«Se davvero fossimo tutti/ pensieri che qualcuno pensa/ sogni che qualcuno sogna/ come scrive il poeta/ dell’inquietudine/ allora lui vivrebbe ancora/ sognato da me ogni notte/ amato dell’amore più forte/ pensato in ogni mio pensiero». Versi di Francesca Del Moro (nella foto di Dino Ignani), scelti per segnalare la lettura di “L”, nuovo volume pubblicato dalle raffinate edizioni “gattomerlino” di Piera Mattei. “Leggere questo libro è come ritrovarsi insieme all’autrice a scavare un abisso di luce e tenebra. Francesca del Moro, dopo l’esperienza devastante testimoniata con la silloge “Ex madre” (Arcipelago itaca, 2022), trova ora la forza (o la necessità) di cercare una nuova origine tra le macerie di un mondo che non esiste più. Di raccontare l’esperienza dell’annichilimento ma anche la caparbietà di chi vuole salvare dall’oblio i ricordi migliori. Intense. Commoventi. Travolgenti. In ognuna di queste centotrenta poesie si raggiungono profondità sconcertanti, grazie a una sapiente commissione di delicatezza e schiettezza”, scrive (come meglio non si potrebbe) Nerio Vespertin, nella postfazione. Leggendo “prendiamo” un po’ del “suo” terrore, «ne passo/ un pochino a tutti, giusto/ un pezzetto, che nessuno/ se lo merita intero». Sentiamo coesistere, (stridere), addentro il desiderio pulsante di restaurare la realtà, i “temi” dell’autocombustione («è sempre qui a mancare/ nella luce il suo viso/ ritorna violentissimo») e dell’autorigenerazione («Avanzerò a viso duro/ prenderò forza dall’amore/ restituirò i colpi/ a uno a uno»). Francesca Del Moro parla «la lingua dell’indicibile». Memorabili parole “amare”, parole “millimetriche” che risuonano e risucchiano, “urgenze” a ridosso del silenzio, parole «come via di fuga», parole piene, parole dentro le quali versarsi, svuotarsi («Spezzetto il male/ nella scrittura/ col gesto anziano/ del pane che conforta/ a fine giornata»). Linguaggio «nuovo», autentica “poiesis”: creazione, forza “strutturante”, luogo di ogni dialogo, «sento il suo passo/ fatto d’aria, tra le nostre/ parole la sua voce/ il suo viso/ in un abbaglio / di sole».
Con un tuo verso, “Nessuno mi vedrà più intera”, per chiederti: cosa può la poesia, la poesia è un destino?
La poesia è una forma espressiva come le altre, non le riconosco quella sorta di sacralità e onnipotenza che spesso le viene attribuita, o dai pochi che la amano o da chi se ne allontana per una sorta di timore reverenziale. Scrivere una poesia per me non è diverso da preparare una torta: è un modo per esercitare la cura e la creatività, per realizzare qualcosa di buono. Il che ha un grandissimo valore. “Qualsiasi fine estraneo all’opera è la fine dell’opera”, come sostiene Marina Cvetaeva: occorre fare il proprio percorso, portare avanti il lavoro che vogliamo sui nostri versi, senza condizionamenti, senza piegarsi alla volontà di compiacere lettori o addetti ai lavori, fare in modo che il nostro progredire nella direzione liberamente scelta abbia la meglio su quanto ci aspettiamo di ottenere. Consideriamo l’attenzione degli altri e i riconoscimenti come qualcosa di benvenuto senza lasciare che ci porti a stravolgere le nostre intenzioni. Solo con questo tipo di libertà, la poesia, come ogni altra forma d’arte, acquista uno straordinario potere, almeno per noi stessi: può davvero riattaccarci alla vita quando tutto sembra perduto. Ammetto di usare malvolentieri la parola “destino”: non ho idea della misura in cui quanto ci accade o quanto noi stessi facciamo volutamente accadere sia inevitabile, predeterminato. Vero è che mi sono sentita muovere verso la poesia istintivamente, naturalmente, come se non fossi io a sceglierla, ma venissi scelta. La poesia è oggi per me, insieme all’amore, l’oro per riempire le fratture (per tornare al verso da cui hai scelto di partire). L’immagine si richiama all’antica tecnica del kintsugi, nata verso la fine del 1400 in Giappone, che consiste nel riparare tazze in ceramica inserendo della polvere d’oro nelle crepe. Quando è morto mio figlio, quattro anni fa, sono andata letteralmente in pezzi, e da allora faticosamente cerco di rimettermi insieme. Le ferite saranno sempre visibili, e mi piace pensare di poterle, anche attraverso la scrittura, mutare in bellezza.
Quanto conta l’altro nella scrittura di una poesia?
Per quanto mi riguarda moltissimo: nella scrittura come nella vita il rapporto con gli altri per me è sempre stato una priorità. Ho sempre avuto un gran bisogno di dare e di ricevere amore, di ascoltare le storie delle altre persone, ho sempre provato un forte desiderio di intimità emotiva e fisica. Nel percorso psicologico e spirituale che ho intrapreso per curare la ferita, mi è stato detto che “ciò che devo imparare in questa vita è ad amare senza attaccamento”. Questo spiegherebbe le prove che ho dovuto affrontare, dalle relazioni dolorosamente interrotte fino alla perdita più grande. Anna Maria Curci una volta osservò: “Anche quando apparentemente parli d’altro, scrivi sempre poesie d’amore”. Ed è vero: la mia scrittura è sempre un ponte gettato verso le persone, comprese quelle che non riesco a raggiungere in altro modo, è una dichiarazione d’amore, un tributo di ammirazione e riconoscenza per le figure storiche e letterarie che mi hanno ispirata, un moto di empatia e tenerezza verso chi si trova alle prese con le difficoltà della vita. Oggi è soprattutto un tentativo di riprendere un dialogo con mio figlio, un modo per raccontare l’amore felice che il mio compagno mi ha fatto conoscere per la prima volta. L’altro è anche chi mi aiuta a evolvere e ad avere fiducia nel mio lavoro. Enzo Campi, in primis: è stato grazie all’incontro con lui che ho cominciato a muovere i primi timidi passi nell’ambiente poetico, quello autentico, quello fatto di persone impegnate a studiare, valorizzare e far circolare la parola. Non nomino nessun altro, perché l’elenco sarebbe infinito e rischierei sicuramente di dimenticare qualcuno. Quanto a me, cerco di fare lo stesso promuovendo e valorizzando la scrittura altrui. È per questo che continuo a lavorare nello staff di Bologna in Lettere e ogni primo lunedì del mese organizzo insieme a Nerio Vespertin degli incontri poetico-conviviali battezzati ironicamente “Anche poeta”.
“Il lirismo delle immagini poetiche non è filosoficamente importante se non quando raggiunge, nel suo funzionamento, la stessa esattezza che hanno nella loro sfera di azione le matematiche. Il poeta deve, prima di chiunque altro, provare ciò che dice”, qual è il tuo pensiero in proposito? (*il virgolettato è di Salvador Dalí, “Rompere le regole”, ilSaggiatore, 2024).
Sulle prime il parallelo con le matematiche mi ha un po’ spiazzata ma, se bene interpreto il senso di questa frase senza contestualizzarla, posso dirmi d’accordo. Una poesia lirica che intenda dire qualcosa sull’umano riesce nel suo intento quando si avvale degli strumenti della scrittura per comunicare un vissuto che sia il più possibile aderente a quanto sperimentato. Lavorando in questo senso, mi rendo conto dello sforzo di cercare le parole “esatte”, come se esistessero e fossero le uniche in grado di rappresentare la soluzione al problema espressivo. La poesia porta con sé anche dei calcoli numerici, che hanno a che fare con la misura del verso, e arrivare al risultato che si cerca è un po’ come quando si risolvono complicate equazioni e alla fine “tutto torna”.
scelti per voi
La soglia è nella casa
invisibile, moltiplicata.
È un lago verticale
una tenda d’aria.
Lui è sempre al di là
e a volte
quando gli tengo la mano
la mia mano
la oltrepassa.
*
Tu scavi, dice
le tremano gli occhi
alla mia dismisura.
Tu scavi e rimesti
dentro la ferita.
Io lo tengo qui
anche
nella carne che brucia
il sangue sulle dita.
Portonovo
Guardo l’aura dello scoglio
che chiamano vela.
Il fuoco che ho acceso
sotto l’albero di Dioniso
ritornerà lacrime.
Lei apre e chiude le braccia
per staccarmi il male.
—
Francesca Del Moro è nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna. È laureata in lingue e dottore di ricerca in Scienza della traduzione. Ha pubblicato i libri di poesia Fuori tempo (Giraldi, 2005), Non a sua immagine (Giraldi, 2007), Quella che resta (Giraldi, 2008), Gabbiani ipotetici (Cicorivolta, 2013), Le conseguenze della musica (Cicorivolta, 2014), Gli obbedienti (Cicorivolta, 2016), Una piccolissima morte (edizionifolli, 2017, ripubblicato nel 2018 come ebook nella collana Versante Ripido / LaRecherche), La statura della palma. Canti di martiri antiche (Cofine, 2019), Ex madre (Arcipelago Itaca, 2022), Questo posto buono (edizionifolli, 2023), Sovraliminale (Progetto Cultura, 2023) e L (Gattomerlino, 2024). Ha curato e tradotto numerosi volumi di saggistica e narrativa e ha pubblicato una traduzione isometrica delle Fleurs du Mal di Baudelaire (Le Cáriti, 2010) e la traduzione dei Derniers Vers di Jules Laforgue (Marco Saya, 2020). Fa parte del collettivo Arts Factory e del Club Pavese+Tenco insieme a Federica Gonnelli e alla fondatrice Adriana M. Soldini, con le quali ha contribuito come traduttrice e performer ai cataloghi, alle opere di videoarte e alle performance di presentazione delle mostre collettive di arte contemporanea Scorporo (2011), Into the Darkness (2012) e Look at Me! (2013), nonché allo spettacolo Rose gialle in una coppa nera dedicato a Cesare Pavese e Luigi Tenco (2018). Propone performance di musica e poesia insieme alle Memorie dal SottoSuono, con cui ha inciso due brani inclusi nelle compilation Leitmotiv 13 (2013) e Leitmotiv 14 (2014) prodotte da Fuzz Studio e ha partecipato alla realizzazione del primo album omonimo (2016). Nel 2013 ha pubblicato la biografia della rock band Placebo La rosa e la corda. Placebo 20 Years, edita da Sound and Vision. Dal 2007 organizza eventi in collaborazione con varie associazioni bolognesi e fa parte del comitato organizzativo del festival multidisciplinare Bologna in Lettere.