensi. Dio era nei voli di gabbiani e nella musica: un oltre, a cui si confondeva la giovane violinista russa, vestita di velluto nero, una nitida lastra tombale su cui un nome amato brillava d’oro, già distaccato, già lontano, caduto fuori di noi, ad un tratto inavvertitamente. E sempre maggio e maggio e maggio con le resine appiccicate alla pelle e i petali grandi e freschi sugli occhi. Giardini solitari, fontane chiare, chiese deserte: un odore di gigli, stanco, estenuato. Cieli troppo chiari, abbandonati sui finestroni azzurri e rosa, come una donna fra le braccia dell’amante. I morti sotto le arcate, ove l’ombra s’addensava e non si lasciava fugare nemmeno dall’irrompere del sole, si consumavano in uno sterile desiderio di vita. Volevano rientrare nel tempo; chiamavano e chiamavano dalle tombe di marmo luminoso, ove erano effigiati giovani e pensosi; bussavano alla porta della memoria per chiedere carità di un po’ di vita. Solo i morti amanti, i vecchi sposi, i piccoli fanciulli se ne stavano paghi nella zona di riposo loro assegnata e guardavano stupiti e distaccati il mondo. Alle loro tombe non si addicevano le lampade e i fiori. Qualche petalo appassito, portato per caso dal vento, una farfalla stanca del suo volo impazzito, una giovane donna in preghiera: dolce compagnia del tempo e del mondo, a chi passeggia ormai lieve sull’altra sponda. Dalla felicità luminosa di un’alba, col mare abbrividente appena e i monti ancora nell’ombra, azzurri e verdi, sorgeva la bellezza di donna. La regina antica, dinanzi a cui si sentiva il divino più che nelle chiese, la Venere greca, ci insegnava con rapimento di ogni nostra fibra che la bellezza è pura, lontana dal desiderio, ignara di lacerazioni e di affanni. Luminoso fiore, dalle corolle di rugiada e dal petalo di cielo, ideale nutrito di tutti i sogni umani bruciati nell’entusiasmo creatore degli dei. E non ridente, ma pensosa e lontana, dall’ineffabile grazia prigioniera delle labbra come di una breve chiostra di monti le stelle.