La “barbarica dismisura” nella pura messa in scena di Andrea Foschini

l'estroverso Andrea FoschiniUn luogo comune attribuisce, e non da poco tempo, al mondo greco-romano caratteri più attinenti a certa retorica neoclassicistica, dunque storicamente inattendibile e fuori tempo massimo, che non quanto risulti in termini culturali specifici, secondo una corretta informazione antropologica. Uno dei meriti di Andrea Foschini è di aver dato nel suo lavoro letterario sul periodo post-classico (un discorso analogo può riguardare, però, anche le età precedenti, fin da Roma antichissima) una rappresentazione non convenzionale, approfondendo gli elementi barbarici di quella civiltà. Mi riferisco espressamente a tre suoi libri, ricchi peraltro di particolari eruditi: Nerone o della monarchia assoluta (prefazione di Antonio Veneziani, Edizioni Libreria Croce, 2009), Caligola, Poeta del sangue (prefazione di Gills Lanneghen, Federighi Editori, 2010) e Caracalla, o il mito di Alessandro (Diamond Editrice, 2014).

Seguiamo il criterio cronologico non delle edizioni ma del susseguirsi dei principes, sempre con l’implicito confronto col vero ideatore e architetto dell’impero che non fu Giulio Cesare, come vollero Svetonio e Theodor Mommsen, bensì Ottaviano Augusto, e ricordando che non è mai esistito un impero romano senza l’elemento greco. Parliamo infatti di “impero greco-romano”, dove la nozione stessa di Romanum – ritengo sia opportuno ribadirlo – presuppone, grazie alla mediazione di Roma, l’elemento greco specialmente nella parte orientale. La parola bárbaros era usata nel senso non xenofobico di xénos,che significa straniero e forestiero ma anche insolito e, significativamente, ospite, ossia chi in base a patti stabiliti con sé e con gli altri pratica accoglienza ospitale (precisazione questa utile al discorso che si va delineando in alcune analogie riscontrabili tra imperium e l’attuale globalizzazione del pianeta).

Un’ideazione folle è sottesa al Caligola. Nel segmento spazio-temporale in cui siamo gettati, dal nulla al nulla, l’io narrante si autorizza a ogni nefandezza, onnipotenza e violenza su chiunque attenti alla sua solitudine, che poi non è altro che libertà, nel segno della hýbris. Non a caso il sottotitolo del libro è Poeta del sangue. Non ha senso della misura né ragione questo imperatore a sputare sul principato augusteo, avendone acquisito l’eredità. Il successore di Tiberio deviò in direzione assolutistica l’impostazione iniziale, spinse l’arbitrio, per esempio, al punto di pretendere la presenza di una propria statua nel tempio di Gerusalemme, tradizionalmente iconoclasta. Il Caligola di Foschini è consapevole e paradossalmente impolitico, se non anarchico, sanguinario al punto di affermare:

«Nessun essere umano da me conosciuto che non meriti una morte feroce» e «io sono l’uomo che per primo dentro un impero di pagliacci avrà portato nell’odio bollente la divinità al potere. Basta politica».

C’è Antonin Artaud dietro questo imperatore-maschera, non solo, come è stato ben messo in evidenza da Antonio Veneziani, nel Nerone. Niente ha da spartire la prosa poetica di Foschini col teatro-svago né con la narrativa di intrattenimento. Non ha niente di metafisico o teologico, se non in senso postmoderno e laicamente neo-pagano, non presenta alcuna premessa dogmatica. La parola si fa gesto teatrale e oblio della scena classica e anzi perversione della scena. Nerone è un attore-uomo e altro-uomo che dice: «Ho idea che tutto questo avrà fine». Il suo dilemma è a suo modo morale: «un corpo devastato dalla violenza era bellissimo prima che la morale intervenisse. Ma non ci si poteva liberare perpetuamente della morale».

Nerone, contrariamente al luogo comune, non era un poeta mediocre. La sua passione artistica era autentica, la sua fu, almeno negli intenti, una rivoluzione culturale in parte ripresa da alcuni suoi successori e rientrava in un preciso programma politico. L’immagine caricaturale dell’esibizionista e dell’istrione, accreditata da una lunga tradizione iniziata con gli scrittori latini cristiani, è stata negli ultimi tempi, grazie ai contributi, tra gli altri, di Edward Champlin e Massimo Fini, fortemente discussa.

Nel Caracalla si realizza finalmente e impazza, sempre in termini di trasfigurazione visionaria, la teatralizzazione in assurdo contrasto e in continuità con la prima germinazione ottavianea, ovvero (storicamente) romanizzazione universale della Constitutio Antoniniana del 212 d.C., da cui furono esclusi i soli dediticii. Nel veneratore di Alessandro e cultore di Serapide viene abbattuto il pregiudizio o la ricostruzione di qualcosa che non è mai esistito, neppure nella convulsa fase di passaggio dal paganesimo al cristianesimo, che pure portava al suo interno elementi di conflitto tra due modi opposti di declinare i rapporti tra estetica e morale – o, se si preferisce, tra morale e individuo, sia pure non concepito secondo le prerogative che saranno proprie dell’età moderna, completamente ignorate dagli antichi. Sono necessari la perversione e lo spazio chiuso allo sprigionarsi della libertà creatrice, affinché, più che rappresentarsi, il visibile originario si autopresenti nel suo “doppio”, che può venire tanto da Artaud quanto dal simulacro di Klossowski.

Chiamiamola pure crudeltà e teatro della crudeltà, non sarà simbolo del vuoto e dell’assenza ma pura messa in scena questa originale contaminazione di storia e poesia e, per dirla con Derrida, parola di un teatro che «afferma, produce l’affermazione nel suo rigore pieno e necessario». Altri ancora sono i nomi che si potrebbero fare per le assonanze coglibili nella pregevole materia trattata da Andrea Foschini: Carmelo Bene, Beckett e Camus (per Caligola). La narrazione è sempre storicamente attendibile, pur nel suo antistoricismo in direzione del quale si sviluppa la ricerca della parola ulteriore.

 

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