“Il cigno sgraziato” (poesie inedite da una futura raccolta di Silvia Giacomini)

Il cigno sgraziato

(Al centro, la gabbia in cui venivano rinchiusi i folli: un antico strumento di tortura.
Una gabbia in vimini racchiude il paziente, che ha le mani legate, fino all’altezza del collo, lasciando libera soltanto la testa.)

I

Non lo sapeva nessuno
che mi sbracciavo forsennata nell’involucro
del mio arco d’universo
per toccare tutti i possibili sentieri del mio qui.

Una sola vita è troppo poco
per i mondi che ciascuna vita chiude in sé.

Non potei bere il mio volto da nessun’acqua aperta.
Conobbi i rovi bianchi del dolore senza grido.
Offrii alla notte tutti gli occhi del cuore.

II

Forse bisognava tuffarsi nel gioco
saper respirare senza cielo…

Saggi sono quelli che non guardano più in là,
accasati nel perimetro della loro vita com’è,
obbedienti ad una fede primordiale, pura.

III

Sulla terra stanca avanzava incerto un cigno
che aveva osato abbandonare il lago.
Una banda di bambini vuoti lo bersagliò di sassi.
Nessuna ferita
ma una torre di pietra
gli crebbe attorno rapida
per tutta la lunghezza del collo.
Nessuno spiraglio
tra una pietra e l’altra.
Solo, in alto,
la vocale azzurra
di una parola persa.

IV

Lo slancio verticale
consacrò il mio corpo alla caduta.
Il sangue l’ho versato tutto per la sete
di un unico fiore di campo.

V

Non badate troppo alle mie parole.
Non sono abituata a parlare,
io prima esprimevo tutto con il corpo.
Danzavo ma non avevo grazia:
erano frenetici i miei gesti,
spericolate le giravolte e i salti,
troppo fondi i passi calzati di radici.
Mi possedeva una musica
che nessuno udiva
ma che io dovevo incarnare per dirmi:
non è un soffrire sprecato quello dei malnati.
Danzavo per le strade, sulle piazze,
nel cappio della folla, in riva al fiume,
al centro di una pozzanghera, ovunque,
perché ovunque tremasse la meraviglia discorde
dell’affamato cielo conficcato nei miei fianchi.
Ma la mia danza sgraziata
feriva l’armonia bugiarda.
Chiamarono follia
il conflitto di forze
che accende le stelle,
follia il divorante equilibrio della luce,
risero,
senza sapere
che ridevano del seme.

VI

Spaccati gli specchi del mondo,
trovo nel lago la sparizione del mio volto.
La mia verità, nel costato d’acqua,
è ancora un segreto.
Ma io sono più di quel che ero
ora che non sono più.
Sono l’abisso che si guarda.

***

Pensare è uscire dalla tana
per perdersi nudi
non conoscere via
desiderare un altro nido
su chissà quale vetta illuminata.

*

Stendo nell’azzurro un braccio,
lo ritraggo,
rovisto l’altra manica,
cerco dov’è il buco per la testa,
dove il foro d’ascesa.
Ma rimango cosa inutile di terra,
rimestio di preghiere e rabbia.

*

Anticipata primavera scuote nell’aria
le fotografie di lontani attimi felici
migliaia di farfalle si staccano dagli alberi
e invadono il bosco
che avrebbe voluto riposare
nella propria ombra.

*

Quanti momenti
sembravano l’inizio di un tempo di svolta.
Una vita si consuma in fretta e delude
ma com’è stellata fitta di aurore…

Dev’esserci, da qualche parte del tutto,
una cassetta di sicurezza che racchiuda i nostri inizi,
le splendenti schioccate di rinascita fallita.

*

Ha un profumo così tenero l’aria della sera –
si avrebbe voglia che la vita fosse amore,
e stare tra le cose, soli
e pieni di innocenza –
bestie che non hanno colpa di morire.

Mi lascio andare via
senza più l’ostinazione
di forzare il chiuso della pena
per leggerle con l’unghia il palmo levigato.

È troppo che guardando gli alberi
sento sazie di metamorfosi le foglie.
Il filo di me stessa
l’ho lasciato abbandonarmi

(ma da bambina
quando mi sfuggiva un palloncino dalle dita
lo guardavo salire

inghiottito dal cielo).

*

L’unica solida felicità
è quella materna del prendersi cura.
Abdicare a sé stessi, diventare pane.
Compito delle madri è ricucire
il velo marino dei riverberi,
fare della propria vita il nutrimento vitale
di chi vuol vivere ancora.
Ogni uomo ha vocazione alla maternità del cosmo.
La dimentica per cucirsi sulle ossa
la divisa militare di un fantasma.

*

Forse tu non lo sentivi
ma un fiume spezzato si riconciliava
tramite le nostre braccia, tornava a dissetare
un lago smarrito dal mondo.
Due palmi uniti sono il guscio di una terra dolce,
di una pace futura senza scrutarne il volto.
Rifacevamo il confine dell’attimo
tenendoci per mano
e lo portavamo ad ogni passo più in là.

Olle Hjortzberg, Natura Morta (Swedish, 1872-1959)

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