GUARDARE DENTRO (recensione al volume “100 poesie” di Franca Alaimo, peQuod, 2024)

Se nell’opera immediatamente antecedente, intitolata “Sette poemetti”, Franca Alaimo si prefiggeva l’intento di rendere “visibile il visibile”, ossia perlustrava la realtà sociale denunciandone i mali, dietro una scrittura solo in apparenza immaginifica e visionaria, nelle “100 poesie” l’Autrice si ripromette il compito di rendere “visibile l’invisibile”, servendosi di un registro a prima vista realistico, metaforico dei più intimi moti dell’anima e dell’oltre nella sostanza.
Infatti, la natura, minuziosamente descritta nella sua vulnerabilità e transitorietà, si fa portavoce di significati afferenti a un mondo che trascende i sensi, non soggetto a deperimento, eterno.
Scrive la Poeta: “Nel giardino di Gianna / crescono accanto / la pianta delle tazze d’oro / e quella delle trombe degli angeli. / I botanici le chiamano rispettivamente / Solandra Maxima e Suavis Datura. / Lei non sa di coltivare metafore. / Loro non sanno di nominare lo stupore.”
Per raggiungere questo scopo, Franca “guarda dentro” le cose. Scrive: “Sfoglio immagini d’aria / con la lingua dello sguardo”; oppure, «Per un istante illimitato / sono lo Sguardo e la Rosa». L’autrice fa proprio il significato che al “das Einsehen”, ossia al “guardare dentro”, aveva impresso Rilke, cui esplicitamente si richiama nella poesia che apre la silloge. Nella lettera esplicativa della poetica permeante le “Elegie duinesi”, scritta a Magda von Hattinberg il 17 febbraio del 1914, il poeta austriaco asseriva: per “guardare dentro un cane” […] “ non intendo comprendere, che è soltanto una specie di ginnastica umana, e poi si esce subito dall’altra parte del cane, lo si considera come una sorta di finestra sul mondo umano alle sue spalle; […] Intendo calarsi nel cane, nel suo centro esatto, calarsi nel punto partendo dal quale egli è un cane, in quel luogo in lui in cui Dio, per così dire, si sedette un momento, quando ebbe finito il cane, per guardarlo nei suoi primi impacci e nelle sue prime trovate, per fargli cenni di assenso, perché era cosa buona, perché non mancava nulla e non lo si sarebbe potuto fare meglio.[…] il mio sentimento del mondo […] era sempre, […] in quel guardare dentro, negli istanti incredibilmente rapidi, profondi e senza tempo di questo divino guardare dentro.”
La Poeta, dunque, agli oggetti della sua casa, alle piante, all’amata gatta, alla luna, alle stelle e agli edifici che vede dalle finestre, rivolge lo “sguardo dentro”, allo scopo di captarne la divina essenza, non deteriorabile nonostante la loro caducità.
Nella prima poesia della raccolta, infatti, Franca Alaimo scrive: “È la quinta Elegia / a farmi male al cuore / là dove dice: E tuttavia, alla cieca, il sorriso, / come se d’improvviso / vedessi fiammeggiare, / prima della devastazione, / il sacro delle cose. / “ . E in un’altra poesia scrive: “C’è questa pietra / che inizia dal diluvio: / nessun fiume mai l’ha rotolata. / Se ne sta ferma e chiara, / ma se palpita / un filo di brezza / e con respiri minuti la tocca / la sento parlare d’assoluto.”
Dunque, occorre penetrare le cose fino a catturarne la purezza incontaminata, come del resto scriveva Rilke nella lettera a Magda del 18 febbraio: in questa epistola il Poeta rivelava la necessità di “guardare dentro” anche nell’orrore, cogliendone l’essenza talmente pura da trasmutarlo in bellezza. Leggiamo infatti: “Non mi era lecito coricarmi col lebbroso, me ne mancava l’amore, la lebbra non si sarebbe, sotto di me, rovesciata nel suo felice contrario. Ma dovevo andare dentro, fin là dov’era l’innocenza della lebbra, dove la lebbra viveva ancora la sua infanzia. Là dovevo raccogliere tutta la mia forza, ed essere forte e insistente, e togliere alla lebbra la coscienza di essere brutta; finché non mi avesse creduto; perché quella era la sua bellezza, il fatto di non sapere nulla di sé; semplicemente, di essere.”
Allo stesso modo, lo sguardo di Franca si posa su tutti gli aspetti infelici dell’esistenza, uno per tutti, la sua finitezza; ma guardandoli dentro, sa che “per un immisurabile / istante ogni cosa è tornata / al suo principio”, ed è in quell’istante l’essenza primigenia che permette alle cose di comporsi in un ordine cosmico, ossia nel “Dharma”, che dà il titolo alla poesia in cui asserisce: “Dormi in quel vuoto silente / che è degli animali ricongiunti / alla loro gracile innocenza”.
Del resto, la Nostra sposa in toto la visione che aveva Rilke del compito del poeta. Nella poesia “Baudelaire”, questi scriveva: “Il poeta, lui solo, ha unificato il mondo / che in ognuno di noi in frantumi è scisso. / Del bello è testimone inaudito, / ma esaltando anche ciò che lo tormenta / dà alla rovina purezza infinita: // e persino la furia che annienta si fa mondo.”
Il controcanto di Alaimo è: “Andando tra terre e cieli / – pensieri di demoni / occhi di angeli -/ invertono l’alto e il basso, / sparpagliano e ricuciono / i lembi delle cose lacerate. / Come bambini disegnano / stelle sghembe e dorate / sul foglio della notte nera. / Sciocchi e beati: i poeti.”
Lo sguardo di Franca risente dell’età in cui scrive: “Non ha più la geometria di un giglio / […] questo corpo che cova da stagioni / l’oscura agonia della paura. / […] l’anima grigia somiglia / ad una nuvola invernale.”; “E il dolore / lo avverti più pesante, / un’ombra grande che si porta via / lo stupore, / irrimediabilmente.”
La Poeta ha maturato il distacco dal mondo nella misura in cui ne percepisce il non appartenerle. Scrive infatti: “Il mondo, là fuori, / non ci appartiene / e le cose non sono / quelle che nominiamo. / Fanno appena un rumore / di sussurro che sbiadisce. / L’oscura, la triste, / vaga come una lupa / in un bosco, d’inverno. / Partorisce dal ventre / il suo gelo.” Incombe la Morte, che, implacabile, pone fine all’esistenza delle singole cose, ma non vince sulla vita. Altrove, infatti, leggiamo: “In questo Natale di cuori disseccati / e strade vuote senza luminarie / ancora Tu verrai a bruciarci d’amore. / In ginocchio, davanti alla vita neonata, / che pianta eternamente il suo seme, / noi, angeli neri della terra, / gettati i violini stonati alle ortiche, / ritorneremo bambini fiammeggianti, / vocali spalancate alla stupefazione. / Canteremo ebbri di gioia il tuo nome / e osanna, osanna nell’alto dei cieli / per scacciare le tenebre del cuore.”
Dalla lettura di questi versi emerge il rapporto dell’Autrice con Dio. È un rapporto ambivalente se si riflette sul fatto che, da un lato Franca ne riconosce l’immanenza e l’essere la scaturigine amorosa di tutte le cose, dall’altro lo sente “Dio del nulla, Dio del vuoto”, insensibile, lontano. Ragion per cui se in una lirica scrive: “Dio. / Nelle sue mani / si fanno e disfanno / le forme delle cose. / Dice: / Tutto accade per lo stupore. / Però piange / Non so più / quando e come / ho cominciato a morire.”; in un’altra poesia, invece, leggiamo: “Sotto la pesante coperta / del disincanto senile / sta soffocando Dio”; in altri versi ancora, Gli rivolge un rimprovero: “Lo so che te ne stai nascosto / da quando ho incartato la gioia / come una caramella da tenere in tasca. / E va bene, mio Dio, fa’ quel che ti pare, / conosco da sempre l’abbandono: / è questo vuoto qui, in mezzo al cuore, / […] / Da qualche parte, ne sono certa, tu ridi e aspetti la primavera: / Io – esclami – sono un fanciullo allegro / e non voglio avere niente a che fare / con quelli che corteggiano la morte.”
In linea di massima, comunque, prevale lo sgomento di fronte alla sua ineffabilità. L’Autrice scrive infatti: “Ho sentito il fiore, / con le dita, gli occhi, / l’olfatto, ma non so dirlo. / Tutte le parole accartocciate. / Quella breve distanza / così incolmabile / tra l’indice di Dio / e quello di Adamo.”
La finitezza della parola e la sua incapacità a esprimere appieno l’inesprimibile infinito, era un tema già presente nei “Frammenti” dei “Sette poemetti”. Viene ripreso più estesamente nelle “Cento poesie”, dove leggiamo: “Non so più come dire / quella cosa che stride nel petto. / […] come sei povera, / come sei stretta, o Parola! / Ed io che ti pensavo illimitata. / Ed io che sono solo una Poeta!” Vengono in mente i versi di Nina Cassian, anche lei riferimento intertestuale nelle “Cento poesie”: in “Tirata del penultimo atto” la poetessa rumena scriveva: “ho conosciuto da vicino / mille oggetti e stati d’animo / ma non sono riuscita a chiamarli per nome / senza che si allontanassero / mutando forma oltre ogni limite, / gettandomi nello sconcerto come in un lago di sangue.”
Alaimo posa lo “sguardo dentro” – nel significato dato da Rilke -, non solo sul mondo esteriore, ma anche su di sé, alla ricerca di quell’essenza archetipica immutabile di cui lo specchio non restituisce l’immagine: “Abito uno spazio incenerito / dove ogni cosa è quel che era / prima dell’esistere, / […] Là, io, non questa me di ossa, / navigo come il primo uccello dell’Eden, / stupito dell’aria e delle sue stesse ali.” Prepondera il disincanto derivante dall’età, e la consapevolezza del fatto che la sua vita avrà una fine: “Lo so, mi dico / – guardandomi allo specchio / e mi viene improvvisa / voglia di piangere – lo so che mi sono perduta / da qualche parte, là dietro, / che il mio essere qui / io non l’ho voluto. / Mi osserva silenziosa / l’esiliata, vestita / come me di vuoto.”
“L’esiliata” è la morte, evento cui si prepara ogni giorno, allenandosi a diminuirsi, a farsi “poca / più del poco”. Vengono in mente le parole che pronuncia Clov in “Finale di partita” di Beckett: “Guardo la mia luce che muore”. Il controcanto di Franca: “Mai notte fu più notte di questa, / spente le luci dietro le finestre. / Il cielo nerissimo, senza astri, / dove affonda e svanisce / lo spazio del corpo così angusto. / Una cosa più vasta / del nulla che inghiotte i nostri / sogni e i nomi di Dio. / E in questo più non volere / e appartenere / sentire la purissima festa / che è il morire a sé stessi.” Inevitabile il richiamo a un’altra grande poesia del panorama poetico italiano: “Eterno”, di Ungaretti: “Tra un fiore colto / e un altro donato / l’inesprimibile nulla.”
Un ruolo centrale, in questa indagine su sé stessa e sul significato della vita, assolve la memoria, di cui Alaimo scrive, facendo propria un’altra citazione di Cassian: “Ricordare è un volo / all’indietro in un futuro / annunciato con certezza”. E se da una parte questo sguardo a ritroso “straripa di dolore” per la perdita delle persone amate, – “Ogni amico che se n’è andato / mi ha conficcato un chiodo nel petto. / […] non esiste medicina / per riempire i vuoti del cuore” -, dall’altra parte spinge la poeta a chiedersi cosa attende ogni uomo dopo la morte. Leggiamo infatti: “Ora è come se dalle nubi piovesse / un sonno mortale: / ma dopo c’è ancora qualcosa, / uno spazio di gioia, la bellissima luce? / Oppure il passato / sarà tutto perduto: / i libri, i quaderni, le rose? / Ed è vero che un lontanissimo / giorno l’intero universo / sparirà nel niente più oscuro / e resterà soltanto un sospiro, / un leggero smarrito ronzio?”
Aiutano l’uomo a trasformare “il dolore in luce”, due entità, inscindibilmente unite tra loro: gli angeli e la poesia. Gli Angeli, grazie alla loro natura mediana tra visibile e invisibile, confortano gli esseri umani. E a loro la Poeta rivolge un’accorata preghiera: “Da tutte le parti / si affollano gli angeli. / Dico: perdonatemi, / se non ho capito. / Vi prego: insegnatemi qualcosa / che abbia senso, / qualcosa che non diventi / sempre meno vivo / fino a sparire in questo // vuoto.”
Ed ecco che, a consolazione, gli Angeli in-spirano la poesia nell’uomo, consentendogli così di “concepire qualcosa / che ha smesso di morire”: “Chiamo l’angelo / ogni volta che scrivo. / E la sua voce / sfiata lievi sospiri: / monili del silenzio.”
La seconda sezione della silloge, intitolata “La figliatura”, racchiude tutte le composizioni poetologiche, e si apre con una lirica che esprime compiutamente il ruolo della poesia nella vita umana: “Raschiare il pericarpo del linguaggio, / trattenerne sotto l’unghia l’aroma, / trarre fuori il seme e metterlo a dimora / nel buio del proprio inverno, / nel letargo della memoria, / aspettando la stagione / in cui il dolore si alza su uno stelo / tutto dipinto di colori.” Altrove la Poeta scrive: “la Poesia / mi generò per la terza volta. / Per questo scrivo: per amarle, / per amare, per perdonarle, / per perdonarmi.” Sia gli angeli che la poesia, consentendo all’uomo di apprezzare la bellezza del creato, gli impediscono di annegare nello sconforto, assolvendo un ruolo catartico e di salvazione: “nelle crepe dei muri sono cresciuti / i fiori gialli dell’urospermo / dalle foglie sinuose e vellutate. / La poesia, tutto sommato, / è un rito di ricomposizione: / somiglia all’arte giapponese / del kintsugi che sparge sulle ferite / un po’ di polvere d’oro.” Il Kintsugi ci riporta al “Wabi-sabi”, visione del mondo giapponese che consiste nel trovare la bellezza nell’imperfezione, comprendendo la caducità e transitorietà delle cose.
Nella poesia di Franca Alaimo non ci sono solo richiami alla cultura giapponese, ma anche a quella buddhista, come abbiamo già rilevato parlando del Dharma; alla numerologia, nell’insistere, nelle prime poesie, sul numero cinque, simbolo carico di significati in tutte le culture del mondo: uno per tutti, simbolo dell’Uomo universale, dell’unione, della luce e del cuore; così si spiega il riferimento alla “Quinta elegia” di Rilke, e il collocare, da parte dell’Autrice, composizioni di soli cinque versi dopo la lirica incipitaria, soffermandosi, nella seconda lirica, sull’ora quinta del mattino. Ci sono anche riferimenti alle poetesse e ai poeti che hanno segnato la sua formazione, come Pizarnik, Bonnefoy, Lorenzo Pataro, oltre ai già citati Rilke e Cassian. Presenti anche rimandi all’Iliade di Omero, ai miti greci. Tutta questa varietà di riferimenti e citazioni si compone in una meravigliosa armonia, per cui l’Autrice riesce ad essere quell’«angelo nunziante / un verbo nuovo per risciacquare / la lingua invecchiata del mondo, / per cantare l’eterno rifiorire / della mistica rosa di suoni bambini.»
Alcune poesie della silloge, inoltre, per il realismo e la minuziosità con cui descrivono la vita nella sua dimensione quotidiana, si presentano come quadri di Vermeer, definito da Zuffi nel grande atlante della pittura “il pittore dell’anima, del silenzio e della luce”. Le liriche che invece si soffermano a descrivere l’incanto dei giardini, fanno pensare a quadri di Monet, o a quanto scriveva sui fiori Ponge ne “Il partito preso delle cose”: “[…] il fiore […] si raggrinza, si torce, indietreggia, e lascia trionfare il seme che esce da sé stesso, che lo aveva preparato.”
Quale insegnamento rilascia, allora, nel lettore, questa poesia così densa di significati e di bellezza? È la stessa Franca a scriverlo nei versi finali: “proprio questo s’impara / a forza di vivere: / che conta solo lo stare al mondo, / alzarsi vivi ogni mattina, / ubbidire al passo delle ore, / e lasciare che ogni cosa sia, / sapendo che da te, / dalla tua memoria, / dai così tanti amori / e piccoli bagliori quotidiani / dovrai presto separarti / e magari con un cenno della mano: / Scusate se sono stata, / e addio a chi resta.”

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