La «Solarità» nella pittura. Da Hopper alle nuove generazioni

Anteprima

Come è nato questo libro

Questo libro nasce da un altro libro: Figura solare – Un rinnovamento radicale dell’arte, inizio di un’epoca dell’essere, pubblicato in Italia dall’editore Marietti, nel novembre del 2011. Come si intuisce dal titolo è un saggio che ipotizza una svolta dell’arte in atto, concentrando l’attenzione sulla pittura. Alcuni pittori già dagli anni ottanta avrebbero fatto questo passo spontaneamente, superando le fasi analitiche e decadenti della contemporaneità. Non si tratta di un semplice cambio di stile che qui si vuole proporre e teorizzare, piuttosto si tratta di un rinnovamento legato a un istinto espressivo. Rinnovamento difficile da afferrare perché, come osserveremo, in tutti i passaggi d’epoca si capovolgono i criteri estetici, che si devono necessariamente rifondare su elementi universalmente validi che abbiano un’origine, in un certo senso, “fisiologica”. Infatti negli ultimi decenni questi artisti, pur avendo riscosso un certo successo, sono stati compresi solo in parte in quanto la loro opera è stata interpretata con criteri attuali, mancando l’abitudine a cogliere certi aspetti che si vuole qui mettere in evidenza e valorizzare. Questo secondo libro, oltre a fare un sunto facile del primo, e chiarire questioni nate da una sua prima lettura, si sofferma nell’osservazione accurata dei dipinti, cercando di farne emergere le qualità estetiche, punto fondamentale per comprendere il cambiamento, offrendo lo spunto per una nuova direzione di ricerca.

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Abstract dal libro La «Solarità» nella pittura
Da Hopper alle nuove generazioni di Nicola Vitale (Mimesis / Forme del possibile)

Osservazioni sulle opere di:
Hopper, Balthus, Hockney, Ontani, Salvo, Knap, Kunc,
Angermann, Bowes, Friðjónsson, Bonechi, Abate e altri

Ormai da decenni nel mondo dell’arte contemporanea si parla di crisi, di esaurimento delle possibilità dei linguaggi, di “morte dell’arte”. Nicola Vitale pone in modo deciso l’ipotesi che ci troviamo sulla soglia di un passaggio epocale, esponendo in modo chiaro e dettagliato la tesi che alcuni artisti indipendenti del panorama internazionale hanno raggiunto una forma radicalmente rinnovata dell’arte, a cui egli ha attribuito il nome di Figura Solare. Qui sono unite in una sintesi originale le aspirazioni di un nuova integrità dell’uomo presenti nella ricerca dell’ultimo secolo, colte nell’arte come una universalità estetica ritrovata. Il presente testo infatti è un ulteriore sviluppo del volume dello stresso autore: Figura solare – Un rinnovamento radicale dell’arte, inizio di un’epoca dell’essere, pubblicato in Italia nel novembre del 2011 dall’Editore Marietti 1820.
L’arte anticipa i tempi, come sostengono i filosofi, ma un passaggio di tal genere comporta un radicale cambiamento di prospettiva, un modo diverso di cogliere l’espressione artistica al di là dei condizionamenti intellettuali che sono prevalsi nel Novecento.
Per questa ragione, prima di affrontare l’argomento, l’autore ha dovuto ripercorrere la storia dell’arte occidentale alla luce delle categorie nietzschiane di apollineo e dionisiaco (il sogno e l’ebbrezza), colte nell’esperienza concreta della pittura e della scultura. Sono queste infatti le uniche categorie che ci permettono di cogliere l’arte in un confronto tra rappresentazione e vitalità, tra conoscenza e istinto, tra cultura e natura. Nietzsche individua nella compenetrazione dei due principi l’essenza dell’arte, viceversa nel loro confliggere vede invece la decadenza.
Sin dalle origini dell’arte occidentale si riproducono le stesse dinamiche, per cui da una prima coltivazione dell’unità dei due principi (arte greca arcaica, bizantina), progressivamente si privilegia l’aspetto analitico della rappresentazione apollinea, come è successo nell’Ellenismo e nel Manierismo cinquecentesco e in varie alternanze fino all’Ottocento romantico, portando l’arte alla conflittualità reattiva e alla crisi. Scopriamo che la stessa decadenza dell’arte contemporanea è dovuta al medesimo processo, per cui da circa metà del novecento la critica e gli stessi artisti si sono concentrati sull’analisi del linguaggio, tralasciando la forza dionisiaca dell’immagine, che trascende liricamente le rappresentazioni, tipica della prima arte moderna, quando il ciclo dell’arte ricominciava da capo.
Ma la scissione tra apollineo e dionisiaco che caratterizza la crisi dell’arte di oggi è il riflesso della scissione della coscienza dell’uomo occidentale, che impedisce di trovare un senso dell’esistenza non finalizzato, uno degli aspetti di ciò che i filosofi chiamano “nichilismo”.
L’impossibilità dell’arte attuale di proseguire nell’innovazione o di ritornare alla tradizione offre uno spunto di riflessione. Scopriamo che l’arte moderna alle sue origini da una parte è innovativa, con la ricerca di un autonomo stile, dall’altra ritrova invece elementi delle più antiche tradizioni: orientale, africana, greca preclassica ecc. Emergono così due concezioni di tradizione: l’una coglie la temporalità dell’arte, l’altra l’eternità. La tradizione decade quando si passa alla sola temporalità colta nella raffigurazione esteriore del naturalismo e nelle stilizzazioni imitative. Viceversa l’eternità dell’arte, peculiare delle tradizioni sacre, è coltivata in origine grazie a modelli canonici nei quali sono privilegiati i rapporti ritmici. Gli artisti della prima modernità infatti estrapolano dalle antiche tradizioni quelle tensioni, ritrovando il valore universale delle immagini, liberato tuttavia dai precetti dogmatici. Saranno così uniti e trascesi i concetti di tradizione e innovazione.
Nel novecento alcuni artisti hanno saputo unire nella loro opera tradizione e innovazione come descritto; tra questi Edward Hopper e Balthus hanno raggiunto una personale sintesi, ma l’interpretazione dell’epoca ne ha frainteso il senso. Cercando di superare il fraintendimento scopriamo, con l’aiuto di un testo critico del figlio di Balthus, il sussistere nell’opera dei due artisti di valori espressivi inconsueti nella tradizione occidentale, per cui attraverso un particolare uso delle forme i contenuti paiono in contraddizione tra loro: desolata solitudine e vitalità interiore (in Hopper), perversa sensualità e purezza (in Balthus) dando luogo a un nuovo ed enigmatico senso espressivo in cui si conciliano gli opposti, e dove si cela una concezione radicalmente diversa dell’arte.
Il mistero che avvolge l’opera di Hopper e Balthus è da riferirsi all’applicazione in pittura di un processo vicino a quello dell’antica Alchimia. Pratica sapienziale dalle origini ancestrali che accompagna sotterraneamente la cultura occidentale sin dalle origini, affiorando solo a tratti in alcuni aspetti della conoscenza e dell’arte. Si sottolinea come il processo alchemico sia cosa molto più semplice ed istintiva rispetto all’aura mitica di mistero e magia che le si attribuisce. Si tratta infatti semplicemente del tentativo di comprendere e assimilare i processi di trasformazione della natura, che intervengono spontaneamente nella vita dell’uomo, spesso perseguiti spontaneamente senza averne diretta coscienza. È il modo di raggiungere un senso esistenziale profondo nella congiunzione degli opposti.
Questa via alchemica applicata alla pittura (come già avvenuto in varie epoche come il Rinascimento) è oggi intrapresa da alcuni artisti mossi da un particolare istinto creativo nella congiunzione degli opposti; istinto che sembra rispondere a una nuova esigenza profonda dell’espressività contemporanea. La ritroviamo infatti tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80 del novecento, quando alcuni artisti europei e statunitensi riprendono a dipingere in modo “tradizionale” ispirati dagli antichi maestri, tuttavia superando la concezione Postmoderna dell’arte allora vigente, rinnovandone radicalmente i presupposti; sono Salvo, Jan Knap, Milan Kunc, Peter Angermann, Luigi Ontani, Helgi Fridjonsson, Lorenzo Bonechi, David Bowes.
Questi artisti, valorizzando anche la lezione dell’astrattismo, enfatizzano le tensioni di forme e colori, impiegando però tali mezzi per la realizzazione di immagini figurative particolarmente vive, che sembrano attingere a temi e forme degli stereotipi popolari o illustrazioni per l’infanzia. Questi elementi, d’altro canto, riemergono spontaneamente come gioco popolare di intrattenimento (vignette, pupazzi, peluche, ecc.) che denota nell’uomo contemporaneo una scissione della coscienza e un bisogno di una sorta di regressione terapeutica vitalizzante, proiettata in una particolare forma di immaginario, che Julia Kristeva attribuisce a una nuova esigenza di sacralità che oggi si manifesta in modo del tutto inconsueto.
Si tratta di un capovolgimento di orizzonte in cui questi contenuti “bassi” devono essere riabilitati e reintegrati nella globalità della coscienza, dunque riuniti con l’aspetto intellettuale.
Infatti nella rielaborazione pittorica degli artisti proposti, queste figure vengono trasfigurate e sublimate dall’energia dionisiaca: splendore dell’immagine realizzato con una particolare coordinazione estetica dei rapporti tra le forme e tra i colori. Ma in questa rielaborazione vivificante giocano anche elementi drammatici e aberrazioni, il cui contenuto negativo è neutralizzato e reintegrato nel processo, nel quale sono coinvolte anche conoscenze razionali filtrate in particolari strutture formali.
L’analisi dell’opera di questi pittori che ritrovano l’originaria esperienza estetica, rivela una nuova concezione espressiva, che lascia intuire un modo radicalmente rinnovato di essere e di affrontare l’esistenza, dove è valorizzata l’unità della coscienza, in cui si fondono in una gioiosa giocosità torbidi contenuti e sofisticate conoscenze proprie della nostra epoca, trascesi e trasfigurati nello splendore delle immagini.
Negli ultimi vent’anni troviamo artisti molto noti come David Hockney, che hanno modificato radicalmente il loro lavoro espressivo orientandosi spontaneamente nella direzione qui teorizzata. Ma anche alcuni artisti più giovani, che noncuranti delle mode internazionali che il mercato dell’arte cerca di indirizzare, hanno intrapreso spontaneamente questa strada, ispirati semplicemente da una necessità di senso e di bellezza proiettata nel presente.
Dopo tali sviluppi teorici, la seconda parte del libro è dedicata all’analisi delle opere di 22 artisti, da Hopper alla nuove generazioni. Dopo una breve introduzione storica su ciascun artista e sulla sua opera in generale, si concentra l’attenzione su un dipinto scelto tra i più significativi, per cercare di coglierne la qualità estetica, scendendo in approfondite considerazioni formali ed espressive.
La parte finale del libro è dedicata alla risposta alle principali obiezioni e critiche mosse al primo libro Figura solare, chiarendo questioni fondamentali legate non solo alla teoria ma soprattutto ai problemi di percezione che questa visione dell’arte comporta. Infine sono portati alcuni esempi di film, romanzi, poesie, spettacoli teatrali, noti al pubblico occidentale, orientati verso una poetica analoga a quella qui teorizzata per l’arte visiva.

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dalla Prefazione di Elio Franzini

Non è certo possibile compiere una “storia” della pittura in Occidente. Tantomeno comprendere un modo pittorico assoluto di guardare il mondo e le cose.(…) Ebbene, di fronte a tale varietà, ciascuna delle quali mira comunque a dire una “verità”, sia pure parziale, sulla realtà dell’opera in quanto evento, in quanto differenza – enti diversi all’interno di una generica ontologia regionale – è forse lecita la domanda: questi enti hanno qualcosa in comune? (…) Per cercare di rispondere a questa domanda, ci viene in aiuto l’intelligente e provocatorio volume di Nicola Vitale. Vitale infatti ben sa che, nelle sue giravolte, l’arte visiva si trova oggi di fronte a un vuoto, avendo esaurito, come scrive, in una temporalità estenuata, il proprio percorso analitico. Non è più il tempo, anche per l’estetica e la filosofia, di limitarsi a pur dotte considerazioni sull’immagine cercando di risolvere le differenze in un quadro definitorio soddisfacente e ben orientato.
Le opere d’arte, già lo insegnava Merleau-Ponty, non sono soltanto una questione di cultura e, a rigore, neppure di percezione. Di fronte a ciascuna opera si verifica comunque, come nel finale dell’Andrei Roublev di Tarkovski, un passaggio dal bianco e nero al colore: di fronte ad essa si rimane muti perché è apparso, alla nostra vista, al nostro tatto, alla nostra sintesi corporea, un evento che, pur nella sua visibilità, non si esaurisce in essa e non può venire riportato alla chiarezza e alla distinzione della parola. (…) In questo orizzonte di “differenza”, rimanere muti non è né segno di misticismo né quello del malefizio del silenzio che accompagnava le streghe: non è né fede né demonica magia bensì, per dirla con il Teste di Valéry, un “misticismo senza Dio”, in cui il mutismo è interrogazione sul senso, dove cioè il guardare è anche volontà di afferrare ciò che non si esaurisce nell’immagine visibile: è la capacità dell’opera di oltrepassare i limiti illusionistici dell’immagine verso ciò che la tradizione del discorso filosofico sulla pittura a partire dal secondo Concilio di Nicea chiama “l’invisibile”.
In questa interrogazione, scegliendo una via pittorica di grande originalità, il percorso di Vitale porta verso un modo “nuovo” di concepire e fare arte, che cerca appunto l’essenza della pittura: un modo, come osserva, che si allontana da ogni stilizzazione ideologica (moderna o postmoderna) per recuperare una sensibilità “antica”, dove l’immagine pittorica non riflette una dimensione manieristica, bensì va alla ricerca della sua vitalità figurativa. In questo percorso, gli artisti che sono al centro del lavoro di Vitale fanno parte del “Novecento”, ma al tempo stesso non cedono alle sue ideologie o lusinghe, privi come sono della vergogna di mischiare tra loro elementi differenti, che vanno dalla cultura popolare alla fiaba. Il loro fine è generare una dimensione “solare”, che costruisca progressivamente una sua propria sacralità.

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