Jean Siméon Chardin Paiolo di rame stagnato x bernini
Jean Siméon Chardin Paiolo di rame stagnato



Quando ero bambino, al mio paese c’era un ferrivecchi, uno di quegli ambulanti che giravano a raccattare tutte le cose in ferro e simili di cui la gente voleva liberarsi. Me lo ricordo bene: era un uomo con le spalle larghe, due folti mustacchi e i radi capelli schiacciati con la brillantina. Se ne andava in giro con un camion tutto sgangherato che sputava un nero fumo di gasolio e cigolava dalle quattro ruote. Quest’uomo era stato partigiano sulle colline dell’Oltrepò, quarant’anni prima. Era cugino di mio nonno e viveva nello stesso casamento, con annesso cortile dove ammucchiava tutta la sua ferraglia per poi rivenderla chissà dove. Io la guardavo come se fosse una macchina improbabile formata casualmente con la sovrapposizione dei pezzi più disparati. Verso gli orti aveva un porticato pieno di ogni genere di cianfrusaglia che selezionava dal suo grande mucchio e che teneva per sé, come se quegli oggetti avessero qualcosa di più prezioso rispetto agli altri e gli fossero utili o necessari a qualcosa: bulloni di tutte le misure, chiavi inglesi arrugginite di ogni dimensione, punteruoli stortati, motociclette ossidate dal tempo che sembravano ormai un corpo unico e poi ruote di vecchie biciclette mancanti di qualche raggio qua e là e tanti altri reperti che sembravano formare un museo del superfluo, piuttosto che una rimessa. Io però ci andavo sempre per vedere una cosa che mi aveva colpito fin dalla prima volta che la vidi. Stava appesa su, in alto, quasi sul tetto di lamiere sconnesse. Svettava lucida e sembrava lì per manifestare di essere il prodotto di un lavoro fatto con molta cura. Era una grande padella del diametro di circa due metri! Con due ampi manici ai lati. La prima volta che la vidi me ne restai là, con il naso all’aria, completamente sbalordito ed esterefatto da così tanta magnificenza. Mi domandavo chi mai avesse potuto cucinare lì dentro e a che cosa era servita in passato. Quale mistero si nascondeva dietro quell’enorme strumento culinario, da dove proveniva? Fantasticavo nella mia mente di bambino cose che mi portavano dentro a vecchi castelli dove si imbandivano pranzi pantagruelici, oppure mi perdevo nelle fantasticherie più improbabili, immaginando che fosse servita per preparare il rancio di un esercito di soldati affamati. Un giorno il ferrivecchi mi sorprese che la guardavo con gli occhi incantati, mi si avvicinò sogghignando e mi disse: “Lo sai a che cosa serviva?”. Io naturalmente risposi di no e dal basso della mia altezza guardavo lui, alto, possente, guardare verso di me e fare una smorfia di scherno da dietro quei due mustacchi bisunti e marroni dal fumo delle sigarette. “Era di un orco che viveva sulle colline, tanti anni fa, e la usava per friggere i bambini curiosi che si avventuravano fino alla sua casa”, disse tutto d’un fiato senza neppure lasciarmi il tempo di capire bene. Poi prese una scala, lo vidi salire fermo e deciso e staccare quell’enorme padella da uno dei manici appesi a una trave. La portò giù. Lì per terra, quel terribile strumento dell’orrore, faceva ancora più impressione. Non era pesante, era di alluminio ed era alta circa venticinque centimetri. Io per istinto ci andai dentro, così, per vedere che effetto facesse. Il ferrivecchi mi guardava proprio come un orco guarda un bambino. Scappai, mentre sentivo la sua risata feci in tempo a udire queste parole: “E sarebbe stata giusta giusta della tua misura!”. Tornai altre volte a guardare quella padellaccia, là appesa in alto, tremando dalla paura ma irresistibilmente attratto da qualcosa che navigava nella mia fantasia. Ora che sono grande so che probabilmente era stata fabbricata per quelle sagre di paese dove si cucinano grandi quantità di cibo per le ricorrenze e le festività. Ma non importa, non importa nulla. Nessuno mi potrà mai cancellare dalla mente quella fantasia. In fondo, signori miei, a che serve la vita se non siamo noi, prima di tutti, a conservare così come sono, e a potercele raccontare, le storie che hanno affascinato la nostra parte più bella, quella del bambino che non smette mai, per tutta la vita, di curiosare per il mondo?

Potrebbero interessarti

Una risposta

  1. Pingback: otis