“La disciplina della nebbia” di Massimiliano Bardotti (Collana Portosepolto, edizioni PeQuod)

Leggendo La disciplina della nebbia di Massimiliano Bardotti (Collana Portosepolto, edizioni PeQuod) mi è venuta in mente un’espressione del Luzi per la sua opera prima, La barca. A proposito di ciò che in quel libro si trovava, il poeta toscano parlò di fisica perfetta, intendendo con ciò parlare di una corrispondenza armoniosa tra interiorità ed esteriorità, tra realtà e sguardo; nozione che rimanda a qualcosa di più complesso, ovvero ad una realtà risanata dalla frattura tra oggettivo e soggettivo, tra l’esserci e l’Essere stesso, per dirla rispolverando Heidegger. Credo che un libro come questo (dico ora della Disciplina della nebbia), non possa essere stato scritto se non in uno stato di grazia, di ispirazione pressante che invita a “non tacere”. Il suo centro riposa, per un verso, nel cuore del poeta e, per l’altro, nel suo stesso sguardo: entrambi sentono e vedono nella stessa maniera, sapendo come tutto, infine, non possa che essere bellezza, una bellezza da cui nasce un senso di “premura per tutto quello che finisce”, ma anche percezione interiore di una sacralità che pervade ogni minuscola creatura e che invita, dunque, alla contemplazione e al rispetto di ogni singolo ente. In questa prospettiva, cosa può essere la poesia, se non espressione di una gratitudine per qualcosa che si è ricevuto in dono, qualcosa che abbiamo trovato, nonostante l’ingombro del nostro io?

Parole nascenti da una visitazione

Credo che nel caso delle poesie che compongono questo libro, si possa veramente parlare di una parola che sgorga veramente dalla pienezza del cuore, tanta è l’intensità religiosa che permea queste pagine. Il testo si snoda per cinque tappe o sezioni (Non possiamo tacere, Il gufo e l’allodola, Il dolore, la gioia, la pazienza, Delle benedizioni, La quercia e il mandorlo), tutte legate dalla stessa vitalità compositiva e tutte sotto l’impronta di un dettato stilistico coeso e coerente, centrato sulla naturalità dell’espressione poetica; aspetto, questo, che mi porta a pensare come questa sia un’ opera partorita in un lasso di tempo veramente breve, un tempo di grazia, mi permetto di dire, forse di “visitazione” da cui è sgorgato un dire che non poteva essere omesso o disconosciuto. Sì, dico una cosa grossa: per questa parola si potrebbe usare il termine di profezia, perché molte di queste parole sono cariche di un senso ultimo che sarebbe bene meditare e mettere a frutto.

Già nella prima sezione, Non possiamo tacere, il poeta si sofferma sulla mozione interiore che lo spinge a dire, a parlare. Assistiamo, in queste prime pagine, a un capovolgimento del canone poetico che ha imperato per tutto il XX secolo, ovvero quello forgiato da Montale con quel suo “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato…”; questa, contrariamente, è una poesia che nasce dal senso di una corrispondenza con “il ritmo antico del cosmo”, con “l’eterna armonia” che lega fra loro l’essere degli enti. E dunque si tratta di un verso colmo di stupore, di meraviglia, ritornato a un’infanzia dell’anima che spinge naturalmente a dire, a cantare. C’è, dice il poeta, una “bellezza che bisogna dirla tutta”, perché si tratta di un dire che non ha ancora preso le distanze dal sentire, ancora preso dal suo coinvolgimento estatico con ciò che vede e sente; non, insomma, un sentire tradito, incasellato nelle rigide e asfittiche categorie del pensiero.

L’attimo esatto della poesia

La poesia di Bardotti inizia “nell’attimo esatto in cui gli uccelli diurni cessano il canto / e attendono i notturni” e si pone come canto che opera una supplenza, necessaria a colmare un vuoto di sostanza, di fondamento che ogni essere avverte in sé, poeticamente cioè quella “dolcissima apnea in cui tutto si ferma”, situata tra attesa e struggente malinconia. Si tratta di quella posizione del limite dove spesso soggiornano i poeti, costretti a non potersi fidare di alcunché, e destinati a inventare (non è questa la poiesis?) un mondo dove l’uomo possa davvero abitare, trovando finalmente un approdo al suo continuo errabondare. Ma quello che potrebbe sembrare l’espressione di una posizione letteraria, riveste, in questo caso, il carattere di scelte esistenziali forti e irrevocabili, di un intenzionale distanziamento da un io la cui ombra finisce per offuscare i lineamenti della realtà.

Poesia e ascetica

Ecco perché Bardotti dice che ogni vero poeta è un asceta, intendendo con ciò quella pratica di fare il vuoto in sé, quello spazio interiore creato per dare ospitalità non solo al mondo, ma a “Colui che viene e fa nuove tutte le cose”. C’è dunque un “mondo” in questi versi; c’è l’apparire, il venire alla luce delle cose, rischiarate dal ritrarsi dell’io che tiene a freno la mano per fermarsi a contemplare “la meraviglia dell’ape”, il rosmarino”, “il volo della farfalla”; e c’è una parola felicemente compromessa con le cose e a queste fedele, anche in virtù di un’avvertita fragilità che riesce a ispirare versi commoventi come questi: Benché abbiano imparato /gli occhi miei/a piangere ogni morte/così come il cuore/a benedirne l’approdo/sento in me chiunque/abbia vissuto e vive”.

Amore antico e tempo nuovo

Forte di questo tirocinio di ascesi, il cuore del poeta abbraccia una dimensione dell’essere nella quale la linea di discontinuità fra tempo dell’apparire e tempo del nascondimento è colmata da un orizzonte diverso che ricompone vita e morte nel solco fecondo, anche se colmo di mistero, dell’essere stesso. Si tratta di un’esperienza che ci riannoda a un “amore antico che tutto ha preceduto, che tutto rende manifesto”, un amore che è un “vero tempo nuovo” in grado di “spazzare via quello che rimugina il vecchio”. Per chi vive qualcosa di simile, si ha la chiara percezione interiore di essere rinati alla vita, e di avere uno sguardo nuovo anche sul suo momento finale, ovvero sulla morte. E’ convinto infatti il poeta che è solo se si è “prossimi alla terra”, solo se si ha quella strana “ambizione della fossa”, che può nascere in ciascuno di noi “l’urgenza di fare il bene, di “praticare la salvezza”; e consumati da questo lungo tirocinio, farsi trovare pronti nel momento dell’ultima chiamata, quando una porta saprà “aprirsi da sola”, mostrandoci tutto “lo spazio che si nascondeva dietro di lei”.

Il tempo come una continua veglia

Questa percezione del tempo riavuto, del tempo ridonato per l’esercizio del bene, è dunque un nuovo tempo vissuto nell’atto del “vegliare”, perché la veglia non è solo il non cedere al sonno, ma una vigilanza spirituale nei confronti di chi ci sta accanto, sia questo un solo “petalo”, sia il “gelsomino e il suo mormorio”; significa  abbattere il muro dell’indifferenza per essere una cosa sola con le cose del mondo. E dunque, conscio di questa dilatazione del proprio essere, di un’individualità che è tale solo se è anche pluralità, ecco che il poeta avverte la necessità di parole nuove, “capaci di risuscitare”.

Il Padre interiore e la disciplina della nebbia

Con una sincerità di dettato che ci rimanda alle pagine delle Confessioni di Agostino d’Ippona, l’Io poetico di questo libro continua nella narrazione di un rapporto d’amore con un Tu interiore cui è dato il nome di Padre, un tu cui il poeta confessa anche il male come un “silenzioso (aggettivo preziosissimo) rompersi dentro di ogni pace”. E nelle pagine che seguono, la rottura del rapporto con il Tu originario, sembrerebbe essere posta a ragione di un peccato sociale che mina alle fondamenta il nostro rapporto col creato. La rottura dell’armonia, la distruzione del ritmo antico del cosmo, rende l’uomo cieco davanti alla bellezza del creato a tal punto che egli non ha più “visioni”, non riesce più a “nominare le cose”, dato che le cose non hanno vita per se stesse, ma solo in funzione dell’egoismo umano. Dice Bardotti che “tutto ci viene a mancare” perché “non abbiamo amato abbastanza” le creature del mondo, non abbiamo amato soprattutto la “nebbia” e la sua “disciplina”, che è disciplina di cautela, di attenzione e ponderazione di passi, tirocinio di ascolto e di sguardo. Aver diradato tutto e troppo in fretta lo spessore di mistero che soggiace agli enti, ha fatto di noi essere umani, creature bulimiche di esperienze e di cose, creature per le quali non esiste oggetto in grado di saziare la sete di assoluto che le divora. E questa bulimia di cose ha pure la sua ragione nella difficoltà dell’uomo di ascoltarsi e di fare i conti con se stesso; cristianamente forse si potrebbe parlare di uomini che non riescono più a rientrare in loro stessi e a convertirsi. “Se non siamo più umani è perché ricuciamo le ferite troppo strette e troppo in fretta, non le lasciamo respirare” dice il poeta, affermando con ciò tutta la difficoltà che l’uomo contemporaneo incontra nel guardarsi in faccia, nel fermarsi per ascoltarsi e capire cosa avviene al suo interno. Ma è solo in questa radura interiore dove l’uomo può “ritirarsi” , ponendo per un attimo (ma la salvezza è sempre la scelta di un attimo), il mondo a distanza, tanto a distanza da poter “ascoltare il battito del cuore”, che si levano, nitidi e vividi, i contorni delle persone che con il loro esempio e il loro amore, esercitano un’azione salvifica su ciascuno di noi.

La poesia e la parola riparatrice, ovvero Delle Benedizioni

Sono, queste, persone comuni, vicine al poeta, ma che grazie al loro lascito dell’amore, vengono a costituirsi come delle vere divinità domestiche; sono, soprattutto, i nonni con il loro” andare fino in fondo nelle cose/come anche nell’amore”, il padre con la sua “ostinazione a non sperare mai”, ma capace di umana e profonda commozione, la madre “sgomenta di ogni cosa/ma mai, mai, arresa”. Parola non facile, questa della benedizione, perché si porta dietro una rilettura della propria storia seconda una logica improntata all’amore, al perdono, alla comprensione; una logica emendata dalla volontà di potenza e finalmente figlia della natura dell’essere e dell’amore; concetto più volte ripreso in questo libro, soprattutto quando si dice che solo “chi ama è santo” e che è “solo dopo l’amore che si viene al mondo”.

Il prima della parola

C’è, dopo aver letto questo libro, come un senso di benessere che invade il cuore, un senso di corrispondenza tra ciò che è scritto e ciò che in fondo speravi di leggere. È come se l’anima assentisse a quelle parole e le facesse proprie, le riconoscesse come modalità altra di dire cose che essa sa, ma che non riesce a dire se non con il linguaggio immediato ed emotivo della carne.

Ci portiamo dietro la convinzione che fuori della parola non ci sia altro che il nulla o il niente; crediamo che tutto si regga sulla fragilità di un segno e di un suono, ma io ho la sensazione che non sia del tutto così, e che molto avvenga già prima della parola, già prima del segno.

Ho la sensazione che la parola non inventi il mondo, ma lo confermi e lo salvi; e nel salvarlo salvi l’unica cosa che conta, ovvero l’amore. C’è questo prima della parola, lo dicono i Vangeli: “La bocca parla della pienezza del cuore” (Matteo 12,33-35), c’è quell’ Amore di non voler perdere nessuno, prendendosi cura anche del “colibrì che non cessa il canto o il volo o del filo d’erba che s’innalza dalla terra”. 

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