Giovanna Cristina Vivinetto, un “Dolore minimo”, «acquattato tra le parole», per la «riscrittura di un destino».

«Amatissima figlia/ ritorno a te per farmi madre/ di un’altra sconosciuta,/ amatissima me/ che mi è nata dentro quando/ tutto il resto poteva mancare.». Versi facondi, (fecondi), scelti dal libro “Dolore minimo”, edizioni “Interlinea”, opera prima della siracusana Giovanna Cristina Vivinetto (vincitrice del Premio Internazionale “Lord Byron Porto Venere Golfo dei Poeti”, finalista al Premio Internazionale di Poesia L. Sedar Senghor, sezione Poesia Edita). Poesia, «muto richiamo/ alla vera natura delle cose.». Poesia, «Sulle cime/ dei giorni oltre le possibilità/ dove si crede mai nulla/ succeda, eppure un mistero/ accade.». Poesia, «venuta/ al mondo con la vivida certezza/ di splendere sola nella diversità.». Poesia, «per ridiventare minuscola/ materia di un corpo universale.». Poesia, «dilemmi […] annidati ben oltre la carne.». Poesia, «dolore minimo/ acquattato tra le parole.». Poesia nuda come la fatica, scrive Dacia Maraini, «di essere madre di se stessa». Poesia come «riscrittura di un destino», aggiunge Alessandro Fo.

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?

Il ricordo che ho legato alle mie prime poesie, quelle che poi sarebbero confluite in Dolore minimo, è una sensazione di grande liberazione. Per anni, infatti, mi ero imposta, forse per pudore o per timore, di non parlare della mia storia personale, considerata troppo intima e privata. Quando finalmente ci sono riuscita è stato come accorgersi per la prima volta che era quella la mia dimensione, quella l’unica forma in cui mi sarei potuta esprimere in maniera ottimale e, al tempo stesso, accorgermi che la storia che andavo componendo non riguardava soltanto me ma, in fondo, tutti quanti. L’approccio alla poesia allora è stato come tornare a casa dopo un lungo viaggio.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?

Ricollegandomi alla prima domanda e sulle suggestioni dovute alla recente rilettura, direi che non bisogna dimenticare l’impatto conoscitivo, civile e terapeutico della “poesia del dolore e della morte” contenuta in Jucci, capolavoro di Franco Buffoni. È il dolore, infatti, la consapevolezza di essere rimasti intatti nonostante un grave dramma, a permetterci di accettarci per ciò che siamo, con tutti i nostri limiti e le nostre luminose incertezze. Ed ecco i versi che ognuno di noi dovrebbe incorniciare nella propria casa: “Solo dopo la tua morte imparai / che non ci sono ragioni, / non si nasce né si diventa: / Si è. Con la verità infilata dentro / come un orecchino.”.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

Ho sul comodino, quasi come Bibbia da consultare al bisogno, il libro contenente tutte le poesie della grandiosa poetessa polacca Wislawa Szymborska. Quando sento il bisogno di leggere della vera poesia, pur nella semplicità che solo la vera poesia concede, o semplicemente quando ho bisogno di tirarmi su il morale, apro una pagina a caso lasciandomi travolgere dalla bellezza, e dalla sconcertante verità, dei suoi versi. Mi sono venuti in mente adesso questi versi: “C’è chi meglio di altri realizza la sua vita. / È tutto in ordine dentro e attorno a lui. / Per ogni cosa ha metodi e risposte. // A volte un po’ lo invidio / – per fortuna mi passa.”

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?

A mio avviso, poesia significa narrazione compiuta di una storia. Non amo, ad esempio, le raccolte che paiono più antologie che volumi organici e unitari. Quelle, ad esempio, e sono la gran parte, dove le poesie sono sconnesse tra loro e il filo del discorso è confuso, attorcigliato, non rende giustizia al valore profondo della poesia in sé. Per me poesia significa comunicare un messaggio, veicolare un significato profondo in cui tutti possono rispecchiarsi e da cui si può imparare sempre qualcosa. Bisognerebbe tornare alle origini del valore della poesia, dove poesia era prima di tutto trasmissione di un insegnamento e non, come avviene oggi, prova di bravura arzigogolata, dalla bella facciata ma quasi sempre vuota, che comunica il nulla.

Quando una poesia può dirsi compiuta?

Una poesia è compiuta quando non si avverte più l’esigenza di correggerla, modificarla o, addirittura, stracciarla nella sua interezza. Quando la si lascia vivere, conferendole l’autonomia della pagina scritta.

La poesia necessita più di ascolto o di essere ascoltata?

La poesia, oggi soprattutto, non necessita urgentemente soltanto di essere ascoltata ma innanzitutto di essere compresa. Di avere, cioè, un pubblico in grado di capirla e farla propria, possederla, riprodurla. E con questa risposta mi ricollego alla prossima domanda.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?

Per essere compresa da tutti, allora, oggi più che mai la poesia deve avere il coraggio di evolversi, di sbarazzarsi di un’immagine asfittica, usurata, comprensibile solo da pochi addetti. È un caso che le librerie dedichino alla poesia (quelle rare volte in cui ancora oggi è presente uno scaffale dedicato alla poesia), uno spazio angusto, lontano dalle vetrine, relegato ad ambienti di passaggio? No, non è un caso. Oggi la poesia deve adottare delle forme di espressione trasversali, adeguarsi alla modernità, essere insomma intersezionale. Abbandonare il pregiudizio di una stoltezza collettiva che la vuole materia di un’élite culturale non meglio identificata e aprirsi a nuovi modelli di comunicazione, anche ai così tanto demonizzati (forse perché non li si sa usare) social.

La parola poetica per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?

Assolutamente sì: siamo figli del nostro secolo, direbbe la Szymborska.


Per concludere, ti invito a parlaci (ancorta) del tuo libro “Dolore Minimo”, del modo in cui hai scelto di narrare in versi la tua storia (‘sbarazzarsi delle “emme” sui documenti/ e arrotondare le vocali finali.’), di quello che ha rappresentato intimamente ‘camminare’ nella e con la scrittura fino a darti alla luce, fino a dare alla luce la tua “vera Natura”.

Dolore minimo, mia opera prima pubblicata dall’editore Interlinea lo scorso maggio all’interno della collana di poesia “Lyra Giovani”, promossa e diretta dal poeta Franco Buffoni, è il primo libro in Italia ad affrontare in versi (mi piace, a tal riguardo, chiamarlo “romanzo in versi”, proprio per sottolineare l’aspetto narrativo e l’unitarietà della storia raccontata) la transessualità e la disforia di genere. È nato da un lungo processo terapeutico di accettazione e di acquisizione della consapevolezza di quello che si è senza infingimenti, timori e paura di essere discriminati. È un diario sulla rinascita e sul valore che un “dolore minimo” può avere nella pacificazione con se stessi.

Per concludere, ti invito a scegliere (riportandole) tre poesie dal tuo libro salutare i nostri lettori.

Ecco tre poesie tratte da Dolore minimo (Interlinea, 2018 – prefazione di Dacia Maraini, postfazione di Alessandro Fo):

Quando nacqui mia madre
mi fece un dono antichissimo,
il dono dell’indovino Tiresia:
mutare sesso una volta nella vita.

Già dal primo vagito comprese
che il mio crescere sarebbe stato
un ribelle scollarsi dalla carne,
una lotta fratricida tra spirito
e pelle. Un annichilimento.

Così mi diede i suoi vestiti,
le sue scarpe, i suoi rossetti;
mi disse: «prendi, figlio mio,
diventa ciò che sei
se ciò che sei non sei potuto essere».

Divenni indovina, un’altra Tiresia.
Praticai l’arte della veggenza,
mi feci maga, strega, donna
e mi arresi al bisbiglio del corpo
– cedetti alla sua femminea seduzione.
Fu allora che mia madre
si perpetuò in me, mi rese
figlia cadetta del mio tempo,
in cui si può vivere bene a patto
che si vaghi in tondo, ciechi
– che si celi, proprio come Tiresia,
un mistero che non si può dire.

 

*

Che nome scegli papà-giudice,
che nome mi dai? Mi hai convocata
in tribunale per dirmi che c’eri
quasi – che era arrivato il momento.
Papà-giudice, io le doglie te le sento.
Hai le mani gonfie sulle mie carte,
la testa – che male – piena di formule
e articoli e decreti legge che hai
scelto per me, preparato per battezzarmi.
Sai, papà-giudice, leggo un nome
sulle tue dita. Sento la tua carne
aprirsi e tirarmi fuori nuova
nuova. Che nome mi dai?

Ma non è tutto, mi dici. Serve
cancellare l’intera mia storia,
questi vent’anni bisogna correggere,
sbarazzarsi delle “emme” sui documenti
e arrotondare le vocali finali.
Papà-giudice – meno male – tu sai rimediare
ed io perciò ti appartengo dal giorno
in cui hai deciso di aggiustarmi.

Ho iniziato ad esistere in un’aula
di tribunale. Niente culle, niente
cordoni da recidere e colpi secchi
al centro della schiena per vedere
se si respira, niente vagiti, niente
corridoi dove smaltire l’ansia,
niente verbi commossi, niente
mani strette e auguri di figli maschi.
Solo la tua voce, papà-giudice,
che mi chiama davvero
per la prima volta – finalmente.

Così credo che il suono primordiale
di ogni nascita sia una voce che chiama
un nome – è il pronunciamento
che rende vivi, reali.

Allora, che nome hai scelto, papà?

 

*

 

Non ho figli da dare – non potrò.
Non ho tube che si gonfiano
né ovuli da spargere per il mondo.
Non ho vulve da tenere fra due
dita – da schiudere tra le valve
delle gambe non ho niente.
Ma lui mi sfiora, continua a toccarmi,
a perlustrare con le dita questo
corpo imploso, risucchiato tutto
all’interno – fuggito senza lasciare
tracce. E lui persiste a sfiorarmi
per trovare il punto che possa
dargli piacere. Che possa
consolarlo, farlo sentire uomo.
Non glielo dico, ma non c’è.
Eppure tutta questa sua goffa
illusione, quest’avventatezza
nel proiettarsi verso il dato certo
per un attimo mi restituisce
tutto ciò che mi manca – e al suo miracolo
questa sera mi faccio donna.
Completamente.

 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 4 Novembre 2018, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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