Forse su “La forma di tutti” di Nicola Bultrini (CAPIRE edizioni)

 

salti quantici

 

Nessuno ha mai scritto, scolpito o dipinto, modellato, costruito, inventato, se non per uscire letteralmente dall’inferno.

La riflessione è di Antonin Artaud e costituisce l’esergo di uno dei libri che Bultrini dedica all’inferno della guerra, e delle atrocità che ogni guerra ha generato, in cui racconta come la poesia sia riuscita a salvare le vittime innocenti dell’esilio della ragione che connota, con soluzione di continuità, la Storia dell’Uomo.

Campi di concentramento, di sterminio, di prigionia, lager, stalag, gulag: il metodo, oserei dire scientifico se non avessi grande rispetto della Scienza, usato, e non solo dal nazismo, per eliminare il “nemico”, soprattutto non in senso bellico. Perché il nemico non si uccide in battaglia, il nemico si uccide lentamente, giorno dopo giorno, con una crudeltà stillicida, che lo reifica e lo sottomette, privandolo della sua sostanza umana, mentre la morte e la vita si somigliano e il tempo è sempre uguale a sé stesso, tranne quando si scampa alle torture. Spesso il nemico si usa, come una bestia, lo si estenua di lavoro perché l’industria bellica non si ferma mai e ha bisogno di essere continuamente alimentata da manodopera, (meglio se a costo zero), per affrontare lo sforzo di un conflitto mondiale con folli mire di conquista terraquea, e così fagocita milioni di vite umane che non si contano perché non contano.

Mio padre fu catturato in Grecia. Aveva poco più di vent’anni. Era alto, con i muscoli affamati e gli spigoli nelle ossa e i capelli tirati indietro come i divi dell’epoca. E senza scarpe. Un soldato senza scarpe. “Catturato” – lui stesso scrive – il 16 settembre 1943 e deportato e rinchiuso in uno stalag. L’ho scoperto osservando con una lente d’ingrandimento le date scritte a matita sul retro delle fotografie emerse, durante un trasloco, insieme a tanto altro, che lui teneva custodito – lo ricordo vividamente – dentro una scatola di latta, di quelle che si usavano per i biscotti.

Bultrini è andato a visitare Moosburg, cittadina che sorge a una cinquantina di chilometri a nordest di Monaco, nella cui periferia sorgeva il più grande campo di prigionia della Germania: lo Stalag VII A, dove era stato prigioniero per due anni il nonno paterno. “Mio nonno ha vissuto in questa condizione e poi è tornato a casa e ha ripreso una vita normale, ricostruendo la trama di quelle relazioni che fanno la nostra esistenza sociale. Ancora oggi mi sembra inconcepibile una cosa del genere.” “Come sopravvivere in tanta solitudine di spazio e di tempo?”.

Bultrini racconta che, durante la visita, i suoi figli si distraggono e scherzano tra loro e, al suo rimprovero, il più grande gli fa notare di non aver conosciuto suo nonno. E allora sente il bisogno di riprendere il filo di quel discorso, di recuperare la memoria. “A costo di apparire retorico, ribadire la storia, le vicende dell’uomo nella sua cronaca, significa acquisire consapevolezza del proprio passato, individuale e collettivo.” E così tentare di riconoscere il divenire, abbozzarne il profilo, seppure vago, intuito, percepito, per evitare di commettere gli stessi errori.

Coloro che non ricordano il passato, sono condannati a ripeterlo.” Lo diceva un poeta spagnolo.

Mio padre non parlava della sua prigionia, nemmeno quando, bambine, io e mia sorella più grande, scoprimmo la scatola, nascosta in un cassetto, seppellita in mezzo alle tovaglie che mamma aveva ricamato per il suo corredo da sposa.

A volte, a tavola, tirava fuori qualche parola in tedesco: tutte quelle che sapeva avevano a che fare con il cibo, “kartoffeln”, per esempio, perché capire la lingua significava speranza di mangiare. Perché la fame non ti fa pensare e non ti fa dormire, ti fa stare così male che le budella si torcono dal dolore, che ti fa vomitare quel vuoto che non riesci a riempire, che ti fa pesante anche quello che ti copre e lo vorresti ingoiare, che ti affila lo sguardo e il cuore. E non ti dà pace. 

Bultrini racconta che Gadda, tenuto prigioniero, dopo Caporetto, nel campo di Celle – “uno dei campi di prigionia più noti, non solo per le dimensioni e per aver ospitato tanti letterati importanti, ma anche per le penose e finanche tragiche condizioni di vita”, “passa il tempo leggendo e studiando” e “cerca di imparare il tedesco”. E cerca di farlo attraverso la poesia: “Leggo e rileggo qualche poesia, il che mi riesce un buon sussidio per imparare a ritenere vocaboli” , scrive Gadda e Bultrini: “Inconsapevolmente – forse – Gadda ci suggerisce una cosa importante, la poesia, in quanto precipitato di esperienze interiori tese alla conoscenza, è il nervo più profondo della nostra espressioneGadda conosce la realtà che vive attraverso la lingua della terra che lo ospita e conosce la lingua attraverso la poesia, ovvero l’espressione formale più prossima alla medesima profonda esperienza di conoscenza.

“Numero del prigioniero: 15751”.

“Designazione del campo: M.-Stammlager VIII B”.

La piastrina di zinco di mio padre. Tratteggiata nella sua metà. Le piastrine erano traforate al centro per poter essere divise in due parti perché, quando i prigionieri morivano, la metà superiore, quella con i due piccoli fori lungo il lato più lungo, rimaneva appesa al collo del prigioniero morto e l’altra trattenuta dal comando del campo di detenzione. Tanti acchetti tanti buttuni, si dice in Sicilia.

“Stalag” era l’abbreviazione di “Stammlager” che a sua volta significava “Mannschaftsstamm- und Straflager”, campi di prigionia riservati alla truppa. Li chiamavano “IMI”, “Italienische Militarinternierte” “Internati Militari Italiani”, erano i traditori che non meritavano di essere considerati “prigionieri di guerra” e nemmeno di avere riconosciuti i diritti fondamentali che la Convenzione di Ginevra del 1929, che la Germania aveva firmato, prescriveva che venissero loro garantiti.

Mio padre non ci disse mai del viaggio che durò mesi e che dalla Grecia lo portò allo Stalag VIII B. Leggo sul retro della foto “8 settembre 1943 armistizio catturato il 16 settembre 2/11 arrivo in Prussia.” Sapevo, per averlo studiato, che i prigionieri venivano portati nelle stazioni ferroviarie, caricati e stipati su vagoni piombati in condizioni disumane. I nazisti, a volte, lanciavano dentro i vagoni barbabietole e i prigionieri, affamati, ressavano per guadagnarne qualcuna: il padre di una mia amica si salvò perché non riuscì a prenderne, gli altri morirono tutti perché le barbabietole erano avvelenate.

Mio padre lavorò negli impianti siderurgici (Eisenwerk) di Trzynietz, nel distretto di Teschen, nell’Alta Slesia, l’attuale Trinec della Repubblica Ceca, a settanta chilometri da Auschwitz.

Ma lui non raccontava mai niente di quegli anni: ho trascorso la mia estate a ricostruire la sua prigionia, attraverso spille arrugginite, piastrine, tesserini scoloriti, foto, lettere che scriveva dal lager ai suoi genitori, censurate due volte, in partenza e poi in arrivo dall’“US Army PW Examiner”. Li rassicurava sull’“ottimo stato di salute” e chiedeva di scrivergli ogni giorno. E pregava. Il volere di Dio. In fondo, la poesia è preghiera. 

Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie…” scriveva Adorno e ci ricorda Bultrini e si chiede “se sia possibile per l’uomo, dopo la tragedia di cui è capace, dedicarsi in onestà di spirito ancora all’arte, o se ciò non significhi tradire la memoria del dolore.” E la sua risposta è chiara: “L’arte, la poesia prima di tutto, è esistita – nelle sue forme più alte – certamente dopo Auschwitz, ma anche dentro Auschwitz e anzi proprio a causa di Auschwitz.

La memoria è la nostra arma contro il tempo che, come nel dipinto di Goya, ci divora, ci sbrana, noi che siamo i suoi figli, con le fauci ingorde e sanguinanti delle nostre vite, famelico di tutto quello che siamo stati. È questa la nostra fine. Si muore coi ricordi, non con l’ultimo battito.

La memoria è “la forma di tutti”. Perché – dice Bultrini citando, nell’epigrafe della silloge, Cormac McCarthy – “Una forma senza storia non ha il potere di perpetrarsi”. E le sue sono poesie in cui la memoria si fa materia della realtà, “la vita al naturale, le cose rotte/ che stanno, ma come abbandonate”, il sonno amaro di tabacco e l’attesa, “la tavola imbandita da una benedizione” la scelta solitaria di un sentiero, “l’anima” che “solca l’autostrada”, gli “…uomini che si nascondono/ dentro gli sguardi”, i “suoni  … innocenti”, “quel trascinarsi di pantofole in corsia”, paesaggi di mare e di montagna, la scuola, “le pozzanghere ghiacciate e le ginocchia viola”, il  liceo, all’ “autunno, quando più o meno/ogni cosa ha il suo principio”, “riparare, restituire forme”, una “…finestra” che “fu schianto di cristalli/ inatteso nel gioco e nel dispetto”, la puntura di una vespa, “la guerra, che domandi/ perché si chiama grande”, “l’ultimo giorno di vacanza” l’”inedia della partenza”, “la luce della luna/ (che) fa il mondo in nero e bianco”, “… le cose/ (che) non hanno il tempo di morire”. Tutto è memoria, quella memoria che è “la forma di tutti”.

Bultrini ce lo dice in una delle sue memorabili chiuse, che arrivano, come un drittofilo salvifico che appare dopo una lunga successione di curve, a rischiarare i versi che si sono susseguiti nel tempo  presente della memoria. “Bisognerà sapere di chi siamo figli/ come un testamento, chiamare/ per nome la realtà, più vera/ nel riflesso del ricordo.”

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