Intervista ad Ada De Alessandri Cattafi

Bartolo Cattafi (Barcellona Pozzo di Gotto, 6 luglio 1922 – Milano, 13 Marzo 1979) è stato uno dei poeti più originali e appartati della seconda metà del novecento italiano, numerose le sue raccolte di liriche, quasi tutte per le edizioni Lo Specchio Mondadori tra cui ricordiamo: Nel centro della mano (1951), libro d’esordio, Le mosche del meriggio (1958), L’osso, l’anima (1964), La discesa al trono (1975), Marzo e le sue Idi (1977), L’allodola ottobrina (1979) e le postume Chiromanzia d’inverno (1983) e Segni (1986, edizioni Scheiwiller). Da segnalare inoltre, tra i vari interventi apparsi su riviste specialistiche e libri, il doppio n. 6/7 di Lunarionuovo, rassegna di letteratura diretta dal poeta Mario Grasso, interamente dedicato a Cattafi, con i contributi critici oltre che del letterato acese, di Sciascia, Spagnoletti, Giudici, Betocchi, Addamo, Sereni, Raboni, Bo, Cucchi e altri. Abbiamo avuto il piacere di intervistare la moglie, Ada De Alessandri Cattafi.

Il vostro incontro. L’innamoramento. Le va di raccontarci come vi siete conosciuti e alcune delle cose che avevate in comune?

“Incontrai Bartolo nel 1966 mentre lavoravo alla «Grandi Viaggi» di Milano. Veniva spesso in direzione a trovare i proprietari, Ermanno Amori e il figlio Silvio, suo caro amico e compagno di avventure. Nel dicembre dello stesso anno lo rividi a Londra, dove nel frattempo mi ero trasferita per motivi di lavoro. Bartolo mi chiese di fargli da guida e interprete per una giornata, alla fine della quale ci lasciammo, ripromettendoci di risentirci al mio rientro a Milano per le vacanze natalizie. Conservo ancora il suo telegramma: «Ti ricordo, ti penso, ti aspetto.» Il 26 giugno 1967 ci sposavamo in Scozia, ospiti del suo amico e traduttore George Kay. Bartolo era sulla quarantina. Aveva da poco consolidato la sua situazione economica grazie all’esproprio per pubblica utilità di un suo fondo agricolo. Dal punto di vista sentimentale era reduce da una complicata vicenda amorosa. Io avevo ventidue anni, un lavoro promettente e una vita ricca di interessi e relazioni nella swinging London degli anni ’60. Di certo scattò quella miscela di attrazione fisica e psichica che chiamiamo innamoramento, ma credo sia accaduto qualcosa di più profondo, che suscita ancora oggi la mia commozione. E’ stato come un “riconoscersi”. Credo appartenessimo entrambi a quella razza bisognosa di auguri,di cui Cattafi parla nella poesia autobiografica intitolata Cancro (L’aria secca del fuoco). Entrambi alla ricerca di autenticità, trasparenza, gratuità”.

Com’era in veste di padre e di marito?

“L’esperienza della paternità ha suscitato in lui sentimenti profondi e complessi. Alla gioia della mia inattesa gravidanza – Elisabetta è nata nel 1975, dopo otto anni di matrimonio – faceva da tragico contrappunto il pensiero dell’avvicinarsi della morte che Bartolo da tempo avvertiva in sé. Lo testimoniano le struggenti poesie dedicate alla piccola nella plaquette scheiwilleriana 18 Dediche, che hanno il sapore di un addio. Per quanto mi riguarda, vivere accanto a un personaggio come Bartolo è stato di certo impegnativo. Era esigente con se stesso e con gli altri. Ma io ero sinceramente innamorata e, con il trascorrere degli anni, sempre più consapevole della sua ricca personalità di uomo e di artista. Sono molti gli amici che possono testimoniare la sua calda umanità e la stabilità dei suoi affetti. Nel ménage quotidiano temperava con ironia la sua visione tragica della vita. La sua più vasta cultura ed esperienza non ci hanno impedito di vivere quella solidarietà e complicità alle quali ho accennato. Gli sono grata per il rispetto e la delicatezza con i quali ha accompagnato i tempi della mia crescita. E’ stato per me un maestro, oltre che un indimenticabile compagno”.

Partecipava alla stesura dei testi poetici di suo marito in qualità di suggeritrice, complice o Bartolo Cattafi scriveva in stato di solitudine inalterabile?

“Come il Paguro dell’omonima poesia de L’allodola ottobrina, Cattafi, protese le sue parti più porose / nella torbida broda circostante, assorbiva e metabolizzava sensazioni provenienti da una attenta, quasi maniacale osservazione della realtà. Scriveva dappertutto, in casa, per strada, sui mezzi pubblici, si alzava anche di notte per fissare i suoi pensieri. In questa fase ogni frammento del reale, ogni incontro, ogni lettura, ogni evento, poteva divenire fonte di ispirazione. La fase successiva, quella della elaborazione formale, avveniva in solitudine, nel suo studio. Io mi ero offerta di copiare a macchina i testi definitivi da lui manoscritti e, durante questa operazione, gli chiedevo spiegazioni e approfondimenti o segnalavo qualche mia perplessità. Le copie dattiloscritte venivano infine sottoposte al giudizio degli amici Scheiwiller, Sereni e Forti. A cominciare da L’aria secca del fuoco, Raboni, che aveva conosciuto Bartolo in occasione dell’uscita de L’osso, l’anima, lo aiutò a strutturare le raccolte mondadoriane e ne redasse tutti i risvolti di copertina. Fu a lui che Cattafi affidò i testi di Segni e di Chiromanzia d’inverno, dei quali Raboni curò la pubblicazione postuma”.

Le descrizioni di campi, fiori e mondo agreste sono spesso presenti nell’opera di Cattafi. Qual era il rapporto del poeta con la natura?

Credo fosse un rapporto simbiotico, di compenetrazione. Ma lascio volentieri la parola all’amica Silvia Fleires, autrice di un illuminante saggio sull’argomento, intitolato Simbologia arborea e dendromorfismo nella poesia di Bartolo Cattafi. Dopo aver citato la poesia Ragioni de L’allodola ottobrina, la studiosa conclude scrivendo: «La circolarità biologica tra umano e vegetale non è chiusura al tempo e alla storia, rappresenta piuttosto, aliena da qualsiasi funzione consolatoria, un momento rigenerativo e preparatorio, che permette a Cattafi di affrontare lo schianto, il turbine del mondo.»”.

Lei ha scritto il libro La spiritualità di Bartolo Cattafi, può raccontarci il rapporto che lo stesso aveva con la fede, quali le letture più in sintonia col suo spirito?

“Non poteva essere che una lotta con l’angelo, un rapporto segnato dalla complessità e contraddittorietà della vita, che si è andato chiarendo nel tempo. Il Dio di Cattafi – senza dubbio il Dio trinitario cristiano -, ingenuamente esibito nella fase giovanile, verrà progressivamente minuscolizzato, riapparendo all’improvviso, talvolta in incognito, con un andamento carsico fino alle ultime poesie, quando rivendicherà il suo ruolo di interlocutore fondamentale del poeta. Le citazioni bibliche, tratte in prevalenza dai profeti e dai vangeli, sono ripresentate con un linguaggio originale, incarnato nel vissuto e nel contesto culturale dell’autore. Cattafi era molto devoto a Maria, alla quale ha dedicato alcune poesie in occasione di un pellegrinaggio a Lourdes, fatto per adempiere un voto. La poesia François, che si ispira – con la consueta punta di ironia- alla figura di un generale dei Brancardiers, mi pare emblematica delle fede che Cattafi ebbe il rammarico di non avere vissuto in modo più coerente e lineare: T’invidio Ossa Dure / celta dal duro occhio celeste / cadi di schianto in ginocchio / sul gradino più basso / (col tuo peso lo incrini) / vero spirito e vero corpo / greve e leggero davanti alla Signora / le braccia allargate / le palme verso l’alto / eri di quelli che salivano d’un balzo / gradini e montagne / che i Mori li facevano a pezzettini. (Poesie 1943-1979). Tra i testi presenti nella biblioteca del poeta vi sono diverse edizioni della Bibbia, i Vangeli apocrifi, il Corano, i detti di Buddha e di Confucio, poemi cosmogonici e teogonici di varie religioni e, tra gli altri, Agostino, Pascal, Kierkegaard, Bernanos, Eliot, Lisi, Betocchi, Rebora e Luzi”.

(l’EstroVerso Maggio – Giugno 2011)

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