“La gentilèssa” di Vivian Lamarque, “dalla poesia sono stata riconosciuta”.

La poesia è sovversiva, anche quando, con onesto e fermo garbo, valica il tempo, si espande plasmando lo spazio (ora fisico, ora intellettivo) dal quale “decide” di farsi ospitare. Ecco che, così, ci giunge “La gentilèssa”, volume “interminabile” scritto da Vivian Lamarque (Premio Strega Poesia 2023, nella foto di Dino Ignani), edito da “Stampa 2009”, arricchito dalla conversazione con Mary Barbara Tolusso. “È come un ulteriore tentativo naturale di portarsi a una condizione primaria di innocenza, e attraverso una lingua che per lei non è materna ma sicuramente legata al primissimo sentire, alla parola che sboccia nella testa nell’infanzia”, introduce Maurizio Cucchi. Versi scritti, come la stessa autrice dichiara, «nel “mio” milanese alquanto improbabile, mi sono anche concessa qualche parola che esiste solo per me». Versi titillanti possibilità («come è bella la gentilezza/ come è gentile/ mi fa così tanto bene/ dentro di me/ che divento matta») e interrogativi che abbiamo rivolto all’amabile poetessa.

La poesia è più ispirazione o più costruzione?

«Alla prima, l’ispirazione, segue poi la seconda. Sulla prima versione torno e ritorno, a distanza di tempo, anche di molti anni. Modifico persino versi già stampati: nel penultimo libro, “Madre d’inverno”, le correzioni sono state così numerose che ne è stata curata una nuova edizione».

Dove è stata condotta dalla poesia, cosa ha colmato o cosa crede possa colmare? 

«Ho iniziato a scrivere poesie a dieci anni, nei giorni più difficili della mia infanzia. E da allora, quindi da quasi settanta anni, non ho mai smesso. Accanto alla vita che vivo, ne scorre una di carta, una sola non mi basta. Da bambina colmò un vuoto enorme, poi negli anni ne colmò molti altri. Ma certo, anche i giorni belli l’hanno nutrita, illuminata».

In che modo la (sua) vita diventa parola?

«All’inizio sono state vicine come due compagne prima di classe, poi di banco poi, anche dopo la scuola, non si sono più perse di vista. Via via negli anni il legame si è fatto più stretto e, a un certo punto, non saprei precisare quando, non sono più riuscita a separarle quelle due».

Immagini di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali darebbe?

«Direi loro che non è obbligatorio scrivere poesie! Spesso se ne sente la necessità nel marasma dell’adolescenza e ben vengano. Ma non perché hai iniziato sei costretto a continuare. Se non ne senti un’urgenza, se non è lei a presentarsi, ma sei tu a volerla a tutti i costi evocare, meglio sospendere. Forse si ripresenterà da sé più avanti, forse mai più. Per esempio se non desideri leggere la poesia altrui, se sei interessato solo alla tua, è un brutto segno. In ogni caso, se sei proprio deciso, ricordati che quello che scrivi non è sacro, è quasi sempre una brutta copia su cui tornare e ritornare a distanza di tempo, almeno io, come dicevo, faccio così».

Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?

«Sull’estratto del mio certificato di nascita, nella riga del nome paterno sta scritto: IGNOTO. Negli anni dello sfollamento durante la guerra, mio padre (preside della sua provvisoria prof di francese, mia madre) non mi riconobbe come figlia. Quattro anni dopo, neppure il mio babbo adottivo, grande Vigile del Fuoco, fece in tempo a riconoscermi come adottata, ma solo come affiliata, poiché morì giovanissimo, prima della conclusione della pratica.  Invece, ecco la risposta alla sua domanda, dalla poesia sono stata riconosciuta».

Per concludere, la invito, per salutare i nostri lettori, a riportare sue tre poesie – dal suo libro La gentilèssa – e di queste a sceglierne una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere (nel contesto del libro che l’accoglie).

Le tre poesie del libro sono: Pèss fritt, Gajna malada (in questa ho poi tolto dai due versi finali “l’è minga giust ma), La gentilèssa.

Pèss fritt:

Anche nel 2000 si può attendere con ansia una telefonata che non arriva.

Ma col telefonino in tasca si può attendere meno ansiogenamente, si può attendere uscendo, andando a spasso. Ai miei tempi di telefono inchiodato al muro, attendevo anch’io inchiodata (inciudada) a lui, prigioniera, come una agli arresti domiciliari.

E la poesia, nella seconda parte, mette in scena anche il panico – quando infine lo squillo arriva – di non saper più cosa dire, blackout. È allora che appaiono i pèss fritt.  

 

Scelte per voi

GAJNA MALADA

Da quel dì
che te m’è scritt inscì
m’è capità ’n quaicoss
me interèssa pù nient
l’è minga giust se fa no inscì
ma me interèssa pù nient e alura

alura me mètti in d’un cantun
come ‘na gaìna malada
la cort ‘l pollé i alter gaìnn
vedi tuscoss ma m’interèssa nient
l’aqua fresca de bev
i granitt giald de mangià
nient, col crapin sotta l’ala che bèl scur
che bèl caldin ch’el fa
par de vèss un poresin denter la mama
che bel sentì i rumur luntan luntan
col crapin sotta l’ala che bel caldin
che bel caldin ch’el fa.

GALLINA MALATA: Dal giorno / che m’hai scritto così / mi è successo qualcosa / non m’interessa più niente / non è giusto non si fa così / ma non m’interessa più niente e allora / allora mi metto in un angolino / come una gallina malata / il cortile il pollaio le altre galline / vedo tutto ma non m’interessa niente / l’acqua fresca da bere / i chicchi gialli da mangiare / niente, col crapino sotto l’ala che bel buio / che bel caldino che fa / sembra di essere un pulcino dentro la sua mamma / che bello sentire i rumori lontano lontano / col crapino sotto l’ala che bel caldino / che bel caldino che fa.

PÈSS FRITT

L’è tutt el dì che sun chì a spetà la tua telefunada
stu chì me movi no stu chì inciudada
a pensà ai robb de ditt
a tutti i drin fu un salt ma l’è la mama
la zia ‘l diaul la cugnada te set mai tì.
Inscì a pensà ai robb de ditt u passà la matina
‘l dopumesdì la sera
e adess che gh’è foeura la luna
adess ghe la fu pù e alura alura
salti su in pé sul taulin
me mèti a fà mì fort fort drin drin
pussé fort driin come ‘na disperada
e poeu disi pronto pronto e varda
te set propi tì che te me diset cume la va?
ste me cuntet de bèl?
e alura tutt a ‘n trat
me desmenteghi tutt quel che te vurevi dì
de tutt chi robb me ven in ment pù nient de nient
ma devi truvà subit ‘n quaicoss
subit se no ti te diset bèh ciau e te tàchet su

ier u cumprà di bei pèss d’un culurin azuritt ciar
e gh’u tajà via ‘l cu puarètt la cua
gh’u dervì i pansc poeu i u lavà ben ben
i u passà ne la farina bianca e i u fù fritt puarètt
fritt.
Tì te diset “ah sì? fritt?”
e poeu te diset pù nient de nient
e anca mì disi pù nient resti lì imbambulada
come i pèss fritt azuritt.

PESCI FRITTI: È tutto il giorno che son qui ad aspettare la tua telefonata / sto qui non mi muovo sto qui inchiodata / a pensare alle cose da dirti / a tutti i drin faccio un salto ma è la mamma / la zia il diavolo la cognata non sei mai tu. / Così a pensare alle cose da dirti ho passato la mattina / il pomeriggio la sera / e adesso che c’è fuori la luna / adesso non ce la faccio più e allora allora / salto su in piedi sul tavolino / mi metto a fare io forte forte drin drin / più forte driiin driiin come una disperata / e poi dico pronto pronto e guarda / sei proprio tu che mi dici come va? / cosa mi racconti di bello? / e allora tutt’a un tratto / mi dimentico tutto quello che volevo dirti / di tutte quelle cose non mi viene in mente più niente di niente / ma devo trovare subito qualcosa / subito se no tu dici bèh ciao e metti giù/ ieri ho comprato dei bei pesci di un colorino azzurrino chiaro / e gli ho tagliato via la testa poveretti la coda / gli ho aperto la pancia poi li ho lavati ben bene / li ho passati nella farina bianca e li ho fatti fritti poveretti / fritti. / Tu dici ah sì fritti? / e poi non dici più niente di niente / e anch’io non dico più niente resto lì imbambolata / come i pesci fritti azzurrini.

LA GENTILESSA

Come me piass a mì la gentilèssa
come me piass diventi matta
do parulitt al moment giust
’n attenzion minimissima de nient
’l fu parì no ma diventi matta
me riden el coeur i occ
e financa i occiai
come l’è bèla la gentilèssa
come l’è gentilla me fa tant ben ma tant
denter de mì
che diventi matta.

LA GENTILEZZA: Come mi piace a me la gentilezza / come mi piace divento matta / due paroline al momento giusto / un’attenzione minimissima da niente / non lo faccio vedere ma divento matta / mi ridono il cuore gli occhi / e persino gli occhiali / come è bella la gentilezza / come è gentile / mi fa così tanto bene / dentro di me / che divento matta.

 

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(la versione ridotta di questa recensione-intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 29.12.2024, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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