Giovanna Rosadini , “la poesia è il frutto di un’epifania”

Giovanna Rosadini (foto di Orlando Myxx)

Giovanna Rosadini (foto di Orlando Myxx)

Giovanna Rosadini, nata a Genova nel 1963, si è laureata in Lingue e Letterature Orientali all’Università di Ca’ Foscari di Venezia. Ha lavorato per la casa editrice Einaudi, come redattrice ed editor di poesia, fino al 2004, anno in cui è uscito, per lo stessa, Clinica dell’abbandono di Alda Merini,  da lei curato. Ha pubblicato la raccolta Il sistema limbico per le Edizioni di Atelier nel 2008, e altri testi poetici in riviste e antologie collettive. Nel 2010 è uscito Unità di risveglio, per la Collezione di Poesia Einaudi. Per lo stesso editore, nel 2012, ha curato Nuovi poeti italiani 6, antologia di voci poetiche femminili che ha suscitato un vivace dibattito. La sua più recente raccolta poetica, Il numero completo dei giorni, è stata pubblicata da Nino Aragno editore nel 2014. Un libro, quest’ultimo, che, come sottintende il titolo, segue il flusso delle Parashot, le suddivisioni settimanali del Testo, Torah. Dalla Genesi, all’Esodo, al Levitico, ai Numeri, al Deuteronomio, una testimonianza consacrata all’ebraismo. Un cammino di preghiera, lucente, sincero, coinvolto, lastricato da germogli di parole che come tralci “ci tengono ancorati alla storia / che si sta narrando”.

Quali i ricordi legati alla sua prima poesia?

Immagino la domanda si riferisca alla prima poesia scritta, anche perché della prima poesia letta non conservo memoria… Giovanissima adolescente, fui presa da uno spleen di fronte alla magnificenza di un tramonto sul mare, visto dall’affaccio di quella che è stata la finestra della mia camera di bambina e ragazza, nella grande casa che allora abitavamo, in collina a Nervi. Dal balcone di camera mia la vista spaziava dal promontorio di Portofino a levante fino a tutto il Golfo di Genova a ponente; in mezzo, l’ampia distesa del mare. Tradussi l’emozione del momento, legata al paesaggio e allo stato d’animo che comunicava, in versi, inaugurando un quaderno che mia mamma ha conservato per anni, e oggi è andato, credo, perso. Ricordo l’urgenza che mi prese, e, dopo, la soddisfazione di aver fermato e reso su carta il sentimento provato, una sorta di richiamo, di anelito, di nostalgia profonda per qualcosa di indefinibile, eppure tangibile e vivo. Solo molti anni dopo, mi resi conto di aver scritto una strofa eptastica di ottonari a rime alternate.

Quali i poeti dell’anima (per quali ragioni, con quali legami) e, più in generale, quali le letture significative per la sua formazione?

Inizierei senz’altro dalla tradizione italiana. Il dolce stil novo, tanto per cominciare, con la sua poetica della sublimazione del sentimento amoroso e del trobar leu; poi senz’altro Leopardi, il suo tradurre in una classica compostezza, nelle limpide immagini del suo vissuto recanatese, un sentimento del mondo complesso e disincantato; infine, la lezione di sensibilità novecentesca veicolata dalla poesia di Montale, mio conterraneo: i suoi luoghi e i suoi emblemi li sento profondamente miei. Lui è il poeta del secolo passato con cui trovo più corrispondenza, pur avendo amato l’asciutta sobrietà di Sereni e rimpiangendo la lezione di stile di Raboni, che ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare.  Fra i contemporanei, Milo De Angelis è stato un maestro, col suo esistenzialismo urbano e le feconde slogature della sua frase poetica; ho molto amato, anche, il primo Magrelli, dallo sguardo lucido e acuto. Poi ci sono le fratellanze di penna di oggi, molte e con cui ho scambi stimolanti e significativi, da Mariangela Gualtieri a Maria Grazia Calandrone, e poi Chandra Candiani, Filippo Strumia, Daniela Attanasio, Giovanna Frene, Laura Liberale, Salvatore Ritrovato… Molto importante per la mia formazione, e tuttora particolarmente feconda, è stata la frequentazione della poesia americana contemporanea, in particolare quella femminile, autrici come Anne Carson, Adrienne Rich e, soprattutto, Sharon Olds, così centrata sui dati dell’esperienza, e in questo senso paradigmatica ed emblematica, nel considerare il dato quotidiano e i sentimenti individuali… Ma penso anche alla visionarietà di un autore come Dennis Nurkse, estremamente suggestiva. Infine, la poesia ebraica e israeliana, tanto densa e stratificata, fitta di echi e richiami a una tradizione antichissima (biblica e non solo), e intensa nel suo coniugare Thànatos ed Eros, e nell’ininterrotto dialogo col sacro, anche quando, come nell’ultima produzione di Yehuda Amichai, figura centrale nella lirica ebraico-israeliana del secondo Novecento, la ricerca spirituale si ritrova alle prese con una “trascendenza vuota”, punto d’arrivo della sua tendenza antiretorica (che rimane la più grande lezione della sua poesia).  Particolarmente feconda è stata anche la lettura di autrici “storiche” come Rachel e Lea Goldberg, e di autori contemporanei come Israel Pinkas e Dalia Rabikovitch.

Posto che la sua poesia si nutre di vissuto, di intima contemplazione  del (nel) quotidiano, di inconfessato, di consapevole vulnerabilità, di spiritualità, può raccontarci come nasce?

La mia poesia nasce per osmosi con la vita: questa è la prima risposta che mi viene in mente. Da una disponibilità all’ascolto e all’accoglimento, che non può esserci sempre, o essere sempre uguale, ma a cui bisogna predisporsi, per coglierla quando arriva. Una certa regolarità nel lavoro è indispensabile, in questo senso, anche se l’intuizione poetica è di per se stessa estemporanea e volatile. Dunque, è fondamentale riuscire a registrare quell’intuizione, che è il nucleo primario di ogni creazione poetica, nel momento in cui si presenta, possibilmente, e, poi, garantirsi una continuità di lavoro per poterla sviluppare in via di aggregazioni successive, guidati da una forza misteriosa che sviluppa, a partire dall’immagine o dalla stringa linguistica primaria, il discorso poetico. Per quanto mi riguarda un ruolo importante in questo processo generativo lo ha anche l’intertestualità, il dialogo, più esplicito o sotterraneo e implicito a seconda dei casi, coi lavori e testi di altri autori, contemporanei o meno, come si evince anche dalla precedente risposta. Di solito gli echi delle altrui scritture nella propria sono involontari e impliciti, e testimoniano l’importanza che certe letture o autori hanno avuto per la nostra formazione. In alcuni casi, però, si imposta il lavoro poetico su un dialogo esplicito con determinati testi e autori, com’è avvenuto, per esempio, con la mia ultima raccolta, “Il numero completo dei giorni”, frutto di una rilettura della “Torà” o Pentateuco, inteso, quale testo fondamentale per la nostra civiltà occidentale, giudaico-cristiana, come grandioso repertorio di temi e archetipi che ancora agiscono nel nostro inconscio individuale, e sono presenti nella produzione culturale odierna. Ma penso anche a lavori recenti di autrici come Elisa Biagini e Mariangela Gualtieri, la cui opera poetica è dichiaratamente in dialogo con figure come quelle di Emily Dickinson e Paul Celan (Biagini), e Bruno Schulz (Gualtieri). Potrei, naturalmente, fare molti altri esempi. In generale, il processo creativo è qualcosa di imponderabile e delicato, ma al contempo, quando si mette in moto, è una forza potente che ti agisce tuo malgrado. Le emozioni giocano un ruolo fondamentale, nel senso che l’innesco è sempre emotivo: la scintilla da cui si origina la scrittura è un mood sensoriale, qualcosa che arriva e a cui bisogna dare un nome, associare un colore linguistico, dare una formulazione che ne traduca la consistenza.  Riuscire a farlo implica assecondare una pulsione misteriosa, ha qualcosa di magico e di miracoloso, quando il risultato ci corrisponde.

Nel suo libro Il numero completo dei giorni, rivelativi i versi di Vasi canopi pensando ai quali le chiedo: la poesia può incrinare (e in che modo) la tragica immobilità che tutti ci contiene?   

La poesia è il luogo della rivelazione e della discontinuità rispetto all’ordinario e al quotidiano in cui siamo immersi, e agiamo per lo più irriflessivamente. Riallacciandomi a quanto detto sopra, la poesia (ben più della prosa, e analogamente ad altre forme d’arte, come la pittura o la musica) è, in buona sostanza, il frutto di un’epifania, dell’irruzione nel tessuto della vita di qualcosa che ci fa sussultare, che ci risveglia e riconnette alla nostra verità più autentica e profonda. Improvvisamente, vediamo e sentiamo in modo più acuto ed efficace, abbiamo la percezione di un potenziamento sensoriale che ci permette di cogliere qualcosa di mai avvertito fino a quel momento, che coincide con l’essenza del nostro sentirci pienamente vivi. In questo senso, indubbiamente, la poesia è movimento, anzi sommovimento, frattura di una continuità acquisita, guizzo conoscitivo che si afferma surrettiziamente, emersione e simultanea traduzione, e chiarificazione, di un fino a quel momento inespresso, inconscio contenuto. La poesia, fra le diverse possibilità di scrittura, è quella che meglio si presta, per le sue caratteristiche di densità e concentrazione, a dare forma a questi fenomeni, laddove la prosa è il modo della riflessione e della durata… Come tale la poesia ha bisogno, quanto meno per la prima stesura, della maggior rapidità di esecuzione possibile: come una scarica elettrica (ma, a suo tempo, Patrizia Valduga l’ha paragonata a “una pisciata”) che ha bisogno di riversarsi in forma scritta su un foglio… Cervello e mano che scrive sono tutt’uno. In questo sono stata fortemente penalizzata dal mio incidente: una delle conseguenze del coma subito dieci anni fa è un persistente impaccio motorio alla mano con cui scrivo, la destra, che mi porta a scrivere più lentamente (troppo lentamente, per la velocità del pensiero), e solo su un supporto sufficientemente largo. Addio quindi annotazioni estemporanee su foglietti volanti o taccuini da borsa… Oggi scrivo quasi solo a computer, mentre prima prediligevo senz’altro carta e penna. Sicuramente questo ha influito sulla mia scrittura poetica, anche se, per il momento, mi è difficile definire come.

Nell’antologia Donne in poesia curata da Biancamaria Frabotta (1976) Armanda Guiducci (1923-1992) dichiarava: “Io non credo alla poesia maschile e alla poesia femminile. In questa distinzione, adusata, si cela una discriminazione razzistica della donna. Infatti, per “poesia femminile” si intende correntemente una sottopoesia, destrutturata o debole, patetica o sentimentale. Questa poesia di rose e cartapesta viene normalmente opposta alla poesia “virile ”, cui si attribuisce empito di petto, potenza di astrazione, ecc. Esiste certamente una sottopoesia femminile come ne esiste una maschile (la quale non spira affatto, in tal caso, forza alcuna). Per la buona poesia non vedo distinzione alcuna possibile». Pensando alla sua curatela dell’antologia Einaudi Nuovi poeti italiani 6 (uscita nel 2012) e più genericamente al panorama poetico odierno le chiedo un’ulteriore riflessione rispetto al pensiero formulato dalla Guiducci.  

Nonostante molte cose siano cambiate, per la poesia femminile, rispetto ai tempi in cui scriveva la Guiducci, tuttavia la sua presenza, nelle antologie e nelle principali collane editoriali, fino a tempi molto recenti era ancora scarsa e trascurabile, considerata la quantità di buona poesia scritta da autrici in circolazione. Basti pensare che l’antologia di Pier Vincenzo Mengaldo del 1978, che rimane il punto di riferimento più autorevole per il canone novecentesco, contiene un’unica presenza femminile, Amelia Rosselli, e la situazione non è migliorata molto nei tre decenni successivi… Da queste considerazioni è nato il progetto editoriale dei Nuovi poeti italiani 6 Einaudi, ovvero di un’antologia poetica esclusivamente al femminile: occorreva colmare una lacuna. Detto questo, sapevamo e sappiamo benissimo che “il genere non è una categoria critica”, come ha subito obiettato, dopo l’uscita del libro, il critico Roberto Galaverni (obiezione che, peraltro, nessun critico ha mai pensato di porre, in passato, per le antologie di sole voci maschili, come la Anceschi Antonielli del 1953 o il manuale di Guglielmi e Pagliarani del 1966, o persino l’antologia di Sanguineti del ’69, più volte ristampata senza aggiornamenti. Non che mancassero i nomi femminili, peraltro… Personalità come la Guidacci, la Campo, la Bemporad, la Pozzi, per citarne solo alcune. Anche la definizione di poesia femminile e poesia maschile della Guiducci è figlia del suo tempo: questa era, allora, l’opinione comune. Oggi, se in parte concordo con la Guiducci sul fatto che la buona poesia non abbia genere, non posso non rilevare (e in questo l’esperienza di curatrice dell’antologia è stata fondamentale) una specificità della poesia femminile, dovuta principalmente al fatto che le donne, storicamente, sono rimaste escluse, a parte qualche marginale eccezione, dal canone letterario, e dunque, come minimo, la loro scrittura risulta meno condizionata e più libera. Questo si traduce, da una parte, in una forte tensione conoscitiva; dall’altra in una più marcata fiducia nello strumento-linguaggio. Ma non è tutto: la scrittura femminile è saldamente radicata nell’esperienza, così come nel corpo, nel bios, ed è generalmente espressione di una soggettività allargata ed inclusiva: l’io lirico non è mai centrale, ma si dilata sino a comprendere il “tu”, a farsi compartecipe “noi”, tanto da far definire, a Maria Grazia Calandrone, la condizione di chi scrive come una “solitudine corale”.

Riporterebbe un piccolo stralcio di testo nel quale è solita rifugiarsi?

“Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite… beh, siete fortunati”. Philip Roth, Pastorale americana.

La invito a scegliere una sua poesia per salutare i nostri lettori.

Non lo sappiamo, se la partenza non sia
in realtà un ritorno, e la verticale dei legami
recisi (sapore di zolla ancestrale, profili
all’orizzonte di un gesto, incisi: e il padre,
i padri) non ci aspetti in altre riannodate
sembianze all’arrivo del viaggio. Non sappiamo
quanto lungo il tempo dell’abbandono, quale
precisamente sarà l’arrivo, se mai ad uno
giungeremo. Conosciamo solo la necessità.

Saremo noi, se ci sapremo riconoscere,
                                                                la terra promessa.

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