Eso Peluzzi
Eso Peluzzi

Di nuovo un uccello a rappresentare la figura del poeta, ma tra tutti il più nobile: il cigno. E infatti l’autore che va ad identificarsi con questa raffinata figura selvatica è uno dei poeti più aristocratici (per qualità e spessore della propria estetica) della storia, Stéphane Mallarmé (1842 – 1898). Al contrario del suo illustre maestro, Charles Baudelaire, che nella poesia “Le Cygne” (inserita nella sezione “Tableaux parisiens” dei suoi “Fleurs du mal”) sfrutta l’immagine del volatile come allegoria di una violenta ribellione nei confronti della condizione naturale sofferta dall’uomo o eventualmente dell’ingrato destino imposto da una divinità beffarda, Mallarmé rappresenta con glaciale ermetismo una tragedia ormai in frantumi che sta in piedi solo grazie a una perfetta struttura compositiva. Il cigno si ritrova a riconoscere il proprio splendore, che però lo ha reso perfettamente estraneo alla realtà, così da non poter far niente per concretizzare il proprio slancio ideale verso un irraggiungibile assoluto. Conseguenza fatale del proprio ascetico idealismo è un’annichilente immobilità, una dolorosa impotenza, un’implacabile inadeguatezza della mente mai decisa all’azione. Allo stesso modo l’agave montaliana, che sta impietrita sullo scoglio, e i cui chiusi boccioli non sanno fiorire (come il cigno che non è più capace di volare), soffre la propria staticità come un tormento.

Ecco infine la mia traduzione del celebre sonetto mallarmeano:

Il vergine, il bello e il vivace presente

con un colpo d’ala ebbra a noi frantuma

il duro lago obliato che sotto il gelo assilla

il ghiaccio trasparente dei voli mai fuggiti!

Un cigno d’altri tempi ricorda di esser lui

magnifico ma sa di elevarsi invano ormai

per non aver cantato il luogo dove vivere

quando dell’inverno sterile splendeva la noia.

Il suo collo scrollerà quella bianca agonia

dallo spazio inflitta all’uccello che lo nega,

ma non l’orrore del suolo che afferra le piume.

Fantasma qui destinato dal suo puro bagliore,

s’immobilizza al freddo sogno di disprezzo

che ammanta nel suo inutile esilio il Cigno.

Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui

Va-t-il nous déchirer avec un coup d’aile ivre

Ce lac dur oublié que hante sous le givre

Le transparent glacier des vols qui n’ont pas fui!

Un cygne d’autrefois se souvient que c’est lui

Magnifique mais qui sans espoir se délivre

Pour n’avoir pas chanté la région où vivre

Quand du stérile hiver a resplendi l’ennui.

Tout son col secouera cette blanche agonie

Par l’espace infligée à l’oiseau qui le nie,

Mais non l’horreur du sol où le plumage est pris.

Fantôme qu’à ce lieu son pur éclat assigne,

Il s’immobilise au songe froid de mépris

Que vêt parmi l’exil inutile le Cygne.

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