“Sul mio letto è caduta una lucciola. È più grande di quanto pensassi, un animale vero. Ha una testina nera, a capocchia, un collare nocciola e due ali cartilaginose marron scuro come quelle dei maggiolini, ma più affilate. Giace di lato, così riesco a vederle la lucina. È un cono che le occupa tutto il dietro, e non è bianca ma verde, un verde elettrico a intermittenza. Pietro, una volta che avevamo mangiato funghi, ha aperto la bocca e una lucciola è volata dentro. Ha inghiottito come niente. Strano, dopo aveva un sorriso più luminoso”. Un passo emblematico scelto per introdurvi alla lettura di Tre quadernetti indiani, giocoso, sottile e poetico diario, scritto da Dario Borso, deliziosamente illustrato da Pietro Spica, pubblicato da “Exòrma Edizioni”, (Roma 2019).
“Il primo quadernetto, introduce Valerio Magrelli nella nota Fulgore dell’India, testimonia in piccolo del vincolo baudelairiano tra poesia e convalescenza, del cortocircuito che s’instaura tra sguardo nuovo e visione infantile, tutta sorretta qui dal costante richiamo al Veneto d’origine. Poi una cesura dovuta alla perdita del secondo quadernetto già durante il viaggio, un vuoto tra Mamallapuram e Kovalam, e riprendiamo il filo, ma più robusto e teso per i restanti due, dove a imporsi è progressivamente il demone dell’analogia: davanti a un tramonto la sensazione di quando, finito lo spettacolo, la vecchia Zelinda si sfilava i burattini dalle mani; un’autentica epifania, nell’attimo in cui l’immagine della pioggia innesca e contrario il flash di una giornata estiva – e ancora e ancora”. E, ancora, come scrive Chandra Livia Candiani nella Postilla, “Storie che insieme alle vicende del viaggio ti lasciano in mano un filo. Si sporca nel percorso, ma tiene. Alla fine diviene quasi trasparente e scintilla: il modo di guardare una donna smarrita senza giudicarla, accompagnandola, è lo stesso con cui Dario guarda l’India”.
Quali motivi ti hanno spinto a pubblicare i tuoi Quadernetti?
“Innanzitutto un fatto occasionale, ossia l’incontro avvenuto un anno esatto fa tra amici in casa del pittore Pietro Spica, il quale aveva fortunosamente recuperato un rullino di foto indiane del 1974, l’anno in cui ci eravamo incontrati e conosciuti a Delhi. Tutti fummo colpiti dalla bellezza di quelle foto a colori scattate con una rolleiflex di seconda mano, ed io, che avevo da poco curato Danimarca 1961 di Ugo Mulas per la Humboldt books, m’impegnai sull’istante a proporre un volume analogo India 1974. La collana fotografica della Humboldt prevede per ciascun volume un testo letterario di grossomodo pari pagine. Fu a quel punto che Giulia, mia moglie, accennò ai tre quadernetti che giacevano da tempo immemorabile in casa dei suoi genitori. Mi vennero spontanee due obiezioni, già una sola bastevole per cassare la proposta implicita di farli valere come testo d’accompagnamento. Primo: le foto di Pietro riguardavano l’India del Nord, i quadernetti l’India del Sud. Secondo: dal ricordo che ne avevo, i quadernetti non erano a livello delle foto, stop. Però Giulia li portò a casa, con tanto di disegni a china fatti da Pietro al mio ritorno dal viaggio. Sfogliandoli, e costretto a un giudizio, mi lasciai scappare: “Bisognerebbe tagliarne almeno la metà”. Fu la mia rovina, poiché non potei esimermi dal taglio (c’erano pure i conti della spesa). Ricordo bene le opere che ai tempi del viaggio m’ispiravano: Libera nos a Malo di Luigi Meneghello, per le rievocazioni veneto-paesane; Platero e io di Juan Ramón Jiménez, per il tenero che coltivavo verso gli animali; I temi di Fritz Kocher di Robert Walser per il resto (li avevo letti e tradotti l’anno prima a modo mio come studente avanzato al Goethe Institut di Murnau). Riuscissi ora grazie ai Quadernetti a indirizzare i lettori verso queste tre fonti, avrei già assolto alla mia mission (come dicono adesso). Fatto sta che, così sfrondato il testo, proposi l’accoppiata alla Humboldt, che però rifiutò. Forse perché già in pista, osai inviarlo a due poeti da me conosciuti come microeditore del Ragazzo Ubicuo (con la c) e come organizzatore del Premio Baghetta (con la e): Valerio Magrelli e Chandra Livia Candiani. A loro sollecitai un giudizio spassionato, tanto più che letterato non sono ed eventuali pesci in faccia li avrei smistati a Giulia. Il risultato fu quello che il lettore può leggere ora come premessa e come postilla ai Quadernetti. Exòrma infatti si dichiarò entusiasta di pubblicare – non le foto di Pietro, troppo costose da riprodurre, ma i suoi disegni a china. Da accompagnatore delle foto son finito quindi accompagnato dai disegni”.
L’India cosa ti ha insegnato?
“Insegnare è un termine impegnativo, per il solo fatto che rispondendo dichiarerei di avere imparato. Potrei dire così: rintanato al paesello fino alla maturità, ruppi con tutto (Dio, patria e famiglia) per tuffarmi nella Milano postsessantottina. Da allora passai presto in Germania (dove fui iscritto a filosofia) e in USA, dove passai on the road l’estate-autunno 1973. L’India fu il primo paese “sottosviluppato” , e totalmente “altro” da me visitato: un cortocircuito di estrema lontananza e vicinanza estrema che mi ha coinvolto per altri tre viaggi indiani in pochi anni. “Ci sono viaggi che segnano uno smarrimento, che disfano il viaggiatore; sono viaggi giovani, ma non c’entra l’età, è l’attitudine a perdersi, è saper stare in superficie che c’entra”. È l’incipit della postilla di Chandra, che poi a voce mi ha fatto esemplificativamente il nome di Nicolas Bouvier e della sua Polvere del mondo, resoconto di viaggio in India nel 1963 (tradotto da Diabasis nel 2002). È stata per me una scoperta di cui non dico niente se non che vale assolutamente la pena di farla.
Dopo ancora, l’amico giornalista Emanuele Giordana, che aveva appena pubblicato Viaggio all’Eden di argomento analogo, mi ha spiegato che i giornalisti-viaggiatori si dividono attualmente in seguaci di Bouvier, il quale prima di andare in un posto non voleva saper niente di esso, e seguaci di Ryszard Kapuściński, il quale faceva il contrario.
Diciamo che avevo lo sguardo puro, “agevolato” in ciò, come ipotizzato da Valerio nella sua premessa, dal trovarmi in convalescenza postmalarica”.
Cosa è affiorato rileggendo i tuoi appunti fino alla decisione di pubblicare?
“Nostalgia personale, ma anche l’idea generale della poesia come convalescenza del mondo. (Per poesia intendo anche i disegni di Pietro)”.
Il tempo si apre da uno scarto, da un taglio. Perciò non esistono tempi felici. Esiste però la felicità. Un passo dal tuo libro per chiederti di parlarci della felicità della scrittura e del modo in cui ha scandito, allora, e continui, adesso, a scandire il tuo tempo.
“Ripetendo ossia variando leggermente: la scrittura può essere felice a intermittenza, lo scrivente pure, ma non con gli stessi tempi”.
Gli autori
Dario Borso ha insegnato Storia della filosofia all’Università degli Studi di Milano ed Estetica alla Facoltà di Architettura del Politecnico. Studioso di Hegel e Kierkegaard, di cui ha curato parecchie opere in italiano, è noto soprattutto per le sue traduzioni da Lev Šestov, Paul Celan e Arno Schmidt. Editore in proprio all’inizio del millennio con la microcasa editrice Il Ragazzo Ubicuo, ha finora animato cinque edizioni del premio di poesia Baghetta, e adesso che è in pensione s’interessa di fotografia (curatela di Ugo Mulas, Danimarca 1961, Humboldt 2018) e design (Aa.Vv., Saft, Corraini 2019).
Pietro Spica si avvicina presto alla pittura grazie allo zio Gianni Dova, tra i fondatori, con Lucio Fontana, del Movimento Spazialista. Milanese d’adozione, è l’incontro con Bruno Munari a permettergli di fare della sua passione una professione, cominciando come illustratore di libri per bambini. Dopo la laurea in storia contemporanea sugli anarchici spagnoli, diviene un viaggiatore infaticabile tra Asia e America Latina fino a stabilirsi negli USA. Nel 2011 partecipa alla 54a Biennale di Venezia con un acrilico di grandi dimensioni. Oggi soggiorna e lavora tra Milano, la Liguria e l’isola di Minorca.