Io mi sento del tutto attraversata, anzi vissuta, dal tempo presente. Mi piace abitarlo nel mo(n)do più ubiquo, e comunque anche se non volessi è così: avverto e partecipo le vite degli altri, specie i frammenti quotidiani, patimenti e sogni, e dubbi. Viviamo tutti un momento storico ad altissima densità di buio, con lacerazioni e improvvisi squarci che abbagliano, confondono la vista. Penso che allo scrittore tocchi questo: testimoniare il suo presente. Non giudicarlo né fornire verità take-away, ma raccontarlo attraverso il suo spiraglio e le sue parole. Mi piace dire che lo scrittore è un termovalorizzatore umano, che trasforma le scorie e i detriti in risorse e valori per la comunità. Perché ho scritto questa storia? Un autore scrive il romanzo che vorrebbe leggere, che cerca e non trova fra gli scaffali del mondo. Lo scrive per poterlo leggere. Com’è nata questa storia? Da una visione e da un viluppo, un nodo che premeva. Bataille dice che ogni storia nasce da un’insubordinazione, un grumo che invoca uno scioglimento. Mi è balenata addosso quest’immagine bella e archetipica di un paese da favola, col suo fiume, la chiesa, la pineta, la sua gente seduta al bar, la farmacista e i fichi centenari. Poi ho appiccato il fuoco in pineta, per vedere cosa succedeva. Nel paese-da-favola irrompe, brutale, la contemporaneità. È un po’ il congegno di cui parla Saramago, la storia nasce da una sfida interna, da una situazione portata allo stremo, paradossale all’inizio ma del tutto logica all’interno. È emozionante assistere a questa deflagrazione: il presente che fa esplodere le quinte di un paese, i suoi luoghi comuni, la sua stessa umanità. Tutti cominciano a lanciarsi nel vuoto, senza una ragione. O, almeno, senza una ragione apparente. Perché c’è sempre una ragione dentro. Ho adottato da tempo come padre spirituale Calvino. E non solo per lo straordinario ruolo che ha avuto come intellettuale e guida all’Einaudi per trent’anni. Sento mia la sua aspirazione alla leggerezza come levità e armonia, la sua conciliazione d’autore fra logica e magia, nostalgia e senso di futuro. Io la chiamo vena malincomica. Quella distonia fra sorriso e commozione, sperdimento e desiderio che cerco nelle mie storie. In Scusate la polvere, come in quest’ultimo mio romanzo, c’è questo fragile equilibrio, come una danza sulla soglia estrema, fra la luce e il lutto, il volo e il precipizio. In mezzo, in tutti i sensi, sta il romanzo della nostra vita. Che io, da devota del pensiero Zen, non vedo mai sbagliato o accidentale. Il messaggio di questo mio nuovo romanzo è affidato allo scrittore, protagonista quasi trasparente. Mi piace crederlo, che ci crediamo tutti: la letteratura può salvare il mondo.
Elvira Seminara
Elvira Seminara vive tra Catania e Roma. Giornalista professionista dal ’91, prima di dedicarsi interamente alla scrittura è stata cronista nella redazione de La Sicilia e docente a contratto di Storia del giornalismo e di Scrittura creativa nella facoltà di Lettere a Catania. Tra i suoi romanzi, tradotti in diversi paesi: L’indecenza (Mondadori 2008); I racconti del parrucchiere (Gaffi 2009); Scusate la polvere (Nottetempo 2011); La penultima fine del mondo (Nottetempo 2013); Atlante degli abiti smessi (Einaudi 2015), I segreti del giovedì sera (Einaudi 2020), Diavoli di sabbia (Einaudi 2022). Nel 2014 il teatro Stabile di Catania ha messo in scena la sua dark-comedy “Scusate la polvere”, e nel 2015 “L’indecenza”, con sceneggiatura di Rosario Castelli e regia di Gianpiero Borgia. Crede nella contaminazione dei linguaggi e nella riconversione di ogni cosa; nell’arte del recupero e nell’economia circolare - di materia e spirito, dalla parola al gesto. Si definisce una cantascorie. (Non è un refuso, è scritto con la c).
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