Se è vero quanto affermava Bigongiari a proposito del testo poetico, il quale eccederebbe sempre il suo senso, come a dire insomma che il ‘tutto’ poetico è sempre qualcosa di superiore rispetto alla somma matematica delle parti che lo compongono, ciò troverebbe sicuramente un riscontro empirico già nel titolo dell’esordio della giovanissima (e talentuosa) Alessia Iuliano, poetessa di Termoli (classe 1995), Non negare nessuno, edito per i tipi di CartaCanta nel 2016. Analizzate singolarmente, le tre parti del discorso grammaticale che lo compongono lascerebbero infatti ipotizzare a una scrittura poetica che si situa sul versante – prettamente novecentesco – di una linea che fa del tripudio della negazione l’unica certezza gnoseologico-esistenziale (Non chiederci la parola ecc., tanto per capirci) a cui il poeta può aspirare. Tanto di più distante, invece, dall’ardore giovanile e dal furore poetico della Iuliano che già nel testo incipitario della prima sezione, Imprevisti, ribadisce con un Amen (senza accentazione: a indicare dunque la constatazione di una realtà fattuale più che congiuntivo ottativo?) la sua adesione piena e ferita al «mondo» circostante: «Dio // mio la confusione / è poco, confusione / è mondo ma ti sento // nelle lontananze» (p. 17).
La poesia della Iuliano nasce dunque da un’affermazione netta, da un sì deciso che l’io lirico ribadisce con vigore nei vari brandelli – quotidiani, metropolitani, naturali, elegiaci, notturni – che compongono il libro: «Questa notte così folta / ha la violenza / delle cose che stupiscono / quando serrata / la bocca non basta // è il tuo gridare / muto […] // è la tua sete a chiamarlo» (p. 20).
C’è dunque una particolare custodia degli occhi, di questi «occhi mortali» (p. 24) che il poeta è chiamato a preservare («prenditi cura, sì. / Prenditi cura degli occhi», p. 23), anche conscio della responsabilità che «ho addosso / cuciti milioni di sguardi / nessun rimpianto» (p. 32), perché la sua voce possa essere all’altezza della «bianca / bellezza che traspare // e le piace andare via» (p. 30).
Ma è soprattutto nella sezione eponima (e centrale) del libro che si fa più evidente (e dunque lancinante) la «nostalgia di un contatto pieno con l’altro», come scrive Valentino Fossati nella prefazione, ovvero la vocazione di essere soltanto «un abisso / per non negare nessuno» (Zona Unich, p. 39). Con questa umiltà – non di facciata, non di maniera – che si potrebbe ben dire femminile, uterina, la ‘resa’ razionale del soggetto («Alla nostra labilità / oggi mi arrendo // taceranno le stanze / il tempo, l’edera risalendo il polso // avremmo potuto tutto», p. 41; «L’aria mi arrende / come piega l’ulivo in giardino / è la nostra impotenza / a baciarci la fronte // un congedo che sa si presenza, / misteriosa, di notte», p. 44; «Volevo spiegarmi l’amore / ma la ragione è una cosa piccola», p. 46) non coincide di certo con una rassegnazione che “nega” una sponda aperta all’alterità, se è comunque possibile affermare, nonostante tutto, che «Dio è anche in te // […] // soprattutto in te // che neppure ostenti / la fonte prima / del tuo amore» (p. 45), cioè «somiglianza» (p. 46) in tutto il creato.
Forte della sfida che riecheggia volutamente quella drammatica della Achmatova («e la vita / puoi raccontarla, puoi?», p. 49), l’ultima sezione del libro, Mare cardinale, che riprende l’elemento geografico predominante della “sua” Pescara, l’io poetico della Iuliano in questa immagine-mitologema primordiale può dunque annullarsi, ‘naufragare’ in quella realtà che è in ultima istanza comunione, ovvero agognato approdo di quel sì originario da cui tutto nasce e a cui tutto ritorna: «La luce stamane / addolora / litanie dipinte sui muri / in stazione gente / che non conoscerò. // Ho parlato con uno / ai binari, il treno / tarda a partire e l’anima mia / ha milioni di anni» (p. 53).
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