Gerardo Masuccio, “Fin qui visse un uomo”, testimonianza in versi sull’ingiustizia di essere.

“La poesia è come una sorgente. Per bere bisogna inginocchiarsi e sporgersi”, un pensiero di Cyprian Kamil Norwid irrompe leggendo “Fin qui visse un uomo”, opera prima di Gerardo Masuccio, edita da “Interno Poesia”. Leggendo ci si china alle radici, ci si allunga, coraggiosamente, sull’insidia del mondo. Alla cifra precaria dell’uomo, all’assenza, alla provvisorietà, al silenzio sleale della morte, al dubbio, all’inquietudine, all’enigma di ciò che resiste, all’altrove da scontare, alla polvere infida, all’inanimato che ci sopravvive, all’ignoto, alla morsa del tempo, alla solitudine, l’unico possibile rimedio è (e rimane) l’amore, «che – senza l’amore – / intanto è il nulla». L’amore che il nulla «lo attenua d’immenso». L’amore che illumina, «dove semina pianto la vita, / lì selvatica cresce una gioia». L’amore che «redime», che conosce la crepa e l’attenua. L’amore (ovunque si volga lo sguardo, e nonostante “tutto”) è la cifra lampante di questi versi. Versi, come scrive Giovanna Rosadini nella prefazione, ad alto tasso riflessivo-filosofico. 

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?

Mi ricordo di aver iniziato presto a emulare i classici: un esercizio di stile che lentamente mi ha portato a padroneggiare l’endecasillabo. La lettura della grande poesia stimolava in me una ricerca continua. Verso i diciotto anni ho capito che avrei dedicato la mia vita a leggere e a curare i libri di altri autori, come editor. Tengo però a sottolineare che non ho mai coltivato la passione per i libri come fosse una ricreazione. Il mio rapporto con le parole è stato, fin da allora, di autentico amore. L’amore magnifica l’uomo, ma è intessuto di dolori, di preoccupazioni, di malinconie. Così la scrittura. Se potessi, eviterei di scrivere.  L’ispirazione poetica e il labor limae, per quanto ne avverta la necessità, sono momenti di profondo dolore. Una sfida con sé che, come fa sempre l’amore, indebolisce e sfibra.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?

Tra i poeti, Petrarca e Tasso. Ma ci sono arrivato tardi, già negli anni del liceo. Alle medie ho imparato a memoria “Dei sepolcri” e “Allegria di naufragi”; poi a Foscolo e Ungaretti si sono affiancati Quasimodo e Penna. Poi Montale. Solo verso i vent’anni ho conosciuto Sereni e Luzi. Lezioni di poesia sublimi, autori impareggiabili. E poi i poeti stranieri: Mandel’štam, Sachs, Auden, Miłosz, Walcott, Tranströmer, Blandiana. Una lettura disordinata e profonda, un corpo a corpo con i versi che, ogni volta, mi ha cambiato. Poi c’è la prosa, che resta preponderante nella mia libreria. Devo molto alla Deledda, a Bontempelli, a La Capria, a Calasso. Non continuo con gli stranieri, perché non basterebbero le righe: sopra tutti, Faulkner e Krasznahorkai.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?

Sbarbaro. È un poeta che mi ha folgorato e che rileggo in continuazione. Specie i versi di “Pianissimo”. Un uomo schivo, riservato, che ha interpretato il proprio tempo con lucidità. I suoi versi sono modernissimi. O forse, si dovrebbe dire, sono veri versi, perché la poesia, se è tale, si sublima ed evade dalle prigioni dello spazio e del tempo.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?

Il titolo del libro, “Fin qui visse un uomo”, è tratto proprio da una riflessione sulla poesia. Come i fiori, riposti ai margini di una strada, testimoniano che qualcuno non è vissuto oltre quel punto, che è morto lì – chissà chi, chissà quando, chissà per quale incidente – la poesia testimonia che un uomo è stato, che ha provato certi sentimenti, che si è posto certe domande e che, quasi sempre, non ha trovato le risposte ai propri dubbi. La poesia per me è una silenziosa protesta. Mi sono spinto nei territori della caducità, dove nulla ha senso né valore, e ho tentato di non piegarmi al nichilismo. Guardo negli occhi, con serenità, la vita insignificante e le sorrido. Perderò anch’io: nessuno vince nella vita; ma avrò lasciato un rapporto su di me. Una testimonianza sull’ingiustizia di essere.

Quando una poesia può dirsi compiuta?

Mai. La parola si avvicina alla verità umana, ma non può intercettarla davvero. È un asintoto che sfiora il mistero dell’essere e non lo rivela. Da ragazzino, colpito dalla sua poetica, scrissi una lettera a Strumia. E gli chiesi se mai sarei arrivato a leggere i miei versi con serenità. Se a quarant’anni o a sessanta, con la maturità, avrei smesso di superarmi tutti i giorni, di guardarmi alle spalle e riconoscermi sempre altro da me. Filippo mi rispose, con saggezza, che non sarebbe mai successo. È così. Un poeta, maturando, tende sempre più verso il proprio asintoto. E le distanze infinitesimali di ieri d’improvviso gli appaiono come abissi. Credo che l’arte resti sempre incompiuta, perché sempre incompiuta è la vita di un uomo.

“Questa morte che logora il petto / è ciò che mi resta / per vivermi oltre.”, con i tuoi versi per chiederti: cosa può la poesia contro il dolore? Resta, come già testimoniato da Leopardi, l’ultima illusione di salvezza per l’uomo?
Nulla, ahimè. Non può nulla. Penso alla vita come a un intervento chirurgico cui non si sopravvive mai. È un dato di fatto. Gli uomini in genere tendono ad affrontarlo lasciandosi anestetizzare. Le ideologie, le fedi, i sentimenti irrazionali, le carriere fini a se stesse, i passatempi sono tutti narcotizzanti contro il dolore. Un artista che si rispetti, invece, affronta l’intervento con lucidità. Resta sveglio e testimonia. La poesia, nel mio caso, è il rendiconto dell’operazione. Non attenua il dolore, ne è il consuntivo.

E, ancora, oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?

Credo che la poesia sia una testimonianza. È ciò che resta quando tutto viene dimenticato. Non riesco a pensare al verso se non come a un’incarnazione della vita: io sono i miei versi, o meglio, i miei versi sono quel tanto di me che spero mi sopravviva. Siccome la mia voce è flebile, ho deciso nella vita di mettermi al servizio dei libri degli altri. Cercandoli, curandoli, promuovendoli. La letteratura mi spinge sempre, all’improvviso, verso il centro di una verità.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

“… Pensare
cosa può essere – voi che fate

lamenti dal cuore delle città

sulle città senza cuore –

cosa può essere un uomo in un paese,

sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante

e dopo

dentro una polvere di archivi

nulla nessuno in nessun luogo mai.”

Questi versi di Sereni. Ha senso scrivere dopo che qualcuno ha toccato un simile apice? Non ne sono convinto.

 

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a scegliere una poesia dal tuo “Fin qui visse un uomo” (riportala gentilmente) e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

“Eppure nei recessi del pensiero
dove mi è ancora dato
di tradirmi,
l’impermanenza annoda le radici
a superfici incerte,
al provvisorio.

Il numero di chi non ha più voce
è ancora – inerte –
nella rubrica dei vivi,
la polvere insegue l’assenza
e nel cassetto dell’infanzia
trattengo un’ultima biglia.”

È l’ultima poesia del libro. Si tratta di una professione di incoerenza. Tutto il libro è una sfida sprezzante alla vita, ai suoi oggetti, alle sue declinazioni; un’esaltazione dell’impermanenza, dello slancio verso l’oltre, del distacco dall’essere. Ma intanto nel cassetto del mio comodino conservo una biglia della mia infanzia. E nella rubrica del telefono, non ho mai cancellato il numero dei miei morti.

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 31.05.2020, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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