Gianni Montieri e gli “Ampi margini” del “ritorno”.

I versi di Ampi margini raccontano di Sud, di adolescenza, di affetti, di cose che non si dimenticano, di morte, di infanzia, di posti in cui era vietato sognare. Sono testi che hanno a che fare con i ritorni: come si ritorna, come si riconosce il luogo, come si fa pace con i nostri passati. Poesie che tentano qualche domanda senza trovare risposta. Gianni Montieri porta a termine un lavoro e un viaggio, dalla periferia di Napoli a quella di San Paolo, passando da Milano, attraversando il muro di Berlino fino all’acqua di Venezia, e nel vagone prende posto il perdono e si conversa dell’aver cura di tutto, di ciò che è stato, di ciò che abbiamo imparato, di ciò che abbiamo perduto, di chi si ama, dei giorni a venire. “C’erano ampi margini, confini” apre un verso e indica la strada, il confine tra dolore e felicità è sottile, “come la linea di candele accese / rosario che divide la vita dalla morte”.

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Ampi margini”?
Ampi margini è nato da tante scintille, residui, scorie, scarti; tra questi, due bagliori: la memoria e la visione del futuro, senza la prima non esiste lo sguardo buttato in avanti, almeno non per me. Nella nota che ho scritto alla fine del libro spiego: è un che racconta il come si ritorna, e il ritorno è fatto di tante cose, per prima la partenza, il ritorno è anche perdono, è anche conoscenza maggiore, è anche la misura del tempo che passa, è anche la somma di quello che abbiamo imparato e delle minuscole particelle di cui siamo fatti.

La poesia può giovare a comprendere (specie in questo tempo odierno, buio e refrattario all’ascolto) “la cadenza regolare dei misteri recitati”?
La poesia può aiutare in alcuni momenti a stare in questo strano tempo nostro, la cadenza dei misteri recitati, che tu citi, mi colpisce da non religioso, perché in quella regolarità che ho visto scandire molte volte (e in occasioni diverse) ho ammirato (e invidiato) il conforto che stava trovando chi pregava. Mi piacerebbe che la poesia regalasse ogni tanto quel tipo di conforto, che è comunque ben distante dal consolatorio. Ho qualche dubbio che la poesia possa aiutare a comprendere, se riesce, però, può porci le domande in modo migliore.

In che modo (tua) la vita diventa linguaggio?
Nel momento in cui un’esperienza vissuta entra in un testo poetico è già linguaggio, e quel linguaggio diventa un noi, non riguarda più soltanto te. Mi interessa che le parole che entrano nei testi siano quelle del linguaggio comune ma che possano sembrare nuove a seconda del suono, di come siano disposte. La vita è linguaggio? Forse sì. Siamo una grammatica in movimento, scrivere è un modo di capirla, di toglierci di dosso gli aggettivi e la polvere.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
Sì, anche se poi, se facciamo un buon lavoro, quell’invalicabile deve svanire, come il confine, come la linea che separa la vita dalla morte.

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?
Incide tanto, ma forma e contenuto devono viaggiare insieme ed essere disposte a fare un passo indietro per favorire l’altra. Mi spiego: se una sillaba, che concederebbe l’endecasillabo perfetto, va a intaccare la forza di una data parola è un dovere rinunciarvi. Al contrario, se ci piace una parola che rovina un settenario è nostro compito cercarne un’altra che rispetti il senso e la metrica. La verità non esiste, esiste il verosimile, la capacità di essere credibili. Tutto sta nel tentare, sbagliare, tentare di nuovo, e così via.

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?
Non prendere in giro nessuno, non provarci, non funziona. Mai.

Pensando ai tuoi versi “coltiviamo speranze in curva/ non avendo mestiere per i rettilinei/ nessuna competenza/ sui tratti autostradali.”, ti chiedo: qual è stato, anche da lettore, l’insegnamento sostanziale ricevuto (ad oggi) dalla poesia?
Quello di saper accelerare, di non sprecare tempo in qualche virtuosismo inutile o in un esperimento fine a sé stesso. Mi ha insegnato ad arrivare rapidamente al punto, a non indugiare e a lasciare spazio al lettore, al suo immaginario. Si parte da un noi quando si scrive e, dopo, bisogna andarsene per lasciare spazio a un altro noi, quello di chi legge.

Riporteresti (spiegandoci le ragioni) una poesia (di altri autori) nella quale sei solito trovare “rifugio”?
Io sono soprattutto un gran lettore, perciò le poesie sarebbero davvero molte, ne metterò qui una di Milo De Angelis che rileggo spesso e che, sempre, mi porta in luoghi vicini e lontani, apre cassetti della memoria e mi fa tremare un po’; è tratta da Somiglianze.

“Non importava nelle vie, sapere
cosa c’era dietro le case
e i vecchi dicevano: se usi qualcosa,
se lo usi bene,
puoi anche non capire cos’è.”

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una poesia dal tuo libro “Ampi margini” – (riportala gentilmente) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

La poesia è questa:

Adesso mi piace venire al cimitero
da te, mettermi di spalle alla tomba
guardare quello che tu vedi
distese di lapidi e di cappelle
squarci di strade che si intersecano
i tralicci dell’Enel, più avanti
sullo sfondo dev’essere la casa
di zio Antonio, due curve dell’Asse
Mediano se mi volto a destra
il vento di dicembre sulla sciarpa blu
stai al terzo piano e devono piacerti
i cavalli in basso oltre la strada
a sinistra la collina, forse i Camaldoli
tu vedi di più, io lo so che il tuo sguardo
arriva fino alla costa, taglia in due
la Domitiana, si spinge e tiene
insieme tutti i nostri passati.

Riporto questa poesia che chiude il secondo capitolo del libro Con mio padre, la sua origine ha sorpreso anche me. Prima della morte di mio padre non ho mai amato il cimitero, sono andato solo sulle tombe di qualche scrittrice o scrittore amato, ora non vedo l’ora di andarci, perché le ceneri di mio padre stanno in alto, al terzo piano di una palazzina e da lì lo sguardo si perde per chilometri. La Vigilia di Natale dello scorso anno, mentre ero lassù, ho provato a lasciar andare lo sguardo come se partisse da quelle ceneri, poi ho cominciato a digitare su Telegram il testo (non mi era mai capitato), l’ho mandato ad Anna, mia moglie e a mia sorella, così com’era, d’istinto. Dopo l’ho ricopiato sul taccuino e ho cominciato a lavorarci con calma, in più momenti, come faccio sempre, ma la struttura non è cambiata di molto e non ho avuto dubbi sul fatto che dovesse essere questa la poesia di chiusura del libro.

*
Gianni Montieri (in copertina nella foto di Laila Pozzo) scrive per Doppiozero, minima&moralia, Huffpost e Il Manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici e Il Napolista. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022 e) Le cose imperfette, editi da Liberaria. A ottobre 2021 è uscito Andrés Iniesta, come una danza (66thand2nd). È coordinatore artistico del Festival dei Matti. Vive a Venezia.

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